domenica 5 maggio 2013

Memoria storica, memoria digitale




Tale è il tempo, vacillante non da oggi, sino a rischio d’inesistenza, sotto i colpi ad esso inferti dalla fisica e dalla filosofia, quanto ci è consentito distinguere, con riferimento alla teoria della memoria, fra memoria storica e memoria digitale.
La seconda si addice propriamente alla nostra epoca, di comunicazioni "in rete"; la prima nasce in modo critico con l’umanismo storico; essa anche però non è riducibile all’umanismo ma si aggira nel traditur della mente personale o di quella popolare; è cioè sia scritta e documentata sia parlata.

La teoria della memoria è antica e origina dalla filosofia greca, allorquando questa trae da certo misticismo o spirito religioso determinati contenuti. L’importanza della questione viene in risalto con i presocratici, secondo i quali: «niente maggiormente importa per la scienza, l’esperienza e l’intendimento, della capacità di memorizzare»[1].
I termini originari della questione potrebbero sembrare non di somma importanza; ma le fiabe vanno prese sul serio, quando si ha a che fare con gli antichi miti. Nel racconto di Eraclide Pontico leggiamo che Pitagora andava dicendo di sé stesso «[…] che sarebbe [...] stato una volta Etalide e sarebbe stato considerato figlio di Ermes; Ermes allora gli avrebbe detto di scegliere quel che volesse, eccetto l’immortalità. Avrebbe dunque egli richiesto di mantenere in vita ed in morte il ricordo degli avvenimenti. Nella sua vita dunque si sarebbe ricordato di tutto; e quando poi morì, avrebbe conservato lo stesso ricordo. In un tempo seguente poi sarebbe passato in Euforbo e sarebbe stato ferito da Menelao […]»[2].
Ermes avrebbe dunque detto a Etaclide, del quale egli era la reincarnazione, di «scegliere quel che volesse, eccetto l’immortalità»; ma verosimilmente il postulato, a questo riguardo, è più o meno il seguente: non potendo scegliere l’immortalità, l’uomo scelse per sconfiggerla di poter conservare i ricordi nonostante la morte.
È vero, il pretesto è mistico: spiegare la continuazione dell’anima individuale attraverso più vite. Ma che il pitagorismo fosse assimilabile ai culti orfici o che Platone avesse tratto insegnamento dai sacerdoti egizi, ciò depone a favore della importanza della questione, della quale la filosofia sempre si sarebbe occupata, da par suo.
Già la curiosità platonica in fondo vale la piega filosofica che la questione presto assume: «Gli uomini - leggiamo in Fedone - quando sono interrogati, purché uno sappia interrogarli con discerni­mento, rispondono da sé stessi su ogni cosa come è [...]»[3]; e già può essere letta con spirito scientifico la distinzione introdotta da Platone e sviluppata da Aristotele in uno dei suoi trattatelli naturalistici (il de memoria et reminiscentia): che la memoria in quanto impressione e conservazione dei dati sensibili dell’esperienza (mnème, che si confà all’ordine percettivo del tempo[4]) si addice al corpo, come dire: ha una sua fisicità; la reminiscenza, il rammemoramento, cioè l’attività del ricordare (anàmnesis), si addice invece all’anima.
Una visione delle cose che potremmo dire complessivamente “moderna”; laddove ciò che si traduce o si tenta di tradurre in scienza è il dualismo anima-corpo, ovvero lo stato originario della interazione. E qui digitale significa: la macchina è anima e corpo allo stesso tempo, e la cosa si ripete sino nell’età elettrica-ed-elettronica. Sempre insomma quel dualismo darà i suoi frutti.
E a questo punto due-tre punti balzano all’evidenza: 1.- che si ha memoria non semplicemente in caso di assenza ma, di più, di qualcosa di cui non si ha esperienza; 2.- che non è detto che quella che si chiamava memoria fosse e sia effettivamente tale e che 3.- tutto sarebbe confluito alla fine nella sua utilità tecnica e cioè quale premessa delle memorie artificiali.

