venerdì 1 novembre 2013

La storia come progressi dello spirito umano: c'era una volta... (a proposito di uno scritto di Condorcet)






I CARATTERI DELLA SPIRITUALITÀ
Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet



Io ho nella mente, sempre, l’effetto di postulato dello scritto di Condorcet (matematico, economista, filosofo), Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humaine. Mi viene spontaneo descrivere quello che considero in fondo un racconto attraverso la formulazione di due principi, o assiomi: che se vi sono stati progressi dello spirito umano allora vi è stata storia; e prima ancora: che il fatto è progresso. 
Alla storia, al racconto, senza codesti principi, verrebbero come a mancare le ragioni e i presupposti. Oppure sarebbe dato campo libero alla fantasia, al costrutto poetico, figurandosi ancora uno gnomo, o un cavallo che raccontano dell'uomo, scomparso dalla faccia della Terra, in un clima di dopo-storia e anche un po’ leopardianamente; per non parlare del puro e semplice ridire della eclisse del sistema spirituale hegeliano (senza tenere conto del suo valore, storico-obiettivo), le riflessioni di A. Kojève e di chi ne ha tratto alimento attribuendo l'unica autorità, in fatto di teoria dello spirito, al filosofo tedesco. E ora dunque mi domando con riferimento al sette-ottocento: prima i francesi forse che i tedeschi, quali eccellenti sistematori? 

sabato 7 settembre 2013

Letteratura e storia




I “Mille”



Giuseppe Cesare Abba, scrittore ottocentesco e meglio risorgimentale, insegnante, infine senatore del Regno, avendovi preso parte quale patriota, ha posto la propria impronta letteraria (in Da Quarto al Volturno) sulla famosa impresa dei Mille, che nella sua prima fase salpò dalla costa ligure e giunse a Marsala nel maggio del 1860.
Lo ha fatto da cronista appassionato, romantico, con una sequenza diaristica di brani alcuni dei quali di radicale intensità, come quello del pastore del feudo di Rampagallo che dopo avere atteso per via il passaggio dei volontari prima della battaglia di Calatafimi, ad essi affidò - non prima di avere esortato il comandante Carini a puntare decisamente su Palermo -, allontanandolo da sé e spingendolo come verso un precettore, il figlio quindicenne, prendendo poi in lacrime la strada di ritorno verso la sua povera abitazione. Un gesto forse sorprendente perché umano, assai umano; e direi singolarmente razionale, morale, prima ancora che storico.
Quella eroica, spregiudicata impresa, che consisté, per chi vi prese parte, anche in un immergersi nel quotidiano e nel sociale del profondo Sud, fu vissuta dai suoi artefici nella luce di Curtatone e Montanara, di Sapri, del fantasma di Pisacane: vi sono stati insomma giovani, nella nostra storia, che per amore della libertà, nell’idoleggiamento di Garibaldi (il “Dittatore”, il “Generale”, il “Washington d’Italia”, insomma essenzialmente un mito) e nell’ammirazione per i Bixio, i Taddei o altri comandanti, furono capaci di non distinguere - forse perché i giovani come si usa dire si credono immortali - fra la vita e la morte.
Ma dissolte per così dire le nebbie letterarie, pur preziose per il contributo testimoniale, e tolte le passioni, resta il fatto, per ciò che dalla narrazione emerge, che a dare primo e decisivo impulso a quell’impresa furono soprattutto patrioti del Nord, provenienti da Lombardia, Piemonte e Liguria (ad esempio i “carabinieri genovesi”): alla partenza da Quarto i siciliani, gruppo di valorosi, si potevano contare in numero non superiore ai venti.

giovedì 5 settembre 2013

Postille a uno scritto su “scrittura (e lettura)”




1.- Scrittura e lettura possono considerarsi come le due operazioni elementari, strettamente connesse fra loro, alle quali un testo si presta, ovvero attorno alle quali, in relazione alle quali, un testo si costituisce.
Questo è vero così per la cultura pre-gutenberghiana, come per quella gutenberghiana, ovvero la cultura della stampa su carta e della carta per stampa, come per quella o quelle epoche che si sono andate innestando nell’epoca gutenberghiana: l’epoca elettrica o telegrafica, l’epoca del medium magnetico, elettrico od elettronico. 

mercoledì 4 settembre 2013

"Omnis machina a Deo" (?): studio preparatorio per uno scritto su “L’anima e la macchina”




SULLA «MODERNITÀ» E LA «MACCHINA»


Chi è?

