Georges Bataille |
Il libro, curato da Maurizio Ciampa e Fabrizio Di Stefano, trae spunto
sostanzialmente dal corso sulla Fenomenologia dello spirito che
Alexandre Kojève (o Kojèvnikov, come egli si firmava nelle sue prime recensioni
sulle Recherches Philosophiques), giunto poco più che trentenne a
Parigi, tenne in questa città fra il 1933 e il 1939. La questione della “fine
della storia”, da lui allora sollevata, occupa essenzialmente, fra quelli
raccolti nel volumetto, gli scritti di Georges Bataille; il breve saggio di
Eric Weil ha per oggetto la “morale” di Hegel, quello di Bataille-Queneau (che
risale al 1932) la dialettica della natura di Engels, mentre le riflessioni di
Jean Wahl rimandano sostanzialmente al tema che infuocò, nella prima metà
dell’Ottocento, le giovani menti della “sinistra hegeliana” (penso a Bauer,
Stirner e Feuerbach), cioè il rapporto tra la filosofia hegeliana e il
cristianesimo.
Non che Bataille non si soffermi sull’ateismo di Hegel, ma in lui la questione
sembra aver perso il fascino e la specificità tradizionali. Infatti, rispetto
alla fondamentale laicità della storia, decisa proprio dal modo come questa è
giunta con Hegel al suo compimento - avendo avuto cioè Dio solo come “
reggente” - il cristianesimo non è più una religione (ma solo la memoria della
concezione ebraico-cristiana dell’uomo) e la religione non è più un problema,
resistendo solo, nel significato non religioso dei suoi riti, come dato
etnologico.
Ciò che differenzia Bataille dagli altri
autori - ciò che rende interessanti soprattutto i suoi scritti - è il fatto che
egli rivisiti Hegel con la sensibilità, non tradizionale, dell’individuo
post-storico.
Il suo hegelismo sui generis è caratterizzato dalla fusione di
un linguaggio che si rifà alla filosofia con un modo d’intellezione che viene
ritenuto invece extrafilosofico. Nei suoi interventi traspare l’impossibilità
di superare Hegel e dalle sue conclusioni una chiara non-incompatibilità con i
concetti fondamentali espressi nella Fenomenologia; ma con la stessa
credibilità si può dire che egli ha in certo qual modo demolito la filosofia
hegeliana.
Alexandre Kojève |
Più che alle incertezze dell’interpretazione, questa
caratteristica appartiene al suo stesso discorso, che avviene “nelle pieghe”
delle “grandi concettualità hegeliane e cristiane, reperendone - le parole sono
di Di Stefano - i punti di catastrofe, i vuoti e i silenzi che le eccedono e
insieme le fondano” (p. 152).
Riflettendo oltre, ma dentro quelle
“concettualità”, egli cerca di scandagliarne in modo personale la dimensione
antropologica e soggettiva, scindendo (in un senso problematico, non
propriamente dualistico) ciò che il pensatore di Stoccarda aveva unito: la
“morte” e la “coscienza”, la “morte” e la “storia”, la “storia” e l’idea della
sua “fine”. Nel fare ciò egli attinge a piene mani alla lezione di Kojève (la
quale agisce da potente filtro tra lui e Hegel), in cui venivano evidenziati,
del pensatore tedesco, soprattutto due princìpi: quello della “morte” e quello
della “soggettività”, ovvero della fondamentale antropologia. Ma se l’esegesi
di Kojève appare ancora esitante sulla soglia della morte della filosofia, le
argomentazioni del suo interlocutore Bataille hanno scientemente quella morte
come presupposto.
La differenza tra i due può essere illustrata nel modo che segue: se Kojève
(“il vigile e saggio Kojève”, secondo la definizione datane da Maurizio Ciampa)
si rese “estensore dell’epitaffio” della sua epoca senza essere coinvolto nei
ritmi e nelle ansie della Francia degli anni venti e trenta, Bataille, suo
contemporaneo, è interprete autentico di quel periodo, nel quale (sono i
sintomi della post-storia) il linguaggio e parimenti il logos e
il “discorso” (elementi costruttivi della costruzione kojeviana) sembrarono
destinati a frantumarsi, mentre 1’“essere”, dal quale Artaud e Lévinas
predicarono con forza l’evasione, s’immedesimava, non solo geograficamente, con
la vecchia Europa.
