Aveva inizio così, per mano del prof. Valitutti, maestro indimenticabile
di libertà e crocianesimo, il mio esordio, per così dire, in letteratura. Erano
anni in cui la fine di qualcosa era celebrata come l’aurora di altro, nella
coscienza di una età di mezzo, di non so quale durata… *
1. La fine della modernità
Nella Parigi degli anni ‘30, in un corso su Hegel tenuto presso la
celebre Ecole pratique des hautes études, e immortalato anche dalla presenza di intellettuali del calibro di Aron, Bataille, Breton, Lacan, Merleau-Ponty e Weil, Alexandre Kojève poneva
l’inquietante problema della “fine della storia”.
Nell’interpretare la Fenomenologia dello spirito secondo il
profilo della mortalità dell’uomo, egli metteva in risalto soprattutto il
valore della “negatività” come principio dell’azione, della libertà storica
dell’uomo nella lotta per il dominio della natura. Per “fine della storia” egli
intendeva appunto la conclusione di tale vicenda dello spirito.
Il problema si trova riproposto, sempre
con riferimento alla vecchia Europa, ma nello spirito dell’età postindustriale,
nell’ultimo lavoro di Gianni Vattimo, La fine della modernità[1], che raccoglie una serie d’interventi tenuti in occasione di conferenze,
convegni, seminari, e pubblicati in riviste o volumi miscellanei. In esso
l’autore si propone (tentativo che peraltro egli sa assai arduo), attraverso
una valorizzazione degli scritti tardi di Heidegger e del Nietzsche maturo, di
interpretare quella “fine” e nello stesso tempo di suggerire una prima
espressione filosofica del “postmoderno”.
Nel libro la parola “storia” esprime non
già il punto di osservazione critico-nostalgico della sua stessa fine, ma,
quasi fosse vista ab externo, l’idea che ha governato una stagione
del pensiero che sembra giunta al tramonto.
Nel suo contrasto con le nostre attuali
condizioni di esistenza (ben ritratte da Arnold Gehlen nella nozione di post-histoire),
nelle quali nulla (di nuovo) sembra (più) accadere in una sensazione generale
di atemporalità, la “modernità” è, per definitionem, ciò che
“conferisce portata ontologica alla storia”"[2].
Questa caratteristica trova riscontro nel
fatto che nell’ambito del “moderno”, il pensare, nel suo volgersi indietro per
ritrovare il fondamento autentico e per fare in questo modo opera di
rifondazione, avviene nei termini della novità, del progresso, del
“superamento” (Aufhebung dialettica, marxismo di Bloch e di Adorno,
ecc.).
Il “moderno” si definisce come nozione
proprio perché l’idea di “superamento” sembra essere divenuta non-necessaria,
costituzionalmente, per il pensare; mentre nel campo della scienza, della
tecnica e del vivere sociale (connessione che funziona bene, nel consumismo)
quell’idea si è svuotata perché il progresso è divenuto routine[3], traducendosi in (riducendosi a) un che di “fisiologicamente richiesto
per la pura e semplice sopravvivenza del sistema”[4].
Solo dopo avere raggiunto questo tipo di
coscienza di una “fine” ha un senso l’interrogarsi sul “postmoderno”, inteso
come qualcosa che, pur accadendo dopo il “moderno”, esclude la pensabilità di
questa successione nei termini del quid novi, dell’oltrepassamento.
La fine della storia, interpretata come
fine della modernità, si riconnette, nel libro, alla crisi della metafisica: il
tramonto dell’idea caratterizzante di “superamento” riconduce al nichilismo,
che Vattimo identifica non solo nella proclamazione nietzscheana della “morte
di Dio” e nella situazione nella quale “l’uomo rotola via dal centro verso la
X”, ma anche nell’espressione heideggenana secondo cui nel nostro tempo
“dell’essere come tale ‘non ne è più nulla’”[5].
Secondo questa interpretazione, ciò che
accade alla metafisica (e che apre alla possibilità di una Verwindung di
essa) accade all’umanismo ed è obiettivamente legato al tramonto dell’arte,
nell’accezione classica della parola.
La “crisi dell’umanismo” è lo
smascheramento di un ruolo di presenza, in certo modo dissimulata, che l’uomo
ha avuto nella metafisica. Citando uno scritto heideggeriano del 1946 - Über
den Humanismus - Vattimo fa notare che in quell’opera “umanismo è
addirittura sinonimo di metafisica, in quanto solo nella prospettiva di una
metafisica come teoria generale dell’essere dell’ente [...] l’uomo può trovare
una definizione, sulla cui base si può ‘costruire’, educarsi dandosi una Bildung
anche nel senso delle humanae litterae che definiscono
l’umanismo come momento della storia della cultura europea. Non c’è umanismo se
non come dispiegarsi di una metafisica nella quale l’uomo si determina un
ruolo, che non è necessariamente centrale o esclusivo. Anzi, come mostra del resto
Heidegger nella sua sempre di nuovo ripresa ricostruzione della storia della
metafisica, solo in quanto non viene in luce il suo carattere ‘umanistico’, nel
senso di riduzione di tutto all’uomo, la metafisica può sopravvivere come tale;
quando tale carattere riduttivo della metafisica si fa esplicito, come accade,
secondo Heidegger, in Nietzsche (l’essere come volontà di potenza), ‘la
metafisica è ormai al suo tramonto, e con essa, come constatiamo ogni giorno,
tramonta anche l’umanismo’ ”[6].
Il brano, davvero stimolante, centrale,
svela appieno l’heideggerismo di Vattimo, nel senso che nel parlare della
nietzseheana “morte di Dio” e della crisi che colpisce l’umanismo egli si
contrappone, ipso facto, alla filosofia che definisce
“riappropriativa”, ricomprendendovi una parte del marxismo contemporaneo e
l’ateismo alla Feuerbach, che consiste proprio in quel ridurre “tutto
all’uomo”. “Riappropriativa” è qualsiasi reazione umanistica alla crisi
dell’umanismo e al dominio della tecnica, qualsiasi modo di pensare che creda
che quella crisi nasca e si sviluppi come estranea all’uomo, senza
cornprometterne l’essenza e dunque la possibilità di un recupero; qualsiasi
filosofia nella quale l’uomo (il soggetto, come substantia),
teorizzato ancora, cartesianamente, come coscienza, autocoscienza, sia il
“correlato dell’essere metafisico caratterizzato in termini di oggettività,
cioè come evidenza, stabilità, certezza inconcussa”[7].