1.- L’anima, leggo in un testo del settecento,  «non è [...] altro che un termine vago, di cui non possediamo alcuna idea e di cui un buon intelletto deve servirsi per nominare quella parte che pensa in noi»[1]. Dunque è come si discendesse da Dio verso l'uomo in forza dell'anima
Io direi anche questo, inoltre, prendendo spunto da tale brano: che l’anima, se in qualche modo si giunge a sostenere che essa «non esiste», è proprio ciò che l’essere,  razionale e pensante, dovrà costruirsi. Non sic et simpliciter  come ci si costruisce una finzione o come si ha, mentalmente, un’immagine ma, anche, come si «mette su» una casa, per costituirsi in quanto essere razionale e pensante, e per continuare a stare sulla Terra. Stare sulla Terra nei termini di una fondamentale condizione

giovedì 22 agosto 2013

Scrittura (e lettura)




La "contestualità strutturale"


Quale il rapporto fra scrittura e lettura nella cultura gutenberghiana?; o pre-gutenberghiana; o anche nelle esperienze di scrittura elettronica? E dunque: quali elementi della scrittura in quanto scrittura emergono alla luce delle esperienze legate alla cultura elettronica, nella quale tre sono le epoche che si ha modo di confrontare?
Secondo le indicazioni fornite da certa filosofia francese contemporanea, l'evento di scrittura è condizionato da quello di lettura molto più di quanto comunemente non si creda: scrittura e lettura sono legate non semplicemente da un vincolo di susseguenza o di conseguenza, per cui la seconda viene dopo la prima, la seconda vuole la prima quale suo presupposto ma da un vincolo di contestualità strutturale.
Secondo questa teoria la lettura è costitutiva della scrittura in un modo tale per cui nello scrivere si scrive, è inscritto, anche, il poter-leggere, la leggibilità. Vi sarebbero così nell’atto di scrittura come due personalità in una; per cui si può dire anche che la scrittura in quanto tale è iterabile; laddove lo iter (il "nuovamente") di "iterabile" (dal sanscrito itara: "altro") starebbe a significare qualcosa come: prevedere, avendola in sé predisposta, l'alterità, l'elemento sociale dell'altro da sé [1]. Il sociale dunque, ovvero la esteriorità.

sabato 27 luglio 2013

Il racconto del personaggio Cleòbulo in Diderot, "La passeggiata dello scettico"



Denis Diderot


Il "sistema"

Nella Promemade du sceptique, di Diderot [1], scritto dell’irriverenza reso in forma dialogata e allegorica, il "saggio" Cleobulo, che vive da tempo nella quiete di una sua piccola proprietà - "une petit terre qui lui reste des débris d'une fortune assez considerable", il suo désert; ma egli è il suo parco, la sua campagna; che è volutamente libera, senza un "giardiniere" -, narra ad Aristo, suo ospite, di un suo sogno, di una sua “passeggiata” attraverso tre “viali”: “delle spine”, “dei castagni” e “dei fiori”. 
Se Aristo è invitato a riconoscersi in uno di essi, se cioè il racconto è presentato in chiave di enigma, questo ci riconduce al fatto che i simbolici “viali” - primo generale segno della dialetticità del reale - sono un modo di classificare la natura umana, in relazione ai fatti della religione e della politica. E sono ambienti, significativi, che dicono dei diversi modi di vivere e di pensare. 
Ma perché - anche - mi domando, i viali? La narrazione avviene mentre i due camminano nel parco: alle volte accade che si abbia in noi desiderio di camminare, non essendo, questo, altro che il bisogno di pensare, di avere, per sé stessi, uno "schiarimento"; ottenere per la ragione un guadagno; e al di sopra di tutto un piacere. Camminare, in fondo, fa "bene", se è in noi stessi che si vuole camminare: camminare è pensare. 

sabato 13 luglio 2013

MEZZI E FINI (La tecnica e il denaro) (Primo abbozzo)




Il sentimento, la tecnica e la storia.