In questo senso, se il russo, leggendo la Fenomenologia, recepisce
l’idea della “fine della storia” - esito necessario della stessa costruzione
hegeliana - anche come dato di fatto, il francese, parlando dentro il tempo del
suo (preteso) avverarsi, interpreta quella fine come una situazione quasi
ipotetica che rimanda, comunque, al suo germe filosofico. Solo prendendo molto
sul serio i dogmi hegeliani Bataille può penetrare con l’arma del dubbio -
problematico, ancor prima che metodico - nel tessuto logico di essi fino a
identificarne la fragilità. La sua forza consiste, un po’ come accade in certa
tradizione scettica francese, nei sensi riposti e negli effetti particolari
dell’argomentazione, nella stessa tecnica con la quale essa parrebbe
confezionata, ancor prima che nelle conclusioni sistematiche che egli stesso
può trame. La verità, gli aspetti concludenti del suo pensiero, vanno ricercati
molto spesso nel modo come egli riespone concetti non suoi, prima ancora che
nei concetti che egli stesso esprime.
Ciò di cui si parla nel volumetto in esame, ciò che muore, ovvero la “storia”,
definisce essenzialmente quell’energia spirituale attiva (“negatività”,
“azione”) dell’“uomo” (eroico, in ciò) che viene impiegata nella spontanea
lotta che questi conduce contro la natura e che è volta a uccidere, a
distruggere e/o a trasformare; nell’operare instancabile dell’ “intelletto” nei
confronti del “dato “, ovvero nella separazione incessante, dialettica,
dell’essere umano dall’animale, che è “antropoforo”.
Non si tratta quindi del grande scenario
nel quale si muovono popoli e Stati o della spiritualità di entrambi, ma di una
sorta di antefatto (insito nella “soggettività “) che ne spiega la qualità
filosofica. Innestandosi su tale aspetto subiettivo, valorizzato dall’esegesi
kojeviana, le riflessioni di Bataille (ri)sospingono quasi impercettibilmente
concetti (ritenuti) ormai acquisiti e anche tradotti nel linguaggio della
psicologia, verso la loro stessa logica interna, lasciando spesso trasparire la
problematicità irrisolta che li fonda.
La “fine della storia”, come “morte
dell’uomo propriamente detto” (Kojève), dell’ “homo dialecticus”
(Ciampa), dell’ “eroe organizzatore”, di ciò che sono logos e
“discorso” in Kojèye, ha una sua evidenza; e in tal senso Bataille parla di
“società omogenea”, gestita “validamente” dalla “cultura tecnica”. Ma a
differenza del russo, che si limita ad un accostamento pacifico, lineare, fra
il pensiero di Hegel e i tratti caratteristici degli “anni trenta”, Bataille
nega la consecutio logica fra i due aspetti. Egli lascia
intendere che come l’idea della morte, ragionevolmente, non è condizione né
necessaria né sufficiente per poter parlare di “fine della storia”, così la
“società omogenea” (peraltro, a quanto è dato comprendere, non ancora
realizzatasi in pieno) non necessariamente s’identifica con quella “fine”. Egli
muove dal rilievo kojeviano sulla “funzione decisiva della morte” nella
filosofia hegeliana per lasciare intendere: subito dopo, che quella “funzione”
non può non riconoscersi, ad un più attento esame, in un “punto estremo
raggiunto dall’immaginazione” (p. 23).
Egli parla, in tal senso, della “delusione dell’uomo che cerca
nella morte il segreto dell’essere, senza tuttavia trovare nulla, non potendo
conoscere e cessare di essere al tempo stesso” (p. 23). Il costume tipicamente
“storico” del sacrificio dimostra ciò a contrario, perché alla
consumazione di quel rito l’uomo sarebbe indotto per poter (credere di)
conoscere la propria morte: “Nel sacrificio il sacrificante si identifica con
l’animale colpito a morte. Così muore vedendosi morire, e anche, in certo modo,
di sua propria volontà, in accordo con l’arma del sacrificio. Ma è una
commedia!” (p. 83).