Proprio nella critica di questo genere di
filosofia, che è l’opporsi ad un certo modo di reagire negativamente, con il
rifiuto, al primato (disumanizzante?) della tecnica, il libro trova il suo
fondamento. È in questo senso che Vattimo mira a cogliere in Nietzsche e in
Heidegger quei concetti che consentano di interpretare la “crisi”
(dell’umanismo) e l’uscita dal “moderno” in un modo positivo.
Ciò si manifesta già nel rapporto fra il
tramonto dell’arte - l’altro aspetto collegato alla crisi della metafisica - e
le considerazioni dell’ultimo Heidegger sull’essere (come può avvenire)
nell’arte, che si incentrano nella formula, più volte ripetuta nel libro,
dell’opera d’arte come “messa in opera della verità”. L’importanza di questa
formula è dovuta al fatto che il riferimento al campo dell’estetica non è
meramente esemplificativo per una teoria della società tecnologica, se è vero
che di fronte al dominio della tecnica non solo l’arte tende a massificarsi, a
tradursi in estetizzazione dell’esistenza (Saggio sulla liberazione di
Marcuse), ma di più a manifestare per prima, secondo teorie che quanto meno
all’esistenzialismo si richiamano, i segni del “postmoderno”.
La questione della centralità dell’arte,
non essendo risolvibile nei termini della nietzscheana “volontà di potenza” o
del fenomeno delle avanguardie e neanche, secondo il rapporto fra l’ermeneutica
di Heidegger e quella di Gadamer, nella “critica della coscienza estetica” (il
che varrebbe a riproporre il modello della “modernità”), ha un senso, secondo
Vattimo, proprio qualora la si interpreti secondo quella formula.
Heidegger individua nell’opera d’arte la
compresenza della “esposizione” (Aufstellung) di un mondo e della
“produzione” (Herstellung) della terra (erde). Esposizione del
(di un) mondo “significa che l’opera d’arte ha una funzione di fondazione e
costituzione delle linee che definiscono un mondo storico. Un mondo storico,
una società o un gruppo sociale, riconosce i tratti costitutivi della propria
esperienza del mondo - per esempio i criteri segreti di distinzione tra vero e
falso, bene e male, ecc. - in un’opera d’arte”[8].
Nella produzione della “terra”, questa
parola indica la “materialità (non ‘fisica’, mai)” dell’opera. Essa,
nell’opera, “non è la materia in senso stretto; è però la sua presenza come
tale, il suo puntuale manifestarsi come qualcosa che richiama sempre di nuovo
l’attenzione [...], l’hic et nunc dell’opera a cui ogni nuova
interpretazione sempre ritorna, e che suscita sempre nuove letture, dunque
nuovi possibili ‘mondi’ [...]. Terra, physis sono ciò che zeitigt: alla lettera
che matura nel senso del vivente; ma anche che ‘si temporalizza’ secondo l’uso
etimologico che fa di questo verbo Sein und Zeit L’altro dal
mondo, la terra, non è ciò che dura, anzi proprio l’opposto, ciò che appare
come quello che sempre si ritrae in una ‘naturalità’ che comporta lo Zeitigen,
il nascere e il maturare portando sul volto i segni del tempo”[9].
La “terra” - scrive altrove Vattimo - “è
quell’elemento dell’opera che si fa avanti come sempre di nuovo chiudentesi,
come una sorta di nocciolo mai consumabile dalle interpretazioni, mai esaurito
nei significati. Anche dalla terra, come dallo Zeigen, siamo
rimandati alla mortalità”[10].
La “terra”, nel suo rapporto col “mondo”,
indica quella atemporalità e quella astoricità (riscontrabile, secondo Gehlen,
anche nell’utopìsmo dei rivoluzionari) che sono i caratteri che denotano una
possibilità di apertura del pensiero nel senso del postmoderno: “L’arte sì
definisce ‘messa in opera della verità’ proprio perché tiene vivo il conflitto
tra mondo e terra, cioè fonda il mondo mentre ne esibisce l’infondatezza”[11].
Già in questa ultima proposizione (“fonda il mondo mentre ne esibisce
l’infondatezza”) si ha il profilarsi della nozione heideggeriana di Verwindung,
parola con la quale si indica una sorta di “superamento” inteso non nel suo
senso usuale, né come Aufhebung dialettica, ma come
“oltrepassamento che ha in sé i tratti dell’accettazione e
dell’approfondimento”[12]. Sotto questo profilo la metafisica è “qualcosa che rimane in noi come le
tracce di una malattia e come un dolore al quale ci si rassegna”[13]; essa, al pari del Gestell heideggeriano (il porsi,
l’imporsi, il provocare della tecnica) non è inoltre “qualcosa che si accetta
puramente e semplicemente”, ma che può essere vissuto come una chance,
“come la possibilità di un cambiamento in virtù del quale essi si torcono in
una direzione che non è quella prevista dalla loro essenza propria, e tuttavia
vi è connessa”[14].
Il discorso sulla Verwindung,
va sempre ricollegato alla questione del rapporto fra la crisi dell’umanismo
(come mancanza di ogni possibile base di riappropriazione), il recupero degli
elementi irdisch, terrestri, dell’“esserci”[15], il senso che quella crisi e quel recupero assumono in stretta relazione
con il mondo della tecnica. La nozione di Verwindung assume
piena espressività qualora sia pensata in relazione al fatto che l’arte è “messa
in opera della verità” perché “fonda il mondo mentre ne esibisce
l’infondatezza”.
In questo senso quell’“oltrepassamento” ha quale propria conditio sine qua non un essere concepito non più come forte, solido, in presenza (l’ontos on platonico), ma un essere che sia indebolito nel senso indicato dal continuo richiamo alla “terra”, come qualcosa che dura in quanto mortalità ed eventualità.
In questo senso quell’“oltrepassamento” ha quale propria conditio sine qua non un essere concepito non più come forte, solido, in presenza (l’ontos on platonico), ma un essere che sia indebolito nel senso indicato dal continuo richiamo alla “terra”, come qualcosa che dura in quanto mortalità ed eventualità.