Ma la teoria della memoria, se la si può dichiarare da subito moderna, è perché lo è cronologicamente e origina in tal senso dalla filosofia inglese.
Invece di ricostruire sia pure succintamente il pensiero greco antico avremmo potuto muovere dalla indagine continuativa di Hobbes rispetto ai Latini: «In conclusione - egli scrive - il discorso della mente, quando è governato da un disegno non è altro che la ricerca, o la facoltà di invenzione che i Latini chiamano sagacitas e solertia: una caccia alle cause di un effetto presente o passato, oppure una caccia agli effetti di una causa presente o passata. A volte si cerca ciò che si è perduto e, a partire dal luogo e dal momento in cui lo si è perduto, la mente risale di luogo in luogo e di momento in momento per trovare dove e quando possedeva quell’oggetto, per trovare, cioè, un momento e un luogo determinati dai quali iniziare una ricerca metodica. Inoltre, a partire da questo punto i pensieri ripercorrono gli stessi luoghi e gli stessi momenti per trovare quale azione o quale altra occasione ha potuto provocare la perdita dell’oggetto in questione. Noi chiamiamo questo processo rimembranza o richiamo alla mente; i Latini lo chiamavano reminiscentia, come se fosse una ri-cognizione delle nostre azioni precedenti»[5].
La rimembranza, dunque, viene identificata con la perdita di un oggetto che successivamente a causa di un sentimento o di un desiderio si tenda a riacquisire.
Thomas Hobbes
In questo è come se si venisse a sostituire, in un gioco della memoria, alla parola “idea” la parola “oggetto” (ma già Aristotele aveva detto della memoria: «Essa è un’affezione ma in assenza dell’oggetto»[6]), allo schema della «interruzione della memoria» (su cui sempre insisteva la teoria aristotelica) quello della «perdita dell’oggetto»; attribuendo importanza ai segni e al linguaggio. Laddove, a voler cogliere ulteriori legami, i nomi-luoghi di greca memoria risultano essere qualcosa d’intramontabile. 
Nulla di sostanzialmente nuovo - se vogliamo - in Hobbes, rispetto agli Antichi, se non fosse che il pensatore inglese coglie nel vivo la questione riconducendo in qualche modo teorie antiche nel cuore della età moderna.
È, meglio, che parlando di Hobbes sarebbe atto di superficialità tenere la questione della reminiscenza separata rispetto a quella del funzionamento della mente (analisi potremmo dirla dell’anima) che decide di procedere usando dei suoi strumenti, o che si proietta in un mondo di oggetti, prima ancora che di persone; perché è qui che viene spostata la natura del problema.
Se Hobbes scrive sull’argomento - e lo fa forse con minore rigidità di quanto non accadesse a Locke, nella teoria della tabula rasa - ciò si piega col fatto che la questione si approfondisce proprio con riferimento all’èra moderna, che aveva bisogno di apparati teorici.
Ciò che fa pensare nel senso di una ineguagliata modernità è sì il fatto che Hobbes si riallacciasse ai Latini ma soprattutto che ciò potesse essere ricollegato all’ammissibilità di una Artificial Life. Hobbes avrebbe scritto fra l’altro, preconizzando la cibernetica della mente, che l’uomo quando pensa calcola - il che credo indichi un’indole assai chiara.
Ed è qui, poiché la sua questione è storicizzata, che la memoria cessa di essere un che di naturale, e meglio un esercizio personale, atto a custodire il conoscimento, come sostenevano i pitagorici. Ma - anche - qui la storia sembra esibire una sua propria ironia: riprendendo le antiche teorie della memoria si usava in fondo della memoria storica; ma ciò accadeva a favore della traducibilità della memoria umana in memoria artificiale.

