Tale è il tempo, vacillante non da oggi, sino a rischio d’inesistenza, sotto i colpi ad esso
inferti dalla fisica e dalla filosofia, quanto
ci è consentito distinguere, con riferimento alla teoria della memoria, fra
memoria storica e memoria digitale.
La seconda si addice propriamente alla nostra epoca, di comunicazioni "in rete"; la prima nasce in modo critico con l’umanismo storico; essa anche però non è riducibile all’umanismo ma si aggira nel traditur della mente personale o di quella popolare; è cioè sia scritta e documentata sia parlata.
La seconda si addice propriamente alla nostra epoca, di comunicazioni "in rete"; la prima nasce in modo critico con l’umanismo storico; essa anche però non è riducibile all’umanismo ma si aggira nel traditur della mente personale o di quella popolare; è cioè sia scritta e documentata sia parlata.
La teoria della memoria è antica e origina dalla
filosofia greca, allorquando questa trae da certo misticismo o spirito
religioso determinati contenuti. L’importanza della questione viene in risalto
con i presocratici, secondo i quali: «niente maggiormente importa per la
scienza, l’esperienza e l’intendimento, della capacità di memorizzare»[1].
I termini originari della questione
potrebbero sembrare non di somma importanza; ma le fiabe vanno prese sul serio,
quando si ha a che fare con gli antichi miti. Nel racconto
di Eraclide Pontico leggiamo che Pitagora andava dicendo di sé stesso «[…] che
sarebbe [...] stato una volta Etalide e sarebbe stato considerato figlio di
Ermes; Ermes allora gli avrebbe detto di scegliere quel che volesse, eccetto
l’immortalità. Avrebbe dunque egli richiesto di mantenere in vita ed in morte
il ricordo degli avvenimenti. Nella sua vita dunque si sarebbe ricordato di
tutto; e quando poi morì, avrebbe conservato lo stesso ricordo. In un tempo
seguente poi sarebbe passato in Euforbo e sarebbe stato ferito da Menelao […]»[2].
Ermes avrebbe dunque detto a Etaclide, del
quale egli era la reincarnazione, di «scegliere quel che volesse, eccetto
l’immortalità»; ma verosimilmente il postulato, a questo riguardo, è più o meno
il seguente: non potendo scegliere l’immortalità,
l’uomo scelse per sconfiggerla di poter conservare i ricordi nonostante la
morte.
È vero, il pretesto è mistico: spiegare
la continuazione dell’anima individuale attraverso più vite. Ma che il pitagorismo fosse assimilabile ai culti orfici o che Platone
avesse tratto insegnamento dai sacerdoti egizi, ciò depone a favore della
importanza della questione, della quale la filosofia sempre si sarebbe
occupata, da par suo.
Già la curiosità platonica in
fondo vale la piega filosofica che la questione presto assume: «Gli uomini -
leggiamo in Fedone - quando sono
interrogati, purché uno sappia interrogarli con discernimento, rispondono da
sé stessi su ogni cosa come è [...]»[3];
e già può essere letta con spirito scientifico la distinzione introdotta da Platone
e sviluppata da Aristotele in uno dei suoi trattatelli naturalistici (il de memoria et reminiscentia): che la
memoria in quanto impressione e conservazione dei dati sensibili
dell’esperienza (mnème, che si confà
all’ordine percettivo del tempo[4])
si addice al corpo, come dire: ha una sua fisicità; la reminiscenza, il
rammemoramento, cioè l’attività del ricordare (anàmnesis), si addice invece all’anima.
Una visione delle cose che potremmo
dire complessivamente “moderna”; laddove ciò che si traduce o si tenta di
tradurre in scienza è il dualismo anima-corpo, ovvero lo stato originario della
interazione. E qui digitale
significa: la macchina è anima e corpo allo stesso tempo, e la cosa si ripete sino
nell’età elettrica-ed-elettronica. Sempre insomma quel dualismo darà i suoi
frutti.
E a questo punto due-tre punti
balzano all’evidenza: 1.- che si ha memoria non semplicemente in caso di
assenza ma, di più, di qualcosa di cui non si ha esperienza; 2.- che non è
detto che quella che si chiamava memoria fosse e sia effettivamente tale e che
3.- tutto sarebbe confluito alla fine nella sua utilità tecnica e cioè quale
premessa delle memorie artificiali.