Con la nozione di Verwindung si
profila l’uscita dalla modernità e l’introdursi nel postmoderno: sotto questo
aspetto tale concetto, secondo Vattimo, va integrato con quello, sempre
heideggeriano, di An-denken (rimemorazione). Rimemorare
l’essere significa che possiamo pensarlo diversamente dall’essere forte e dato
in presenza della metafisica tradizionale, “solo come gewesen, solo come non (più) presente”[16].
Il risalimento heideggeriano della storia
della metafisica, “non ci conduce in nessun luogo, se non a ricordarci
dell’essere come di quello da cui abbiamo già sempre preso congedo. L’essere si
dà qui solo nella forma del Geschick (l’insieme dell’invio) e
della Überlieferung (la trasmissione)”[17].
Di questi motivi heideggeriani Vattimo,
con profonda diligenza, coglie l’anticipazione nella nietzscheana “filosofia
del mattino” (che lo stesso autore ricollega all’“eterno ritorno all’uguale” e
allo Übermensch). La “filosofia del mattino”
è il pensiero non più orientato sull’origine o sul fondamento, che sono oramai
insignificanti, ma sulla “prossimità”; essa non consiste nella individuazione e
critica degli errori della metafisica e della morale, ma nel ripercorrerne i
cammini, le erranze, “nel vederli come sorgente stessa della ricchezza che ci
costituisce e che dà interesse, colore, essere, al mondo”[18].
Questo concetto, ricollegabile al celebre enunciato de Il crepuscolo degli idoli, secondo cui “il mondo vero è divenuto favola e con esso pero si è dissolto anche il mondo ‘apparente’”[19], è un modo di pensare “decostruttivo”, non cioè critico, che al pari dei concetti heideggeriani di Verwindung e di Andenken, rientra in quella idea di pensiero “fruitivo” nella quale sembra davvero concretarsi la prospettiva di un “postomoderno” nella filosofia e nella vita.
Questo concetto, ricollegabile al celebre enunciato de Il crepuscolo degli idoli, secondo cui “il mondo vero è divenuto favola e con esso pero si è dissolto anche il mondo ‘apparente’”[19], è un modo di pensare “decostruttivo”, non cioè critico, che al pari dei concetti heideggeriani di Verwindung e di Andenken, rientra in quella idea di pensiero “fruitivo” nella quale sembra davvero concretarsi la prospettiva di un “postomoderno” nella filosofia e nella vita.
Guardando al fondo di questi concetti, si
può notare come il significato realistico di essi sia la ricerca, provocata dal
primato che la tecnica ha raggiunto rispetto alle nostre condizioni effettive
di esistenza (il motivo del Ge-stell è sempre sullo sfondo del
libro), di un modo di pensare la nostra tradizione sapendola non più come un
valore.
Questa possibilità, per il pensiero, è
stata liberata dal fatto che la routinizzazione del progresso (nel campo della
scienza, della tecnica, della moda) sembra aver sottratto alla filosofia e alla
vita della nostra Europa quella forte tensione ideale al “superamento” che ha
caratterizzato i movimenti di liberazione nazionale dell’Ottocento.
In questo senso la fine della modernità
manifesta davvero il suo legame di trasparenza con quella fine della storia,
alla quale si è fatto cenno in sede introduttiva.
2. Icone della legge
All’essere, all’“esserci” come sradicato, “decentrato”, dimentico
dell’“origine”, al nietzscheano rotolare dell’uomo “via dal centro verso la X”
(al quale Vattimo riconduce espressivamente il nichilismo), può essere
ricollegata, prima facie, la vicenda dell’ebreo narrata da Massimo
Cacciari in Icone della legge[20]. Il libro, che è uno scrivere fitto e inquieto, dove nel giuoco del
linguaggio sembra manifestarsi l’allusione alla tematica heideggeriana, si
divide in due parti. La prima (“Sulla legge”) è un’interpretazione, dotata di
originalità, de La stella della redenzione di Rosenzweig, di
alcune fra le più celebri opere di Kafka e del Mosè e il monoteismo di
Sigmund Freud. La seconda (“Sull’icona”) è una riflessione tesa a cogliere le
profonde affinità tra i concetti espressi sull’arte da Florenskij e l’arte di
Malevic, tra la matematica formalistica (soprattutto l’intuizionismo puro di
Brower) e la pittura di Mondrian, fra questa e la cosmologia leibniziana, fra
la monadologia e l’opera di Klee.
È suggestivo, se vogliamo, il
travestimento religioso del modo di raccontare, che riecheggia la Sacra
scrittura (Vecchio e Nuovo Testamento): il passaggio dalla prima alla
seconda parte, fra l’altro, è scandito dal significato del mistero
dell’incarnazione, per cui l’icona è in certo senso il Cristo, l’avvento
dell’umanistico, ed una sorta d’introduzione all’immagine, proibita nella
storia vetero-testamentaria, dell’“Invisibile”.
Ma dietro siffatto travestimento... sacro si cela quella che può essere
considerata la singolarità del libro: il tentativo di esplorare nuove forme di
pensabilità della legge, o meglio dell’idea di legge, non certo giuridica, non
religiosa, ma tendenzialmente categorica. Il riguadagnare, per l’uomo, una tale
prospettiva, è il motivo centrale dello scritto; ma esso si effonde in una
sottile, costante ambiguitas, secondo cui l’apparente
mancanza-rifiuto di ogni legge nella psicologia umana, nasconde-rivela in fondo
la necessità di avere una legge.
La Legge (ebraica) segue l’ebreo nella sua
vicenda esistenziale, l’Entortung (sradicamento), conferendo alla
sua figura incredibile attualità; essa è lo Judesein, comeDasein dell’ebreo,
secondo un’applicazione del concetto heideggeniano dell’“esserci” alla vicenda
biblica.
La proposizione da cui prende l’avvio
l’intero scritto è che l’ebreo, contrariamente alla lezione di Hegel e di
Schelling, non è “nella Legge”, ma, come sostiene Rosenzweig, è “la creatura
che fa la Legge”[21]. Se l’ebreo-uomo giunge a desiderare, in certi momenti, qualcosa di
opposto alla sua legge, non per questo egli smetterà di cercare il confronto
con (conforto di) essa.