Avremmo potuto iniziare il racconto con Hobbes ma in certo senso bisognava innestare la lettura della questione della memoria in quella della memoria storica, ed è quanto Hobbes dimostra.
Due aspetti a questo punto vorrei segnalare, con riguardo alla condizione umana della memoria nell’èra moderna: l’umanismo quale ricostruzione critica, sotto il profilo letterario e delle conoscenze; e la ideazione delle prime macchine da calcolo, sotto il profilo della invenzione tecnica. Accostamento interessante, credo, perché la distanza c’è ma potrebbe parlarsi di storie o vicende parallele.
Fu l’umanismo a occuparsi seriamente di memoria storica. La quale per essere eretta non poteva non passare, contro tempi bui, di fideismo mediocre e d’ignoranza, attraverso un’opera di ricostruzione critica laica.
Come definire l’umanismo, se non come un uso critico della storia autentica e umana, a causa della sua ricostruzione (si pensi al de falso credita et ementita di Lorenzo Valla, con cui fu smascherata la falsa donazione di Costantino); il passato che viene contrapposto al presente o che lo supera, per il semplice fatto di essere stato riproposto sulla scorta di documenti, più o meno volutamente tramandati?
Così si ricostruiva l’opera di Cicerone - al punto che Erasmo da Rotterdam parlava ironicamente delle “scimmie” di Cicerone. E qualcosa di analogo sarebbe avvenuto con l’illuminismo, celebre per le sue ricostruzioni disincantate di storia romana (ad es. Montesquieu nella Storia dei romani).
Si può fare dunque un accostamento, ripensando l’èra moderna, fra umanismo e tecnica, o macchinismo: da una parte si ricostituì una forte memoria storica, letterariamente orientata; dall’altra si sarebbero ideate le prime calcolatrici - che furono opera di Pascal e di Leibniz, e cioè di filosofi che però erano matematici. Quasi a voler dire: ciò che io penso può tradursi in macchine quanto in memoria.
E forse fase intermedia o di traghettamento ulteriore di una storia nell’altra, in questo singolare incontro, fu l’invenzione in occidente della stampa a caratteri mobili, attribuita a Gutenberg. La storia del libro sarebbe apparsa poi, vista con gli occhi di McLuhan, come una storia tecnica; ma tanto è vero questo quanto lo è che le prime edizioni a stampa lo furono della Bibbia. Se il libro è corpus mechanicum più di quanto non sembri, per una serie di ragioni e se la ripetibilità di una operazione (produttiva) è gestione di una memoria, ancora a quel punto e cioè al momento della invenzione della stampa in serie con il suo principio di ripetibilità, si può dire prevalesse la distinzione e/o contrapposizione, nel rapporto fra le due tecniche, quella della stamperia e quella del calcolo.
Pure un qualche dado doveva essere stato tratto, o un qualche destino si andava compiendo, se tutto ciò poteva avvenire.

Le origini della memoria storica sono in certo senso naturali e riguardano la persona: è naturale che io ricordi e anche che il passato mi sia ricordato, oralmente o in forma scritta; è quasi istintivo che io tracci dei segni o che scriva oggi per tramandare la testimonianza di fatti che i posteri non avranno potuto vivere direttamente - e giungiamo così alla storiografia antica: ad esempio Erodoto, Cesare, Tito Livio, Tacito; e la cosa si perpetua, sino alle Istorie fiorentine del Machiavelli. Ovvero in generale è cosa naturale che io ricordi o sia ricordato, finché non subentrerà la coscienza che tutto è traducibile in storia.
Al pari di Cartesio, Hobbes dimostra che è così: non è che le cose si siano sempre svolte in modo naturale, e meglio forse non è mai prudente valutarle secondo principi naturali - ché ciò è indice di giudizio, prima che di pensiero -, se non è che io possa ricordare tutto o che abbia bisogno che qualcuno mi tramandi oralmente fatti cui non ho assistito; se giunge un momento nel quale la memoria cessa di essere un che di naturale e s’intraprende la strada dell’artefazione (e la semplice scrittura è quella strada che percorre); ovvero se la scrittura nasce e si perfeziona, tecnicamente, sino ad approdare alla riproducibilità di copie tendenzialmente all’infinito con l’automatismo e cioè l’uso apposito di macchinari.
Ma qui è il punto: se vi è una tradizione, allora ve ne sono gli strumenti; se vi è una memoria storica ciò non avviene forse perché la storia è memoria?
Nella modernità dunque è avvenuto qualcosa di completamente nuovo, rispetto all’antichità, che pure aveva le sue macchine e i suoi dispositivi; vengono a coesistere due condizioni o modi di memoria, non senza importanti connessioni o intrecci; la memoria storica e la memoria artificiale; le quali tanto più s’intrecciano quanto più interessano due piani ben distinti; il cui intreccio cioè avrebbe potuto stabilizzarsi, quasi rovesciando un rapporto di forza.
E già qualcosa depone in tal senso, se avviene poi, dopo che gli illuministi ne hanno fatto un uso critico, che con il romanticismo ottocentesco la storia, la memoria storica, venga idealizzata, o sublimata, quale storia delle nazioni e dei popoli; che ad un presente che non si condivide venga contrapposto un passato, sino oscuro; mitizzato prima ancora che probabile; in fondo irrazionale; il che non so dire sino a che punto fosse segno di potenza. Poiché a quel punto qualsiasi passato sarebbe stato dato per preferibile al presente, rappresentato come un astratto progresso. Ma il progresso tecnico sarebbe andato avanti, molto dal punto di vista dell’industria, cercando solo complici.
E sarebbe stato il progresso tecnico a prescindere dai suoi complici, riconducendo la storia alla forma di documento, progettando grandi memorie. Facendo anche in modo in ciò che la memoria sovrastasse la differenza fra passato e presente; o - e qui voglio pensare alla cosiddetta fantascienza - fra passato, presente e futuro. Disarcionando tempo e spazio in qualche modo dal loro cavallo. Ponendo progressivamente ogni documentazione in quanto storica al centro della cultura e della conoscenza.