Ma la teoria della memoria, se la
si può dichiarare da subito moderna, è perché lo è
cronologicamente e origina in tal senso dalla filosofia inglese.
Invece di ricostruire sia pure succintamente il
pensiero greco antico avremmo potuto muovere dalla indagine continuativa di
Hobbes rispetto ai Latini: «In conclusione - egli scrive - il discorso della
mente, quando è governato da un disegno non è altro che la ricerca, o la facoltà
di invenzione che i Latini chiamano sagacitas e solertia: una
caccia alle cause di un effetto presente o passato, oppure una caccia agli
effetti di una causa presente o passata. A volte si cerca ciò che si è perduto
e, a partire dal luogo e dal momento in cui lo si è perduto, la mente risale di
luogo in luogo e di momento in momento per trovare dove e quando possedeva
quell’oggetto, per trovare, cioè, un momento e un luogo determinati dai quali
iniziare una ricerca metodica. Inoltre, a partire da questo punto i pensieri
ripercorrono gli stessi luoghi e gli stessi momenti per trovare quale azione o
quale altra occasione ha potuto provocare la perdita dell’oggetto in questione.
Noi chiamiamo questo processo rimembranza o richiamo alla mente; i
Latini lo chiamavano reminiscentia, come se fosse una ri-cognizione
delle nostre azioni precedenti»[5].
La rimembranza, dunque, viene
identificata con la perdita di un oggetto che successivamente a causa di un
sentimento o di un desiderio si tenda a riacquisire.
Thomas Hobbes |
In questo è come se si venisse a
sostituire, in un gioco della memoria, alla parola “idea” la parola “oggetto”
(ma già Aristotele aveva detto della memoria: «Essa è un’affezione ma in
assenza dell’oggetto»[6]),
allo schema della «interruzione della memoria» (su cui sempre insisteva la
teoria aristotelica) quello della «perdita dell’oggetto»; attribuendo
importanza ai segni e al linguaggio. Laddove, a voler cogliere ulteriori
legami, i nomi-luoghi di greca memoria risultano essere qualcosa
d’intramontabile.
Nulla di sostanzialmente nuovo - se vogliamo -
in Hobbes, rispetto agli Antichi, se non fosse che il pensatore inglese coglie
nel vivo la questione riconducendo in qualche modo teorie antiche nel cuore
della età moderna.
È, meglio, che parlando di Hobbes sarebbe
atto di superficialità tenere la questione della reminiscenza separata rispetto
a quella del funzionamento della mente (analisi potremmo dirla dell’anima) che
decide di procedere usando dei suoi strumenti, o che si proietta in un mondo di
oggetti, prima ancora che di persone; perché è qui che viene spostata la natura
del problema.
Se Hobbes scrive sull’argomento - e lo fa forse
con minore rigidità di quanto non accadesse a Locke, nella teoria della tabula rasa - ciò si piega col fatto che
la questione si approfondisce proprio con riferimento all’èra moderna, che
aveva bisogno di apparati teorici.
Ciò che fa pensare nel senso di una
ineguagliata modernità è sì il fatto che Hobbes si riallacciasse ai Latini ma
soprattutto che ciò potesse essere ricollegato all’ammissibilità di una Artificial Life. Hobbes avrebbe scritto
fra l’altro, preconizzando la cibernetica della mente, che l’uomo quando pensa calcola - il che credo indichi un’indole assai
chiara.
Ed è qui, poiché la sua questione è
storicizzata, che la memoria cessa di essere un che di naturale, e meglio un
esercizio personale, atto a custodire il
conoscimento, come sostenevano i pitagorici. Ma - anche - qui la storia sembra
esibire una sua propria ironia: riprendendo le antiche teorie della memoria si usava
in fondo della memoria storica; ma ciò accadeva a favore della traducibilità
della memoria umana in memoria artificiale.
Avremmo potuto iniziare il racconto con
Hobbes ma in certo senso bisognava innestare la lettura della questione della
memoria in quella della memoria storica, ed è quanto Hobbes dimostra.