Nei personaggi kafkiani, osservati da
Cacciari con un argomentare ricco ed intelligente, ciò è palese: essi cercano
la sicurezza della legge proprio nel momento in cui dentro di loro si concreta
l’ist-frage, l’interrogarsi continuo, cercando di oltrepassare
incessantemente, senza però avere risposta. Ma proprio in ciò, in questa ricerca
della legge come evidenza (“interminabile interpretazione sradicata ormai da
ogni Fonte o Testo”), vi è decisione, vale a dire, nel linguaggio
di Cacciari, il perdere, lo smarrire il senso, la coscienza dell’“origine”
(antica legge come “Testo”).
Perché, dunque, l’ebreo? Perché egli,
tratto fuori dal Vecchio Testamento e dalla sua stessa dimensione storica
attraverso un incalzante ritmo interpretativo, è la raffigurazione migliore
della stessa possibilità di pensare la legge come un che di radicato nell’uomo
(nella umanità dell’uomo), ciò cui egli non può rinunciare, un che di
connaturato in lui, un pallido ma inevitabile ritorno alla cultura dello ius
naturae.
Ciò diviene manifesto dove Cacciari[22] si occupa del nòmos schmittiano, motivo assai rilevante nell’attuale dibattito filosofico-politico. Il nòmos, secondo la ricostruzione etimologica e concettuale di Carl Schmitt, indica, non le antiche consuetudini dei greci come fonte del diritto, secondo l’accezione dei giuristi, ma qualcosa di legato all’economia e al diritto, che su quell’economia - di origine appropriativa - si edifica, della terra (erde); nella versione di Cacciari esso designa così l’esser vincolato alla terra, il “terraneo”.
Ciò diviene manifesto dove Cacciari[22] si occupa del nòmos schmittiano, motivo assai rilevante nell’attuale dibattito filosofico-politico. Il nòmos, secondo la ricostruzione etimologica e concettuale di Carl Schmitt, indica, non le antiche consuetudini dei greci come fonte del diritto, secondo l’accezione dei giuristi, ma qualcosa di legato all’economia e al diritto, che su quell’economia - di origine appropriativa - si edifica, della terra (erde); nella versione di Cacciari esso designa così l’esser vincolato alla terra, il “terraneo”.
La Legge ebraica è qualcosa che è in sé
sradicato rispetto alla terra ed allo Stato che su di essa (intesa però non
come mera territorialità) costituisce il suo diritto, le sue leggi. L’ebreo in
ciò ha precorso, dolorosamente, i tempi della crisi dello Stato moderno, legata
agli sviluppi assunti dall’economia dei commerci; anche se egli, ora che lo
Stato-nòmos è in crisi, è colui che desidera uno Stato, una terra. In questo
modo l’Entortung, che può apparire come negativo per l’ordine e la
legge, si capovolge in un che di positivo per essi: la nuova concezione della
legge, quale viene prospettata in queste pagine da Cacciari, dice che essa
è Ordnung (ordine), ma non necessariamente inteso come Ortung (radicamento).
Nello stesso tempo la Legge (ebraica) è vicenda opposta rispetto alla “forza”,
la quale, idealmente contrapposta ad esso, è realiter generativa e conservativa
del diritto degli Stati: la forza è ciò che fa durare la legge dello Stato[23]. L’idea di legge, proprio per non essere legata alla forza, ma solo
al Dasein, è ciò che dura oltre gli Stati; ovvero essa, come
“diritto globale oltreterraneo, che via via si estende ai liberi spazi del mare
e del cielo”[24], è qualcosa che ricomprende, nel suo divenire, la storia dello
Stato.
In questo modo viene dimostrato, con
ingegno, non tanto che la “legge” è pensabile come gerarchicamente
sovraordinata rispetto ad altre leggi, ma che essa è idea solo qualora si
astragga dallo Stato e dal diritto. Ogni commento, ogni osservazione fatta
sull’ebreo, diviene a questo punto in Cacciari una dimostrazione della validità
di quella intuizione.
Nel travestimento offerto dalla Sacra
scrittura, l’icona toglie la benda di Mosè, libera gli occhi, apre (sul
mistero, senza rivelarlo: “L’antinomicità dell’icona consiste nel mostrarsi del
propriamente Invisibile”[25]) quella Porta che il protagonista de Il processo non
osava varcare nonostante fosse aperta: essa vince in ciò la proibizione
vetero-testamentaria della raffigurabilità dell’Invisibile.
Nella seconda parte dell’opera, con queste
premesse, l’ontologia viene per così dire completata mediante un risalire dalla
prospettiva del Dasein (l’“esserci”, raccontato come essere
dell’ebreo, Judesein) all’essere del mondo. L’iter per giungervi è
contraddistinto dal commento ad alcuni concetti posti dal formalismo matematico
(quali la “successione proseguente dell’infinito”, la confutazione del
principio del “terzo escluso”, la teorizzazione di un’intuizione
denaturalizzata - penso qui, per contrasto, all’“intuizione sensibile” di
Feuerbach - di contro alla logica e al linguaggio, legati a regole e ad un’idea
di fisicità), dall’interpretazione dei motivi mondrianiani dell’albero e della
croce (astrattismo che va oltre il cubismo come mera scomposizione formale
delle figure) e della pittura di Klee (soprattutto la “città”).
Il senso di tali riferimenti è dato dalla
critica di un concetto deterministico di legge, di ordine, e dall’approdo ad
una serie di idee-immagini (intuizione pura dell’“origine”) che la costruzione
razionale non può raggiungere, quali il continuum, il rhytmos, la
“danza” (motivo trasparentemente nietzscheano), l’armonia, la polifonia,
l’“infinito attuale”, la “bisecabilità dell’uno”, la “unoduità” (dove si
richiama ancora Nietzsche).
Sono tentativi di un approccio-approssimazione all’immagine dell’essere del
mondo, che non può consistere in un’idea di Ordnung che
coincida con il “nomotetico”. Se ordine si può pensare, esso non è qualcosa che
possa predeterminare, dettare regole universalmente valide: in questo senso
avviene, nel libro di Cacciari, l’approdo alla metafisica, ma ad un idea del
cosmo (insieme dei mondi possibili) in cui Dio, come Legge, è morto. L’icona,
sostiene il filosofo, rinnova il mistero del “fontale”, in ciò contrapponendosi
allo sradicamento dell’ebreo dalla fonte, dal “testo”, dall’“origine”.