Dunque le origini della moderna memoria artificiale possono essere colte nella macchina di Leibniz, che riesce a fare le moltiplicazioni e/o nella “macina” di Babbage; in base al principio meccanico per cui sia possibile e necessario il riutilizzo, nell’ambito di uno stesso procedimento, di risultati di elaborazioni precedenti.
Per giungere, passando attraverso i computers e cioè elaboratori deputati a processare i dati immessi, sino all’attuale rete digitale. La quale, come era negli auspici di Ted Nelson, avrebbe dovuto unificare memorizzandoli tutti i saperi, fornendo l’accesso ad essi.
Nell’attuale èra elettrica-ed-elettronica, o digitale, internet e più in generale la rete, può essere considerata un archivio colossale, o una grande memoria a livello mondiale; in cui, grazie ai server, e alle linee telefoniche, tutto può essere memorizzato e consultato. Nelson pensò bene che l’umanità andasse in quella direzione e questa era in fondo la nuova storia.
È non proprio intuitivo però capire a questo punto che memoria storica e memoria digitale tanto vanno distinte quanto esse si confondono, si possono cioè identificare.
Il passo decisivo consisteva nel tradurre i documenti storici in documenti digitali: con le memorie digitali sarebbero venuti a riunirsi due mondi, due distinte dimensioni; che tanto avrebbero continuato a confrontarsi e a confliggere quanto il primo avrebbe mostrato di essere assorbibile dal secondo.
Laddove la storia digitale è alla fine sì passato, presente e futuro; ma è l’ora, l’hic et nunc, il real time, inteso come possibilità di leggere e vedere in quello stesso momento. Storia è il passato ma tanto quanto è adesso ed essa lo è di chiunque scriva un messaggio, produca una traccia, registrabile da macchine e memorie digitali. Laddove la storia sono le storie ed essa si traduce in utilità.

