martedì 30 aprile 2013

Sulla "fine" della storia




Georges Bataille
Sulla fine della storia è il titolo di una raccolta di articoli di vari autori (Bataille, Wahl, Weil, Kojève) nei quali vengono commentati alcuni fra i luoghi fondamentali del pensiero hegeliano. Ed è un titolo - immagino - fortunato. 
Il libro, curato da Maurizio Ciampa e Fabrizio Di Stefano, trae spunto sostanzialmente dal corso sulla Fenomenologia dello spirito che Alexandre Kojève (o Kojèvnikov, come egli si firmava nelle sue prime recensioni sulle Recherches Philosophiques), giunto poco più che trentenne a Parigi, tenne in questa città fra il 1933 e il 1939. La questione della “fine della storia”, da lui allora sollevata, occupa essenzialmente, fra quelli raccolti nel volumetto, gli scritti di Georges Bataille; il breve saggio di Eric Weil ha per oggetto la “morale” di Hegel, quello di Bataille-Queneau (che risale al 1932) la dialettica della natura di Engels, mentre le riflessioni di Jean Wahl rimandano sostanzialmente al tema che infuocò, nella prima metà dell’Ottocento, le giovani menti della “sinistra hegeliana” (penso a Bauer, Stirner e Feuerbach), cioè il rapporto tra la filosofia hegeliana e il cristianesimo.

Tre saggi sul destino dell'uomo







Aveva inizio così, per mano del prof. Valitutti, maestro indimenticabile di libertà e crocianesimo, il mio esordio, per così dire, in letteratura. Erano anni in cui la fine di qualcosa era celebrata come l’aurora di altro, nella coscienza di una età di mezzo, di non so quale durata…*





1. La fine della modernità





Nella Parigi degli anni ‘30, in un corso su Hegel tenuto presso la celebre Ecole pratique des hautes études, e immortalato anche dalla presenza di intellettuali del calibro di Aron, Bataille, Breton, Lacan, Merleau-Ponty e Weil, Alexandre Kojève poneva l’inquietante problema della “fine della storia”. 

Nell’interpretare la Fenomenologia dello spirito secondo il profilo della mortalità dell’uomo, egli metteva in risalto soprattutto il valore della “negatività” come principio dell’azione, della libertà storica dell’uomo nella lotta per il dominio della natura. Per “fine della storia” egli intendeva appunto la conclusione di tale vicenda dello spirito.
Il problema si trova riproposto, sempre con riferimento alla vecchia Europa, ma nello spirito dell’età postindustriale, nell’ultimo lavoro di Gianni Vattimo, La fine della modernità[1], che raccoglie una serie d’interventi tenuti in occasione di conferenze, convegni, seminari, e pubblicati in riviste o volumi miscellanei. In esso l’autore si propone (tentativo che peraltro egli sa assai arduo), attraverso una valorizzazione degli scritti tardi di Heidegger e del Nietzsche maturo, di interpretare quella “fine” e nello stesso tempo di suggerire una prima espressione filosofica del “postmo­derno”.
Nel libro la parola “storia” esprime non già il punto di osservazione critico-nostalgico della sua stessa fine, ma, quasi fosse vista ab externo, l’idea che ha governato una stagione del pensiero che sembra giunta al tramonto.
Nel suo contrasto con le nostre attuali condizioni di esistenza (ben ritratte da Arnold Gehlen nella nozione di post-histoire), nelle quali nulla (di nuovo) sembra (più) accadere in una sensazione generale di atemporalità, la “modernità” è, per definitionem, ciò che “conferisce portata ontologica alla storia”"[2].
Questa caratteristica trova riscontro nel fatto che nell’ambito del “moderno”, il pensare, nel suo volgersi indietro per ritrovare il fondamento autentico e per fare in questo modo opera di rifondazione, avviene nei termini della novità, del progresso, del “superamento” (Aufhebung dialettica, marxismo di Bloch e di Adorno, ecc.).

Existentialisme … malgré lui (brevi riflessioni, anche sul personalismo filosofico)



Io traggo il mio piacere (o di che dire?) dalla paura del nulla; io e il nulla così è come ci spartissimo tutto, per una mia naturale tendenza al piacere e per non sapere personalmente che cosa sia davvero il nulla. E gli itinerari pensabili qui sono due: o io contrappongo al nulla il tutto e/o l’Uno, di divina istituzione o di plotiniana memoria, oppure io solo restando immerso in ciò che sento (e il mio sentire qui è recondito) e definisco come “nulla” proclamo il tutto ma come un quid che lo sostituisca. 
Ciò mi accade però senza che io possa davvero identificarmi col nulla: posso decostruire, destrutturare; può accadermi soprattutto in periodi di difficoltà economiche e/o cattivi rapporti sociali e affettivi, che io a tratti non mi riconosca più in questa o quella cosa che faccio, che emergano nel disagio o a causa dell'età aspetti della personalità totalmente sorprendenti, che io poco prima ignoravo completamente; ma il nulla resta - se non si vuole incorrere ancora nella dialettica idealistica - quanto meno nella condizione del sentimento o dell’istinto, o della traducibilità in motto; in un buio irriducibile. E poiché posso sospettare che nemmeno il suicidio mi doni il nulla, resta da osservare quel sentire, o sentimento, per quello che se ne può cogliere con riferimento almeno al nostro tempo e meglio alla nostra contemporaneità. E io qui non trovo termine più generale ma indicativo della parola “morale”. Ovvero se non esiste il nulla allora esiste una sfera tematica generale che definiremo “morale”. 
È un po’ questa - credo - la via esistenzialistica che mi sembra più di un filosofo o pensatore a noi coevo si trova o si è trovato a percorrere, e aggiungo subito senza nulla voler togliere all’esistenzialismo: malgrè lui, cioè senza volerlo, senza aver prima determinato itinerario o percorso.