L’espressione può essere spiegata alla luce dell’approdo all’ontologia di
Leibniz. Ivi appare chiaro che essa indica - in relazione al senso complessivo
del libro e con un che di evocativo della problematica heideggeriana - il
risalimento dal poter o non poter essere della creatura (la sua eventualità),
dall’essere come un che di gettato, alla fonte universale nella quale il
possibile è sostanza, la quale getta continuamente (è il continuum), per poi
tornare a definire la creatura, che è specchio partecipe di una totalità, come
“compossibile”, dotata di una sostanza che è quella della totalità.
Il possibile (anche il ... simultaneo),
come “costituzione ontologica”, si sostituisce alla logica (penso qui al
problema hegeliano del “cominciamento”) nel ricomprendere in sé essere e nulla
come possibili. Il nuovo approccio ai testi leibniziani è senz’altro
suggestivo, ma ivi la metafisica appare diversa, trasformata rispetto a quella
classica, ulteriormente denaturalizzata (la sostituzione del “possibile” alla
logica è eloquente), ovvero definitivamente liberata, mediante la forza
dell’immaginazione, dalla materia.
Le monadi, i veri atomi della natura “atomi metafisici”, ebbe anche a definirli Leibniz), non sono parti costitutive della natura: “La monade è atomo, nel senso di non-composta di elementi materiali”[26]. Esse sono fasci percettivi, composti di infinite minime percezioni[27], cioè di un che di scomponibile all’infinito, che lascia e non lascia intravvedere l’impercettibile (quell’infinito, quell’Invisibile, positivizzato) che ne è la sostanza.
Le monadi, i veri atomi della natura “atomi metafisici”, ebbe anche a definirli Leibniz), non sono parti costitutive della natura: “La monade è atomo, nel senso di non-composta di elementi materiali”[26]. Esse sono fasci percettivi, composti di infinite minime percezioni[27], cioè di un che di scomponibile all’infinito, che lascia e non lascia intravvedere l’impercettibile (quell’infinito, quell’Invisibile, positivizzato) che ne è la sostanza.
Ma, in tutto ciò, ci si potrebbe
domandare, che ne è stato dell’idea di legge? Il risalimento, nella ricerca
ontologica, dalla prospettiva soggettivistica del Dasein (Judesein)
a quella, oggettivistica, del mondo, è anche il passaggio da certe ad altre
condizioni di pensabilità di essa? In parole più semplici: il discorso di
Cacciari sulla legge si esaurisce nella prima parte del libro, oppure va oltre,
proseguendo nella seconda?
Se il problema viene visto sotto il profilo della pensabilità della legge,
considerata come mero oggetto della teoria, l’interpretazione s’imbatte in
richiami linguistici alnòmos, alla Grundnorm, all’ordine,
che conducono tutti alla conclusione che, sotto il profilo oggettivo, non vi è
legge.
Se, in altri termini, ci s’interroga sulla
pensabilità di una legge come conclusione positiva del risalimento dalla
prospettiva del Dasein a quella classicamente ontologica, la
risposta che si ottiene è negativa. La ricerca dell’essere del mondo consiste
nella critica-superamento della legge, dell’ordine, come espressione di
naturalismo, di determinismo (emblematica, direi, a questo proposito, è la
critica del principio dell’entropia); nel ricorso a concetti-princìpi quali
quello della “successione proseguente all’infinito” e nella condivisione della
negazione del principio del “terzo escluso”, dove l’obiettivo generale è
rompere il guscio della logica e del linguaggio (come ostativi di quella
ricerca), spezzare il senso fisico dello spazio e del tempo, per giungere
all’immagine o intuizione pura dell’“origine”, del cosmo.
Se si riflette in modo particolare sul
concetto di “successione proseguente all’infinito” (s.p.i.) - nel quale appare
superata l’idea di Dedekind della successione come numerazione
- ci si rende conto di come quel concetto non sia riducibile alla confutazione
del determinismo (normatività, nomoteticità) della legge (dell’accadere, della
natura, del mondo) attraverso l’introduzione nell’essere di un elemento di
arbitrarietà-libertà (il “possibile”, in fondo, come “sostanza”), ma di come
esso consista nel superamento della pensabilità della legge quale attinente
allo stesso rapporto di reciproca esclusione fra “necessità” e “arbitrio”. Ciò
appare manifesto nei concetti di “bisecabilità dell’uno” e di “uno-duità” (per
la quale Cacciari richiama espressamente lo Zarathustra[28]).
A questi esiti si giunge attraverso quella
ricerca ontologica. Eppure l’idea di legge, il bisogno di essa, che non siano
riducibili nei termini della definizione di legge, caratterizzano profondamente
quell’opera di risalimento. In altre parole: l’importante qui non è la risposta
che segua alla domanda, ma il senso della domanda (che può anche non trovare
risposta). Non bisogna, in certo senso, lasciarsi distrarre dalle conclusioni
della ricerca trascurando il continuo interrogarsi del giovane filosofo sulla
possibilità di una legge, perché è in quell’inquieto interrogarsi che si
racchiude il senso della ricerca.
Allora, di fronte alla domanda: è pensabile una legge oggettiva?, la risposta che si riceve è: la legge è la non-legge (ciò che è un ritornare alla vicenda dell’ebreo, il quale ora è in certo qual senso l’autore stesso del libro); essa non può essere pensata come una legge: dunque legge non si dà, così come Dio non esiste. Ma ciò che qui ha importanza è la domanda stessa.
Allora, di fronte alla domanda: è pensabile una legge oggettiva?, la risposta che si riceve è: la legge è la non-legge (ciò che è un ritornare alla vicenda dell’ebreo, il quale ora è in certo qual senso l’autore stesso del libro); essa non può essere pensata come una legge: dunque legge non si dà, così come Dio non esiste. Ma ciò che qui ha importanza è la domanda stessa.