La memoria ha una sua continuità progressiva: le inscriptiones, il copismo in generale dai certosini al Petrarca, e così la scrittura per sé e la stampa, indicano tutti strumenti tecnici per non dimenticare e per riutilizzare; e la tecnica digitale sembra seguitare su quei percorsi. Come dimostra il fatto che il libro, conquista in occidente dell’età moderna, sia sostituito o superato dalle macchine digitali. Ma l’effetto appare stravolto, proprio perché può spiegare molto la regola stabilita da Derrida, secondo la quale tutto ha un effetto finale di lettura. L’effetto dice che la memoria storica o delle res gestae è convertibile in archivi elettronici. La storia sradicata dal supporto in carta dunque diviene bene strumentale e merce.
Si profilano così, però nella continuità le differenze. La memoria storica, dopo il romanticismo, si è dimostrata importante ma selettiva; è Napoleone o Hitler, non il quivis de populo, a essere perpetuato in memoria; grandi fasce di popolazione, miliardi di persone, laboriose pacifiche e oneste, immerse nella vita di ogni giorno, sono esclusi dalla memoria storica, soprattutto da questa moderna, meno da quella documentaria dei cronisti della pre-modernità.
Si scopre così che la memoria storica può essere scomponibile: esistono le gesta di Napoleone ed esistono i fatti quotidiani, di gente “normale”, immortalati dal cinema (fonte notevole di coscienza-memoria speculare) e dai produttori di documenti. E questo secondo modo sembra quasi che in qualche modo riemerga, in forza appunto del document informatico e dei data-banks.

Ho sempre pensato che la storia, sul piano della possibilità, fosse il regno dell’ingiustizia; pensiero forse intinto nella religiosità; ma è da tempo - laddove la memoria sia in qualche modo scindibile dalla storia - che affiora la possibilità del contrario.
Se la televisione ha portato nelle case il fatto quotidiano e il fattarello, l’internet prima ancora che nascessero you-tube o i social-network, garantisce in certo senso cronaca e immortalità (istantanea) per tutti; sì falsificazioni e giochi ma anche spirito d’indagine. Quasi si fosse chiuso un circolo e si fosse tornati alla memoria naturale, anche se non è proprio così. Ed è aspetto coessenziale all’altro, per cui si dice che internet è più democratico della televisione.
Avviene anche nella memoria storica - per non limitarsi all’esempio di Napoleone - che sia immortalato un nome invece di un altro, che una dottrina o una teoria sia legata al nome di un personaggio “X”; quando invece l’invenzione o la teoria probabilmente sono dovuti a “Y”, di cui nessuno sa; con evidente difetto di autenticità. Era proverbiale all’epoca dei lumières, e cioè nel cuore dell’èra letteraria, l’accesa disputa sulle note al testo: citare una frase o un concetto senza indicarne l’autore e quindi come fosse propria, era immorale? Questi, unitamente alla propensione ad onorare i vincitori, fanno della memoria storica qualcosa che la memoria digitale tende a negare, o a superare.
Laddove in certo senso la memoria storica sembra porsi a un bivio, fra il riconoscimento e il disconoscimento.
Oggi, con la memoria digitale, che un gesto, un’azione, un fatto, risulti maggiormente decisivo e incida di più, rispetto alle res cottidianae, conta e non conta, ovvero l’importanza di un evento è distinguibile dalla possibilità di questo di essere immortalato.
Con l’èra digitale da una parte si pone riparo alle ingiustizie storico-mnemoniche, dall’altra si dà a chiunque, anche a un gatto, o ad un neonato, la possibilità di essere immortalato, quanto meno visivamente.
In qualche modo così sembra si sia resa giustizia. Ma tornando anche all’antico (laddove il corpo e la mente di un pitagorico non siano più soli), al medievale (laddove un amanuense possa vantarsi di avere contribuito a internet), non sperperando la modernità, rendendo la memoria digitale per sua propria virtù tutta storica e tutta attuale.

La memoria storica vive nei libri, nei giornali e nella televisione; ma va oltre perché agisce in profondità; ora gli archivi e i documenti possono essere considerati con mente diversa: il documento è giusto che testimoni di tutto, non solo degli eroi e falsi eroi e degli idoli.
Ma non bisogna certo credere che la memoria digitale non possa produrre a sua volta fenomeni d’idolatria.



[1]Diels-Kranz, I presocratici, trad. it., Milano 1991, p. 565.
[2]Cfr. più ampliamente I presocratici, trad. it. cit., n. 14.8, pp. 155-6.
[3] Platone, Fedone, 73 a.
[4] Aristotele, Della memoria e della reminiscenza, p. 238.
[5] Hobbes, Leviatano, trad. it., Bari 1989, p. 22.
[6] Aristotele, Della memoria, cit., p. 241.

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