Due aspetti a questo punto vorrei segnalare, con
riguardo alla condizione umana della memoria nell’èra moderna: l’umanismo quale
ricostruzione critica, sotto il profilo letterario e delle conoscenze; e la
ideazione delle prime macchine da calcolo, sotto il profilo della invenzione tecnica.
Accostamento interessante, credo, perché la distanza c’è ma potrebbe parlarsi
di storie o vicende parallele.
Fu l’umanismo a occuparsi seriamente di
memoria storica. La quale per essere eretta non poteva non passare, contro
tempi bui, di fideismo mediocre e d’ignoranza, attraverso un’opera di ricostruzione
critica laica.
Come definire l’umanismo, se non come un uso
critico della storia autentica e umana, a causa della sua ricostruzione (si
pensi al de falso credita et ementita
di Lorenzo Valla, con cui fu smascherata la falsa donazione di Costantino); il
passato che viene contrapposto al presente o che lo supera, per il semplice
fatto di essere stato riproposto sulla scorta di documenti, più o meno
volutamente tramandati?
Così si ricostruiva l’opera di Cicerone - al
punto che Erasmo da Rotterdam parlava ironicamente delle “scimmie” di Cicerone.
E qualcosa di analogo sarebbe avvenuto con l’illuminismo, celebre per le sue
ricostruzioni disincantate di storia romana (ad es. Montesquieu nella Storia dei romani).
Si può fare dunque un accostamento,
ripensando l’èra moderna, fra umanismo e tecnica, o macchinismo: da una parte
si ricostituì una forte memoria storica, letterariamente orientata; dall’altra si
sarebbero ideate le prime calcolatrici - che furono opera di Pascal e di
Leibniz, e cioè di filosofi che però erano matematici. Quasi a voler dire: ciò
che io penso può tradursi in macchine quanto in memoria.
E forse fase intermedia o di traghettamento ulteriore
di una storia nell’altra, in questo singolare incontro, fu l’invenzione in
occidente della stampa a caratteri mobili, attribuita a Gutenberg. La storia
del libro sarebbe apparsa poi, vista con gli occhi di McLuhan, come una storia
tecnica; ma tanto è vero questo quanto lo è che le prime edizioni a stampa lo
furono della Bibbia. Se il libro è corpus
mechanicum più di quanto non sembri, per una serie di ragioni e se la
ripetibilità di una operazione (produttiva) è gestione di una memoria, ancora a
quel punto e cioè al momento della invenzione della stampa in serie con il suo
principio di ripetibilità, si può dire prevalesse la distinzione e/o
contrapposizione, nel rapporto fra le due tecniche, quella della stamperia e
quella del calcolo.
Pure un qualche dado doveva essere stato
tratto, o un qualche destino si andava compiendo, se tutto ciò poteva avvenire.
Le origini della memoria storica sono in certo senso naturali e riguardano la
persona: è naturale che io ricordi e anche che il passato mi sia ricordato, oralmente
o in forma scritta; è quasi istintivo che io tracci dei segni o che scriva oggi
per tramandare la testimonianza di fatti che i posteri non avranno potuto vivere
direttamente - e giungiamo così alla storiografia antica: ad esempio Erodoto, Cesare,
Tito Livio, Tacito; e la cosa si perpetua, sino alle Istorie fiorentine del Machiavelli. Ovvero in generale è cosa
naturale che io ricordi o sia ricordato, finché non subentrerà la coscienza che
tutto è traducibile in storia.
Al pari di Cartesio, Hobbes dimostra che è
così: non è che le cose si siano sempre svolte in modo naturale, e meglio forse
non è mai prudente valutarle secondo principi naturali - ché ciò è indice di
giudizio, prima che di pensiero -, se non è che io possa ricordare tutto o che
abbia bisogno che qualcuno mi tramandi oralmente fatti cui non ho assistito; se
giunge un momento nel quale la memoria cessa di essere un che di naturale e s’intraprende
la strada dell’artefazione (e la semplice scrittura è quella strada che
percorre); ovvero se la scrittura nasce e si perfeziona, tecnicamente, sino ad approdare alla riproducibilità di copie tendenzialmente
all’infinito con l’automatismo e cioè l’uso apposito di macchinari.