La morte, la cui conoscenza era nella Fenomenologia condizione
insopprimibile per il soddisfacimento e per la realizzazione della coscienza,
esula per Bataille dalla sfera del “pensabile” in quanto “esperienza sottratta,
[...] esperienza (dell’) impossibile” (p. 165): “La sola compiutezza possibile
della conoscenza - egli scrive - ha luogo se io affermo dell’esistenza umana
che essa è un inizio che non sarà mai compiuto”. E ancora: “La verità che io
percepisco è fondata sull’incompiutezza” (p. 155).
Come egli svela l’estraneità dell’idea della morte rispetto alla
verità della coscienza, così egli distingue tra quella e la “fine della storia”:
dell’una, egli dice, possiamo essere certi, dell’altra no; all’una non ci è
dato assistere, presenziare all’altra non potrà mai essere una certezza.
Si potrà dunque discutere di codesta società, esprimerne i
connotati, e si potrà parimenti parlare della “fine della storia”: ma il
rapporto fra i due discorsi sarà lo stesso che intercorre fra un’esperienza di
vita e la morte, che può essere vissuta solo come angoscia. Alla luce di questa
separazione la bella frase di Kojève sulla post-storia: “Guerre e rivoluzioni
non arriverebbero comunque a provare che la storia continua” (p. 24), può non
essere letta come se fosse una definizione e può significare anche che noi
possiamo o potremo vivere la fine della storia senza poter affermare con
certezza che la storia è finita. In realtà, come dimostra la minuta di una
lettera a Kojève, Bataille non crede che tutto sia finito: ciò che è morto è
solo un tipo di manifestazione dell’“uomo” e della “negatività”, non l’“uomo” e
la “negatività” in sé stessi. Questa convinzione non esclude, naturalmente, che
il postulato kojeviano valga una “qualunque verità stabilita”.
Ma la diffidenza, tipicamente hegeliana, nei confronti della
natura e dell’animale, i quali hanno bisogno dell’intervento esterno fattivo
dell’ “intelletto”, di un “io personale puro” dell’uomo, per entrare nel
movimento della storia, in Bataille sembra cedere il passo al bisogno costante
di una riflessione ulteriore. Egli sembra solo ripetere le parole di Kojève, ma
in realtà le ripropone per svuotarle della certezza della loro significazione.
Ciò che nel russo sembrava chiaro, palmare, (ri)diviene, nella esposizione del
francese, denso di ambivalenze e problematico.
Il discorso, centrale, sulla “negatività”, la quale nella poststoria
non è più “molla e momento dell’azione”, ma il cui “manifestarsi è quello
dell’atto, di quel genere di atti (effusione erotica, riso, oscenità, estasi,
ecc.) che si situano nello spazio della comunicazione” (p. 158), e che è
insomma un “frenetico immobilismo” di energie disimpiegate, si accorda
pienamente, nel suo umanismo, con quello sull’animalità.
Se l’animale, che è nell’uomo, è “antropoforo” (Kojève), ciò dovrà
pur significare (Bataille) che l’importante non è che esso si conservi (ciò
infatti avviene comunque), ma che esso conservi in qualche modo l’uomo.
L’animale, di conseguenza, non è solo ciò che l’uomo uccide nel simbolico rito
sacrificale, ovvero distrugge, nega (giungendo fino al suicidio), soddisfacendo
il primo requisito della “storia”, ma anche ciò che si conserva facendo sì che
l’uomo non muoia. Se Kojève, parlando dell’animale “antropoforo”, lascia cadere
l’accento sulla sua immolazione, in Bataille risulta evidenziata, proprio perché
la “storia” sembra finita, l’umanità che non può fare a meno dell’animale; non
l’aspetto dialettico-ascensionale del “ superamento “, ma, in certo senso, il
fatto di non potersi liberare, in esso, di ciò che si supera. Lo stupore che lo
scrittore francese confessò di avere provato di fronte agli affreschi della
grotta di Lescaux, era dovuto al fatto che in essi l’uomo è raffigurato, non
nel momento della separazione dall’animale, ma nel suo ammantarsi “del
‘prestigio’ che circonda la bestia” (p. 145). L’importanza che questa negazione
della negazione assume in Bataille è indubbia. Come dire: vi sono già stati
periodi nei quali l’uomo ha sentito il bisogno di imitare l’animale e di
confondersi con esso: ciò è accaduto, ad esempio, nel paleolitico (età alla
quale quegli affreschi si fanno risalire), ma può avvenire anche, perché no?,
nella post-storia.
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