In G. Simmel, il discorso sulla tecnica è il discorso del senti­mento, umanistico, o della paura, che si contrappone alla storia. 
L’essenza, cioè, per ciò che quel sentimento è, non s’identifica con la storia e la tecnica.
L’essenza è come qualcosa di pesante e «morale», resistente, che si oppone a qualcosa di leggero e immorale; essa è essenza propria, minacciata e da custodire: così è fatto il sentimento.
Esso, ciò che si trova davanti e che lo nutre, è qualcosa come una rivoluzione tecnica, progressi sensibili, che investono la società e la sensi­bilità dell’io sociale.
Rivoluzione, dal canto suo, è qualcosa di fronte a cui il sentimento, come sentimento dell’uomo, non si riconosce. 

Georg Simmel
Che cos’è, per questo sentimento umano, che si presenta, l’epoca nella quale si scrive? L’epoca nella quale si scrive, meglio: che si ha davanti agli occhi e si vuole descrivere, dato questo sentimento, non è l’epoca che segna un balzo in avanti nella potenzialità tecnica dell’uomo (quella stessa che dà la possibilità all’uomo di farsi forte del lusso di sentimenti di ritrosia), laddove l’una e l’altro appaiono vicini; ma l’epoca del «dominio della tecnica» sull’uomo.

venerdì 5 luglio 2013

Uomini e macchine: la teoria dei servomeccanismi





Mi piace, fra le immagini luhaniane, quella dei servomeccanismi, non so se perché meno enfatizzata rispetto ad altre; ma certo perché vicina alla vita concreta: nessuna dichiarazione di principio, nessuna astratta alienazione; dire quello che accade per dire quello che è. 
Noi, in fondo, che cosa siamo chiamati a fare fondamentalmente oggi se non a controllare che tutto funzioni e dunque a curare gli strumenti e il loro funzionamento? Il che è vero, perché il mondo va così, perché macchine e dispositivi sono molti e la mente nel loro impiego tende ad affinarsi, in una cura ineludibile. Di qui la teoria dei servomeccanismi, entrare nella filosofia vivente delle macchine. 
Ovvero - e credo di riprendere in questo la teoria marxiana dell'operaio organo cosciente dell'automa, ovvero dell'accessorietà del "lavoro vivo" rispetto a quello "oggettivato" - io vedo uomini 'liberi' che nelle loro azioni sono realiter servomeccanismi; vedo persone colte che sono indotte a comportarsi come servomeccanismi; democrazie partecipative costruite nella migliore delle possibilità su elettori liberi di essere... servomeccanismi, ecc. Uomini che umanizzandoli nell'azione e cioè nell'uso si riflettono nei meccanismi che hanno umanizzato e che in questo per sempre più tempo, sempre di più, divengono parte preziosa di ciò che adoperano, laddove la praesumptio inconfessata è che la macchina non possa controllare sé stessa. Ovvero, per un principio di pervasività: il controllo dei meccanismi, ciò che contraddistingue un'epoca di macchine, può essere solo meccanismo di controllo (un mondo peraltro in cui non può sorprendere se la libertà stia nelle funzioni che si condividono col mondo animale). 
Io uso dunque controllo; e anche: io controllo dunque uso, io che controllo alla fine sono controllato, monitorato: intorno a questi motti viene a ruotare un po' tutto, segnatamente ogni pretesa. 

L'elettronica libera la scrittura, dice la dottrina; mai la scrittura era stata forse così "libera". Ma tanto più è emancipata la scrittura, tanto più è liberato nella rete il voto politico o amministrativo o un qualsiasi bisogno o che altro, nella sua possibilità tecnica, tanto più non si può non essere connessi e si usano dispositivi in tal senso, tanto più emerge una forma di alienazione: la realtà del controllo la si ha proprio nell'uso della libertà; ma senza mai dimenticare che la libertà ne è l'oggetto. E qui non v'è filosofia del control panel che tenga: che cosa significa alla fine lasciar fare a dispositivi di controllo ma dovere attivarsi affinché ciò avvenga? Se la teoria è vera, allora non so se ne sia più sconfessata che tradotta la dottrina dell'alienazione. Difficile ritenere che il servomeccanismo sia semplicemente 'servo'. 

domenica 30 giugno 2013

Berkeley e le macchine (già, quale la libertà?)