Nelle pagine dedicate al commento
dell’opera di Malevic e di Florenskij s’incontra a questo riguardo, un brano
che può risultare illuminante: “Un ordine che non è Ortung, non
collegabile a localizzazioni determinate, non soggetto a nessuna terra
sensibile - un ordine che è puro rhytmos matematico - questa
idea (anche attraverso le mediazioni della ‘crisi’ nietzscheana e
dostoevschiana) domina lo spazio figurale immaginativo dell’astrazione”[29].
Per quanto è dato desumere da queste
righe, l’ordine è ciò che dà senso alla ricerca di un essere oggettivo,
all’immaginazione (la parola sembra attagliarsi bene alla Monadologia) di
una “rete cosmica fittissima, le cui particelle si muovono in
avanti e all’indietro nel tempo, a destra e a sinistra nello spazio, ‘libere’
da ogni senso unidirezionale”[30], a questo vedere con la mente il cosmo: l’ordine, in questo, è il bisogno
di ordine che guida l’artista. Ciò significa, per estensione, che è lo stesso
bisogno di legge, di ordine, di immaginare il mondo come legge, a dare senso
alla ricerca dell’essere come essere del mondo: nonostante non si dia legge,
questa vige in interiore homine come un’esigenza insopprimibile.
3. Fato antico e fato moderno
Per chi cerchi nella passione per l’arcaico di Giorgio de Santillana una
vena profonda di contemporaneità, la prima indicazione può essere fornita dal
fatto che in quell’attitudine si possa cogliere un legame obiettivo con la
crisi dell’idea ottocentesca di “progresso ”.
In Fato antico e fato moderno (un volumetto nel quale si
raccolgono articoli datati fra il 1965 e il 1968)[31] si tratta piuttosto di critica che di crisi. Il “progresso”, infatti,
vi appare non come un che d’idealmente e praticamente morto, svuotato, lasciato
alle spalle (ciò invece accade, ad esempio, nella filosofia di Vattimo), ma
come qualcosa di tecnologicamente vivo, operante, che proprio nella sua
evidenza (la migliore esemplificazione è fornita dall’esplosione dell’atomica)
si tramuta in fonte del proprio ridimensionamento ideale.
Il libro, in questo, è sostanzialmente una
sorta di reazione morale di fronte a ciò che meglio simboleggia l’era
tecnico-scientifica. Lo prova il fatto che le riflessioni sul cosiddetto “fato
moderno” sono per lo più ferme allo stadio delle impressioni; che molto, anche
in senso buono, è dato dalla suggestione, mentre le note critiche riguardano
prevalentemente la “macchina”, il cui nido filosofico - qui l’intuizione è
davvero pregevole - è cartesiano.
Ma l’essenza della “macchina ”, che è come
se fosse il frutto della moderna colpa umana, non è la “macchina”: essa in
fondo - sembra quasi una nèmesi - è qualcosa di più che una mera complice del
“fato”.
Di fronte alle riprese filmate dì uno dei
primi esperimenti atomici avvenuto nel Pacifico (“La macchina - è il commento -
era scattata”[32]), de Santillana evoca l’immagine del sorgere di Venere dalle acque[33]. Si tratta di una impressione significativa, che può essere ricollegata,
nell’economia generale del libro, all’ironia usata nei riguardi di un concetto
del Vico, a tenore del quale (le parole sono dello scrittore) “se non possiamo
comprendere la natura possiamo almeno comprendere la storia, come quella che
facciamo noi stessi”[34].
La storia è la “macchina” ed è il
“progresso”; ma in questo modo non si coglie l’essenziale e non si riesce ad
abbracciare l’intera significazione dell’epoca contemporanea, ove invece
riemerge una dimensione superiore, più profonda, rispetto al nostro comprendere:
in fondo è sempre stata la “macchina”, sin dalla sua prima comparsa, a fare la
storia di chi l’aveva fabbricata[35].
La nascita di Venere in realtà esprime la
percezione di quella essenza, che è identificabile in una forza dimenticata.
Nell’età contemporanea, secondo de Santillana, è dato riscontrare il ritorno di
anànke, non la “necessità” che
contraddistingue il realismo o certo materialismo naturalistico, ma, al
contrario, ciò che si oppone al “progresso”.
La questione investe dunque quelle che
potremmo ritenere le illusioni tipiche dell’ideologia progressiva. “Il mondo
industriale nega ogni futuro assegnabile, liquida la fatalità”[36], così come esso ha creduto di avere raggiunto il dominio pieno sulla
natura; ma, a quanto è dato desumere dal testo, lo stesso farsi della storia
impedisce che si torni indietro di tre secoli a respirare, come in una
ritrovata origine, aria di libertà: “Da una parte ci siamo costituiti
prigionieri della natura attraverso il darwinismo e la psicanalisi, dall’altra
abbiamo lasciato che l’attività scientifica fosse presa nell’ingranaggio
tecnico-industriale”[37].
Secondo questa interpretazione l’uomo, nell’età moderna, ha solamente presunto di avere posto sé stesso nella condizione di essere determinato dalla libertà. Il problema del “progresso” si riconnette quindi (questo aspetto non viene sviscerato nel libro, ma ne costituisce una implicazione) a quello della libertà. L’idea del “fato”, ad una più attenta riflessione, cozza immancabilmente contro la nostra moderna idea di storia, ciò che in fondo, sia pure in età tarda, Croce ha espresso, hegelianamente, parlando di “storia come storia della libertà”. Forse non si tratta di una formula da liquidare a causa del suo idealismo, perché questo atteggiamento significherebbe che non ci rendiamo conto a sufficienza di quanto il principio di libertà condizioni la nostra concezione della storia.
Secondo questa interpretazione l’uomo, nell’età moderna, ha solamente presunto di avere posto sé stesso nella condizione di essere determinato dalla libertà. Il problema del “progresso” si riconnette quindi (questo aspetto non viene sviscerato nel libro, ma ne costituisce una implicazione) a quello della libertà. L’idea del “fato”, ad una più attenta riflessione, cozza immancabilmente contro la nostra moderna idea di storia, ciò che in fondo, sia pure in età tarda, Croce ha espresso, hegelianamente, parlando di “storia come storia della libertà”. Forse non si tratta di una formula da liquidare a causa del suo idealismo, perché questo atteggiamento significherebbe che non ci rendiamo conto a sufficienza di quanto il principio di libertà condizioni la nostra concezione della storia.