Ma qui è il punto: se vi è una tradizione,
allora ve ne sono gli strumenti; se vi è una memoria storica ciò non avviene
forse perché la storia è memoria?
Nella modernità dunque è avvenuto qualcosa di
completamente nuovo, rispetto all’antichità, che pure aveva le sue macchine e i
suoi dispositivi; vengono a coesistere due condizioni o modi di memoria, non
senza importanti connessioni o intrecci; la memoria
storica e la memoria artificiale;
le quali tanto più s’intrecciano quanto più interessano due piani ben distinti;
il cui intreccio cioè avrebbe potuto stabilizzarsi, quasi rovesciando un
rapporto di forza.
E già qualcosa depone in tal senso, se avviene
poi, dopo che gli illuministi ne hanno fatto un uso critico, che con il
romanticismo ottocentesco la storia, la memoria storica, venga idealizzata, o sublimata,
quale storia delle nazioni e dei popoli; che ad un presente che non si
condivide venga contrapposto un passato, sino oscuro; mitizzato prima ancora che
probabile; in fondo irrazionale; il che non so dire sino a che punto fosse
segno di potenza. Poiché a quel punto qualsiasi passato sarebbe stato dato per preferibile
al presente, rappresentato come un astratto progresso. Ma il progresso tecnico
sarebbe andato avanti, molto dal punto di vista dell’industria, cercando solo
complici.
E sarebbe stato il progresso tecnico a
prescindere dai suoi complici, riconducendo la storia alla forma di documento,
progettando grandi memorie. Facendo anche in modo in ciò che la memoria
sovrastasse la differenza fra passato e presente; o - e qui voglio pensare alla
cosiddetta fantascienza - fra passato, presente e futuro. Disarcionando tempo e
spazio in qualche modo dal loro cavallo. Ponendo progressivamente ogni
documentazione in quanto storica al centro della cultura e della conoscenza.
Dunque le origini della moderna memoria artificiale
possono essere colte nella macchina di Leibniz, che riesce a fare le
moltiplicazioni e/o nella “macina” di Babbage; in base al principio meccanico
per cui sia possibile e necessario il riutilizzo, nell’ambito di uno stesso
procedimento, di risultati di elaborazioni precedenti.
Per giungere, passando attraverso i computers e cioè elaboratori deputati a
processare i dati immessi, sino all’attuale rete digitale. La quale, come era
negli auspici di Ted Nelson, avrebbe dovuto unificare memorizzandoli tutti i
saperi, fornendo l’accesso ad essi.
Nell’attuale èra
elettrica-ed-elettronica, o digitale, internet e più in generale la rete, può
essere considerata un archivio colossale, o una grande memoria a livello
mondiale; in cui, grazie ai server, e
alle linee telefoniche, tutto può essere memorizzato e consultato. Nelson pensò
bene che l’umanità andasse in quella direzione e questa era in fondo la nuova
storia.
È non proprio intuitivo però
capire a questo punto che memoria storica e memoria digitale tanto vanno
distinte quanto esse si confondono, si possono cioè identificare.
Il passo decisivo consisteva nel
tradurre i documenti storici in documenti digitali: con le memorie digitali sarebbero
venuti a riunirsi due mondi, due distinte dimensioni; che tanto avrebbero
continuato a confrontarsi e a confliggere quanto il primo avrebbe mostrato di
essere assorbibile dal secondo.
Laddove la storia digitale è alla
fine sì passato, presente e futuro; ma è l’ora, l’hic et nunc, il real time,
inteso come possibilità di leggere e vedere in quello stesso momento. Storia è il
passato ma tanto quanto è adesso ed essa lo è di chiunque scriva un messaggio,
produca una traccia, registrabile da macchine e memorie digitali. Laddove la
storia sono le storie ed essa si traduce in utilità.