Il valore del motto esse est percipi, del vescovo irlandese George Berkeley - per cui nulla esiste al di fuori della nostra percezione -, distolto da certa interpretazione ontologista e ancora libresca, lo si nota oggi innanzi tutto nell’ambito della cultura delle macchine e dei sistemi, e cioè nell'èra elettronica; se si pensa che tale cultura per essere necessariamente collegata alla cultura biologica e a quella psicologica, è anche «cultura della percezione», interfacing, ovvero alla cultura del costituirsi fondante della percezione; se si pensa alla cosiddetta «unità percettiva», nella quale il tema è il rapporto fra un «materiale» ed un «immateriale» ed in ciò fra «reale» e «virtuale», negli sviluppi della tecnica e scienza dell’informazione. Il tutto, ovviamente, ritenendo non proprio paradossalmente l'uomo come l'ente più somigliante alle macchine e alla loro natura artificiale. 

domenica 5 maggio 2013

Memoria storica, memoria digitale




Tale è il tempo, vacillante non da oggi, sino a rischio d’inesistenza, sotto i colpi ad esso inferti dalla fisica e dalla filosofia, quanto ci è consentito distinguere, con riferimento alla teoria della memoria, fra memoria storica e memoria digitale.
La seconda si addice propriamente alla nostra epoca, di comunicazioni "in rete"; la prima nasce in modo critico con l’umanismo storico; essa anche però non è riducibile all’umanismo ma si aggira nel traditur della mente personale o di quella popolare; è cioè sia scritta e documentata sia parlata.

La teoria della memoria è antica e origina dalla filosofia greca, allorquando questa trae da certo misticismo o spirito religioso determinati contenuti. L’importanza della questione viene in risalto con i presocratici, secondo i quali: «niente maggiormente importa per la scienza, l’esperienza e l’intendimento, della capacità di memorizzare»[1].

martedì 30 aprile 2013

Sulla "fine" della storia




Georges Bataille
Sulla fine della storia è il titolo di una raccolta di articoli di vari autori (Bataille, Wahl, Weil, Kojève) nei quali vengono commentati alcuni fra i luoghi fondamentali del pensiero hegeliano. Ed è un titolo - immagino - fortunato. 
Il libro, curato da Maurizio Ciampa e Fabrizio Di Stefano, trae spunto sostanzialmente dal corso sulla Fenomenologia dello spirito che Alexandre Kojève (o Kojèvnikov, come egli si firmava nelle sue prime recensioni sulle Recherches Philosophiques), giunto poco più che trentenne a Parigi, tenne in questa città fra il 1933 e il 1939. La questione della “fine della storia”, da lui allora sollevata, occupa essenzialmente, fra quelli raccolti nel volumetto, gli scritti di Georges Bataille; il breve saggio di Eric Weil ha per oggetto la “morale” di Hegel, quello di Bataille-Queneau (che risale al 1932) la dialettica della natura di Engels, mentre le riflessioni di Jean Wahl rimandano sostanzialmente al tema che infuocò, nella prima metà dell’Ottocento, le giovani menti della “sinistra hegeliana” (penso a Bauer, Stirner e Feuerbach), cioè il rapporto tra la filosofia hegeliana e il cristianesimo.

Tre saggi sul destino dell'uomo







Aveva inizio così, per mano del prof. Valitutti, maestro indimenticabile di libertà e crocianesimo, il mio esordio, per così dire, in letteratura. Erano anni in cui la fine di qualcosa era celebrata come l’aurora di altro, nella coscienza di una età di mezzo, di non so quale durata…*





1. La fine della modernità





Nella Parigi degli anni ‘30, in un corso su Hegel tenuto presso la celebre Ecole pratique des hautes études, e immortalato anche dalla presenza di intellettuali del calibro di Aron, Bataille, Breton, Lacan, Merleau-Ponty e Weil, Alexandre Kojève poneva l’inquietante problema della “fine della storia”. 