De Santillana, magari con uno stile “da velocista”, e per lo più a contrario,
ha evidenziato questa verità. Lo ha fatto - ciò che rientra nella profondità
delle sue impressioni - attraverso immagini che, ripensate, conducono ad una
riflessione fondamentale sul tipo di contrapposizione ideale che egli propone
fra modernità e antichità.
Prendiamo ad esempio le macchine di
Tinguely, che lo scrittore ricorda di avere visto in una esposizione
newyorkese. Esse sono marchingegni creati per distruggersi in base al loro
stesso funzionamento; e in ciò consiste la loro carica d’ironia nei confronti del
nostro pregiudizio di poter governare la “macchina” semplicemente con l’arma
della comprensione. Ma questa immagine, che è dì quelle che restano impresse
perché valgono a caratterizzare un discorso filosofico, mi ha fatto tornare
alla memoria i settecenteschi giocattoli meccanici di Vaucançon, ai quali
Lamettrie accennava per confortare le proprie tesi meccanicistiche. Ma quale
distanza fra le due immagini! Nella morale dell’illuminismo, di derivazione più
strettamente cartesiana, la “macchina” aveva un senso necessariamente
liberatorio; nella problematica di de Santìllana quel significato sembra
perfettamente capovolto: essa indica piuttosto imprigionamento, neanche la
semplice irreversibilità storica.
Fin qui, sembra di essere tornati ad
immagini consuete: la hegeliana “astuzia della ragione” oppure l’agostiniana
“predestinazione”, che valgono ad illustrare, nella nostra tradizione, il senso
d’impotenza dell’essere umano dì fronte al destino; ma nel testo in esame
l’idea del “fato” è pre-cristiana e non sembra riconducibile, proprio perché ne
è l’opposto, alla cultura post-platonica in generale.
Avviene infatti che la critica dell’idea
di “progresso” ricacci l’animo indietro nei millenni e che la mente,
inoltrandosi nel pensiero pre-platonico per tentare di risalire alla
“protostoria”, si trovi, per così dire, elevata al cielo: stato degli studi,
certo (il libro in fondo è una serie di spunti, di indicazioni, di
aggiornamenti sulle ricerche, di esortazioni al proseguimento di esse), ma
anche una sorta di stanchezza nel rapporto con la “modernità”, di voglia di
rìdiscutere la storia come luogo, supposto, di libertà.
In Giorgio de Santillana, autore di vari saggi sulla storia della scienza
(Adelphi ha già pubblicato Il mulino di Amleto, opera della quale
egli è coautore), la reazione al “progresso” è significativa. Egli sostiene che
dietro la religiosità degli antichi (bisogna abbandonare l’immagine delle
“danze selvagge, delle urla, delle orge e dei riti cruenti”[38]) si cela una cultura scientifica essenzialmente astronomica - che nella
sua rigorosità può essere solo accostata alla “freddezza” della nostra fisica.
Quella cultura si dimostra ricca di anticipazioni sorprendenti: ciò che si è
attribuito poi alla scienza dei Keplero e dei Copernico, in fondo, era già
stato scoperto.
Parlando, ad esempio, dei presocratici, de
Santillana scrive: “A mano a mano che cresce l’edificio della nostra
consapevolezza della storia, non possiamo fare a meno di riconoscere che furono
proprio quegli antichi a elargire tutte le idee con cui da allora si è
baloccato il pensiero occidentale”[39]. Di Aristarco egli sostiene che costui, nel 370 a.C., “proponeva il
sistema copernicano”[40]; e dei pitagorici che essi avevano elaborato lo “schema fondamentale della
nostra fisica classica, fondata sulla periodicità”[41].
L’antichità, secondo questa proposta di riesame, non è più rappresentabile come approssimazione rozza, infantile, antropomorfica, al reale; oppure, sempre illuministicamente, come focolaio di idolatria, di ridicola superstizione. In essa, all’opposto, è possibile rinvenire il cosiddetto furor mensurandi, un intenso spirito di osservazione e la capacità di costruire - misurandolo, e vivendolo con rigore morale - il cosmo.
L’antichità, secondo questa proposta di riesame, non è più rappresentabile come approssimazione rozza, infantile, antropomorfica, al reale; oppure, sempre illuministicamente, come focolaio di idolatria, di ridicola superstizione. In essa, all’opposto, è possibile rinvenire il cosiddetto furor mensurandi, un intenso spirito di osservazione e la capacità di costruire - misurandolo, e vivendolo con rigore morale - il cosmo.
Ma l’elemento che predomina idealmente nel libro, è, direi, la “notte dei
tempi”, la “protostoria”: “Se non ci fermiamo al fatto strettamente religioso
possiamo scorgere più indietro gli inizi di un pensiero scientifico vero e
proprio, e con esso la possibilità di una valutazione più complessa di quello
che si dice il fato. Al di là dell’Egitto e di Babilonia, al di là anche dei
Sumeri e delle civiltà dell’Indo si comincia oggi a discernere i lineamenti
colossali di una vera astronomia arcaica, quella che fissò il corso dei
pianeti, che dette il nome alle costellazioni dello zodiaco, che creò
l’universo astronomico - e con esso il cosmo - quale lo troviamo già pronto
quando comincia la scrittura, verso il 4000 a.C.”[42].
Questa idea (de Santillana parlerà più avanti di “Mesopotamia protostorica”[43]; di “un cerchio ristretto di pensatori audaci, vissuti in Mesopotamia
verso il V millennio a.C.”[44]) viene per lo più alimentata attraverso l’interpretazione del pensiero presocratico
(emblematico è il Prologo a Parmenide), oppure delle favole
tramandate dai popoli che vivono ancora in condizioni semiprimitive (si pensi
al mito del Cervo, Prometeo-Krònos dei pellirosse della costa canadese del
Pacifico[45]) come “residuo di un linguaggio tecnico anteriore alla scrittura”[46], vale a dire come segni (impoveriti) di una cultura scientifica che sfugge
alla nostra percezione di moderni, la quale è piuttosto incline a seguire gli
spostamenti di questo o quel pianeta che ad avere una visione sinottica del
cosmo.
