lunedì 20 ottobre 2014

RIFLESSIONI SULLO "ES GIBT SEIN" · (per la riscrittura di un saggio del 1999)



§ 1.- Per secoli, secondo Heidegger, l’essere è stato pensato come esser presente, nel senso temporale che noi attribuiamo solitamente a questa espressione; nel senso cioè in cui “Essere, in quanto presenza, è determinato tramite il tempo”[1].

Ovvero: l’essere è sempre stato rappresentato e percepito dalla ontologia come fosse l’ente[2] (tŒa önta), il quale a sua volta è stato “[…] concepito […] come ‘presenzialità’, cioè […] in riferimento a un determinato modo del tempo, il presente[3]. O anche: spesso noi cerchiamo l’essere in quanto tale e cogliamo invece l’essente[4] (: “l’essere dell’ente”, laddove l'accento cade sull'ente).
Tutto questo, ancora, nel senso per cui nella stessa “oggettualità”, nello stare qualcosa di fronte a noi in quanto oggetto, si può ravvisare un modo della presenza[5].
Nella parte finale di Sein und Zeit si ha, su questa linea, il riferimento critico alla filosofia di Hegel, il quale aveva asserito fra l’altro: “solo il presente è, il prima e il dopo non sono” e ancora: “l’oggetto della filosofia è il presente, cioè il reale”[6]. La riflessione critica si può estendere però sino a risalire all’antichità: della oésÛa  greca e della parousÛa si può affermare che esse racchiudono in sé, in modo predominante, il senso del tempo.
Dunque, secondo Heidegger, l’essere quale “[…] essere dell’essente, all’inizio della storia dell’occidente, e per tutto il suo corso, appare come presenza, come Anwesen[7].
Ma: l’essere “non è una cosa”; “Esso non si lascia, come l’essente, rappresentare e presentare oggettivamente”[8]; esso non passa con il tempo, esso è “niente di temporale”[9]; e, a sua volta: “il tempo stesso non è niente di temporale, come del resto non è qualcosa di essente”[10].

mercoledì 15 ottobre 2014

La cultura della distanza (Kultur der Abstand, Entfernung, ecc.)


 

Caratteristica generale dell’industria e tecnica del trasporto e/o della comunicazione - ma anche di quelle fotografica, cinematografica, televisiva, informatica e telematica (ché in esse si hanno nascita ed evoluzione del “doppio” del sé - forse un destino, destato dalla tecnica) - è quella di abbattere i confini territoriali come fattore di cultura, ovvero di cambiare il rapporto dell’uomo con la geografia vissuta, con il mondo-terra, con l’altro, con il tempo. Non solo nel senso di vincere la distanza ideando e realizzando mezzi di comunicazione vieppiù veloci e di facile utilizzo e invece anche di produrre per paradosso una cultura della distanzaQualcosa per cui la distanza, combattuta, dominata, regolata, s’impone - per un principio d’ironia, un po’ come accade alla "ragione" di hegeliana memoria o agli “oggetti” di Baudrillard - e viene introiettata. Ovvero per cui il sentimento della distanza diviene precondizione per poter vincere la distanza materiale (spazio e tempo) e assumerne il governo, riunendo così ciò che altrimenti dividerebbe soltanto. 
Maggiore dunque sarà la potenza e velocità del mezzo di trasporto e/o di comunicazione, maggiore la distanza fra un punto “A” - mettiamo Roma - e un punto “B” - mettiamo Parigi -; maggiore sarà lo spazio da percorrere nel minor tempo possibile, più forte nella progettazione e nella psicologia dell’uso in generale sarà il senso e valore della distanza.
Ci si allontanerà sì insomma dal punto “A”, di partenza, lo si farà sì per una volontà di espansione e di potenza (fu Napoleone che avendone intuita l’importanza attuò la prima rete di comunicazione telegrafica organizzata) ma al fine di avvicinare, ovvero così avvicinando. Allontanare dunque per avvicinare, allontanarsi avvicinandosi, consapevoli di poterlo fare; laddove l’avvicinamento sarà il prodotto finale e la distanza ora il presupposto necessario, ora elemento costruttivo, ora il dato psicologico prevalente.