Nell’interpretare la Fenomenologia dello spirito secondo il profilo della mortalità dell’uomo, egli metteva in risalto soprattutto il valore della “negatività” come principio dell’azione, della libertà storica dell’uomo nella lotta per il dominio della natura. Per “fine della storia” egli intendeva appunto la conclusione di tale vicenda dello spirito.
Il problema si trova riproposto, sempre con riferimento alla vecchia Europa, ma nello spirito dell’età postindustriale, nell’ultimo lavoro di Gianni Vattimo, La fine della modernità[1], che raccoglie una serie d’interventi tenuti in occasione di conferenze, convegni, seminari, e pubblicati in riviste o volumi miscellanei. In esso l’autore si propone (tentativo che peraltro egli sa assai arduo), attraverso una valorizzazione degli scritti tardi di Heidegger e del Nietzsche maturo, di interpretare quella “fine” e nello stesso tempo di suggerire una prima espressione filosofica del “postmo­derno”.
Nel libro la parola “storia” esprime non già il punto di osservazione critico-nostalgico della sua stessa fine, ma, quasi fosse vista ab externo, l’idea che ha governato una stagione del pensiero che sembra giunta al tramonto.
Nel suo contrasto con le nostre attuali condizioni di esistenza (ben ritratte da Arnold Gehlen nella nozione di post-histoire), nelle quali nulla (di nuovo) sembra (più) accadere in una sensazione generale di atemporalità, la “modernità” è, per definitionem, ciò che “conferisce portata ontologica alla storia”"[2].
Questa caratteristica trova riscontro nel fatto che nell’ambito del “moderno”, il pensare, nel suo volgersi indietro per ritrovare il fondamento autentico e per fare in questo modo opera di rifondazione, avviene nei termini della novità, del progresso, del “superamento” (Aufhebung dialettica, marxismo di Bloch e di Adorno, ecc.).

Existentialisme … malgré lui (brevi riflessioni, anche sul personalismo filosofico)



Io traggo il mio piacere (o di che dire?) dalla paura del nulla; io e il nulla così è come ci spartissimo tutto, per una mia naturale tendenza al piacere e per non sapere personalmente che cosa sia davvero il nulla. E gli itinerari pensabili qui sono due: o io contrappongo al nulla il tutto e/o l’Uno, di divina istituzione o di plotiniana memoria, oppure io solo restando immerso in ciò che sento (e il mio sentire qui è recondito) e definisco come “nulla” proclamo il tutto ma come un quid che lo sostituisca. 
Ciò mi accade però senza che io possa davvero identificarmi col nulla: posso decostruire, destrutturare; può accadermi soprattutto in periodi di difficoltà economiche e/o cattivi rapporti sociali e affettivi, che io a tratti non mi riconosca più in questa o quella cosa che faccio, che emergano nel disagio o a causa dell'età aspetti della personalità totalmente sorprendenti, che io poco prima ignoravo completamente; ma il nulla resta - se non si vuole incorrere ancora nella dialettica idealistica - quanto meno nella condizione del sentimento o dell’istinto, o della traducibilità in motto; in un buio irriducibile. E poiché posso sospettare che nemmeno il suicidio mi doni il nulla, resta da osservare quel sentire, o sentimento, per quello che se ne può cogliere con riferimento almeno al nostro tempo e meglio alla nostra contemporaneità. E io qui non trovo termine più generale ma indicativo della parola “morale”. Ovvero se non esiste il nulla allora esiste una sfera tematica generale che definiremo “morale”. 
È un po’ questa - credo - la via esistenzialistica che mi sembra più di un filosofo o pensatore a noi coevo si trova o si è trovato a percorrere, e aggiungo subito senza nulla voler togliere all’esistenzialismo: malgrè lui, cioè senza volerlo, senza aver prima determinato itinerario o percorso.