La memoria ha una sua continuità
progressiva: le inscriptiones, il
copismo in generale dai certosini al Petrarca, e così la scrittura per sé e la
stampa, indicano tutti strumenti tecnici per non dimenticare e per riutilizzare;
e la tecnica digitale sembra seguitare su quei percorsi. Come dimostra il fatto
che il libro, conquista in occidente dell’età moderna, sia sostituito o
superato dalle macchine digitali. Ma l’effetto appare stravolto, proprio perché
può spiegare molto la regola stabilita da Derrida, secondo la quale tutto ha un
effetto finale di lettura. L’effetto
dice che la memoria storica o delle res
gestae è convertibile in archivi elettronici. La storia sradicata dal
supporto in carta dunque diviene bene strumentale e merce.
Si profilano così, però nella
continuità le differenze. La memoria storica, dopo il romanticismo, si è dimostrata
importante ma selettiva; è Napoleone o Hitler, non il quivis de populo, a essere perpetuato in memoria; grandi fasce di
popolazione, miliardi di persone, laboriose pacifiche e oneste, immerse nella
vita di ogni giorno, sono esclusi dalla memoria storica, soprattutto da questa
moderna, meno da quella documentaria dei cronisti della pre-modernità.
Si scopre così che la memoria
storica può essere scomponibile: esistono le gesta di Napoleone ed esistono i
fatti quotidiani, di gente “normale”, immortalati dal cinema (fonte notevole di
coscienza-memoria speculare) e dai produttori di documenti. E questo secondo
modo sembra quasi che in qualche modo riemerga, in forza appunto del document informatico e dei data-banks.
Ho sempre pensato che la storia, sul piano
della possibilità, fosse il regno dell’ingiustizia; pensiero forse intinto
nella religiosità; ma è da tempo - laddove la memoria sia in qualche modo
scindibile dalla storia - che affiora la possibilità del contrario.
Se la televisione ha portato
nelle case il fatto quotidiano e il fattarello, l’internet prima ancora che
nascessero you-tube o i social-network, garantisce in certo
senso cronaca e immortalità (istantanea) per tutti; sì falsificazioni e giochi
ma anche spirito d’indagine. Quasi si fosse chiuso un circolo e si fosse
tornati alla memoria naturale, anche se non è proprio così. Ed è aspetto
coessenziale all’altro, per cui si dice che internet è più democratico della
televisione.
Avviene anche nella memoria
storica - per non limitarsi all’esempio di Napoleone - che sia immortalato un
nome invece di un altro, che una dottrina o una teoria sia legata al nome di un
personaggio “X”; quando invece l’invenzione o la teoria probabilmente sono
dovuti a “Y”, di cui nessuno sa; con evidente difetto di autenticità. Era
proverbiale all’epoca dei lumières, e
cioè nel cuore dell’èra letteraria, l’accesa disputa sulle note al testo:
citare una frase o un concetto senza indicarne l’autore e quindi come fosse
propria, era immorale? Questi, unitamente alla propensione ad onorare i
vincitori, fanno della memoria storica qualcosa che la memoria digitale tende a
negare, o a superare.
Laddove in certo senso la memoria
storica sembra porsi a un bivio, fra il riconoscimento e il disconoscimento.
Oggi, con la memoria digitale, che
un gesto, un’azione, un fatto, risulti maggiormente decisivo e incida di più,
rispetto alle res cottidianae, conta
e non conta, ovvero l’importanza di un evento è distinguibile dalla possibilità
di questo di essere immortalato.
Con l’èra digitale da una parte
si pone riparo alle ingiustizie storico-mnemoniche, dall’altra si dà a
chiunque, anche a un gatto, o ad un neonato, la possibilità di essere
immortalato, quanto meno visivamente.
In qualche modo così sembra si
sia resa giustizia. Ma tornando anche all’antico (laddove il corpo e la mente
di un pitagorico non siano più soli), al medievale (laddove un amanuense possa
vantarsi di avere contribuito a internet), non sperperando la modernità, rendendo
la memoria digitale per sua propria virtù tutta storica e tutta attuale.
La memoria storica vive nei libri, nei
giornali e nella televisione; ma va oltre perché agisce in profondità; ora gli
archivi e i documenti possono essere considerati con mente diversa: il
documento è giusto che testimoni di tutto, non solo degli eroi e falsi eroi e
degli idoli.
Ma non bisogna certo credere che la memoria
digitale non possa produrre a sua volta fenomeni d’idolatria.
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