giovedì 14 marzo 2013

La questione di realtà (quaestio de realitate)


(riferimenti tratti dall'e-book Crepuscolo dell'uomo di Gutenberg) 


A un certo punto McLuhan definisce la questione mediologica come la «strutturazione gutenberghiana della realtà»[1]. L’autore cioè stabilisce un legame, un nesso, fra la realtà e il modo di comunicare, ovvero forse più in generale: fra la realtà e la tecnica, in quanto strumentale. (E io aggiungerei: realtà e percezione, ricordando Berkeley.) 
È che nel tramonto della cosiddetta print culture la rielaborazione della realtà - e la realtà che non è più una e si espande - assume un ruolo rilevante. 
Ovvero: che le macchine non da oggi si lascino configurare e riconfigurare non è una prova del loro banale assoggettamento all’uomo e invece di altro, la cui coscienza, al di là delle parole, non è perfettamente tale. 

domenica 3 marzo 2013

Preliminari per uno studio sulla "grammatologia"




Se vado a cercare nella enciclopedia Encharta il lemma «grammatologia», non trovo una definizione ma il rinvio generale a «Derrida, Jacques». Se vado a cercare in modo ipertestuale sotto questo nome, mi rendo conto della singolarità e personalità del primo lemma cercato, ovvero della sua stretta connessione con il nome di un Autore.
Il rinvio può essere ritenuto singolare, se si considera che del nostro lemma è dato anche incontrare una definizione in senso linguistico: studio della resa grafica dei fatti linguisitici. Il che significa: un che di diverso rispetto al progetto di Derrida, teso a differenziare scrittura e linguaggio.
Jacques Derrida
Allora bisogna andare all’opera derridiana che reca questo titolo, Grammatologie, e ricostruire la definizione. La grammatologia è la scienza della scrittura, ecc.

lunedì 18 febbraio 2013

Amarcord: il telegrafo e il giornale




Il telegrafo, per sua natura, trasforma profondamente l’idea di scrittura e meglio tanto la sconvolge quanto non fa sospettare alcuna trasformazione. Esso storicamente s’insinua nella scrittura, rispetto alla stampa, come qualcosa che è più-che-scrittura; o che comunque non sembra avere nulla a che fare con essa. 
La proposizione, la scrittura, da una parte sono lettere stampate, dall’altra sono notizia, che va subito data, che deve accedere al più presto al sociale, che è quello che essa ritrae, in modo diretto. Venendo per così dire a ridimensionarsi per questo secondo aspetto della cosa l’idea o l’immagine del tempo come tempo cristallizzato in una pagina scritta o stampata, o in lettere dell’alfabeto. E cioè ridimensionandosi il tempo lineare laddove potesse mutare il tipo di scrittura per la sua destinazione, in base cioè allo scopo; e ciò avvenisse a favore di un tempo vivo di scrittura. Ciò che accade col telegrafo è che il tempo è azzerato ed espanso, tenuto quasi in stand-by nello stesso gesto.

martedì 12 febbraio 2013

La "morte" del libro



(riferimenti tratti dall'e-book Crepuscolo dell'uomo di Gutenberg) 


Marshall McLuhan

Ne La galassia Gutenberg, riallacciandosi al pensiero del matematico Whittaker, McLuhan sottolineava il legame fra uno spazio “contenitore neutro”, gassendiano quanto euclideo, o uno spazio anche newtoniano, che in sé stesso continuava ad essere “niente più di una non entità, senza alcuna proprietà eccetto la capacità di essere occupato”, e la scrittura fonetica, legata soprattutto alla stampa ed alla tipografia, con la sua “finzione di omogeneità e di uniforme continuità”.
Quello spazio “vuoto” perché puramente fisico, secondo McLuhan, non avrebbe turbato la cultura della stampa, laddove questa aveva separato “la sua consapevolezza visiva dagli altri sensi”. Ed anzi vi avrebbe trovato una garanzia di perpetuazione, una complicità, con la sua “divisione in settori della conoscenza”, laddove la scienza fosse priva d’influenze “sull’occhio e sul pensiero”.