Non a caso, secondo questo modo di
procedere, l’“Essere” parmenideo (al quale è dedicato il saggio più stimolante
del libro) presenta i connotati della rotondità, della sfericità, della
continuità ed è inscindibilmente legato al “divenire”: in esso non si estingue,
ma si affina, si fa astratta (si va dalla visualizzazione al noèin) l’immagine che la Daìmon
(Afrodite Urania), con il suo moto, “disegna di sé stessa, un fiammeggiante
pentagramma stagliato lungo lo Zodiaco nel corso di otto anni”[47]. Non a caso nella cultura presocratica (sarebbe forse più esatto dire
pre-platonica) fervette l’ideale, unitario, della mousik, del lògos, dell’armonia, del ritmo, della danza
dei pianeti.
Ma, sia beninteso, sono tutte tracce,
residui: lo scrittore mira sempre a riguadagnare, cercando di tenerne viva la
fiammella, il fuoco originario della scientificità che precorre l’epoca della
scrittura, il segreto dei pampàlaioi
(gli “antichissimi”), secondo l’espressione aristotelica.
L’idea del “fato” ha origine in quella
temperie. Essa “prende forma quando l’uomo non subisce come la bestia, ma cerca
di rendersi conto e non accetta il dono d’origine, le grand don de ne
rien comprendre à notre sort”[48].
Ciò che è importante comprendere è che
quell’idea nasce e si afferma in una tensione antropologica alla conoscenza
delle regole di funzionamento dell’universo, in un clima di scienza vissuta,
che contraddistingue le età precristiane; che dunque, nel susseguirsi delle
epoche storiche, quell’idea possa riaffermarsi in un momento di profonda crisi,
non solo del “progresso” (mito ottocentesco), ma anche nel cristianesimo.
Il libro, a questo riguardo, può offrire
alcune indicazioni sulla sua filosofia. Esso è essenzialmente una
rivalutazione, attraverso questa nuova effigie dell’antichità, della
cosmologia. Frasi come “Il pensiero arcaico è cosmologico da cima a fondo”[49], oppure: “La realtà, in senso ontologico, è quella regolarità della
macchina cosmica”[50], stanno a confermare l’impressione generale suscitata dalla lettura del
volumetto.
Ma l’Autore sottolinea il fatto che il segno più evidente della differenza tra la nostra cultura e quella antica è dato dalla insensibilità del pensiero e della scienza dei moderni verso quella cosmologia arcaica che pure ne ha offerto evidenti anticipazioni. Non si prospetta quindi - ciò è sin troppo manifesto - un ritorno alla tradizionale cosmologia moderna, ovvero a quelle filosofie che si siano rese in vario modo portavoce di una coscienza dell’essere umano influenzata da quella dell’universo, ma la ripresa di una dimensione e di una cultura che attendono un vero atto di comprensione.
Ma l’Autore sottolinea il fatto che il segno più evidente della differenza tra la nostra cultura e quella antica è dato dalla insensibilità del pensiero e della scienza dei moderni verso quella cosmologia arcaica che pure ne ha offerto evidenti anticipazioni. Non si prospetta quindi - ciò è sin troppo manifesto - un ritorno alla tradizionale cosmologia moderna, ovvero a quelle filosofie che si siano rese in vario modo portavoce di una coscienza dell’essere umano influenzata da quella dell’universo, ma la ripresa di una dimensione e di una cultura che attendono un vero atto di comprensione.
De Santillana usa anche, per esprimere il senso della sua indicazione, la
parola “metafisica”; ma questo termine non significa la rimessa in giuoco del
pensiero dei Leibniz, o degli Spinoza, o degli Hegel, bensì un dissolvimento
della prospettiva naturalistica che sia contemporaneamente un superamento -
come dimostra la critica delle interpretazioni fuorvianti di Parmenide -
dell’idealismo. L’esito, a mio giudizio, è alla fine quello di una visione
naturalistica del cosmo che per essere caratterizzata da un rapporto vitale con
ciò che avviene materialmente nei corpi celesti (che sono “natura”, o no?)
subisce una profonda smaterializzazione.
Questa impressione può trovare conferma in
alcuni punti qualificanti del testo. Se Afrodite Urania è signora del “tempo”,
ciò significa che il tempo di cui si parla non è quello storico, ma è scandito
dai pianeti, abitatori della Terra. “Necessità”, come opposto del “progresso”,
non è la meccanicità, cioè la prevedibilità scientifica dell’accadere come
valore, bensì proprio l’indistruttibile purezza del “fato”, nella storia e nella
vita. I tratti caratteristici dell’ontologia presocratica (il modello della mousik, dell’armonia, del “continuo”)
prospettano l’idea dell’“essere” come totalità, non nel modo dialettico
hegeliano, ma in un senso profondamente legato al “fato”, alla coscienza che
con esso ambisce immedesimarsi.
Ma, forse, non bisognerebbe lasciarsi
ingannare dai salti nel passato, proprio per il significato che essi
racchiudono in sé. Se le età primitive vengono rivalutate sotto il profilo di
una scienza che aveva il dono, davvero invidiabile, del vissuto (“Guardate! -
sembra dire de Santillana - Gli antichi mettevano in pratica, persino al
momento della morte, ciò che risultava dalla conoscenza, voluta, del cosmo”),
vi è dunque una idealizzazione della scienza che è ancora a metà strada fra la
nostalgia romantica per un passato giudicato (male) illuministicamente e
l’illustrazione, travestita, di nuove, sperate possibilità di sviluppo.
Ciò che qui rileva è dunque la scienza, non come impulso al “progresso”, ma
essenzialmente come mondo ordinato ad essa, come ordine (si pensi
all’importanza attribuita al “numero”, divino strumento arcaico per ordinare
l’universo), in ciò, cosmologico.
Dietro la parola “fato” si nasconde quindi non un brutale invito alla sottomissione, oppure alla rassegnazione (ma in certo senso vi è anche questo) - il che si attaglierebbe ancora agli schemi della nostra tradizione - ma il senso di un accordarsi pieno, armonioso, spontaneo, totale, solo a quel mondo che la scienza possa offrire.
Dietro la parola “fato” si nasconde quindi non un brutale invito alla sottomissione, oppure alla rassegnazione (ma in certo senso vi è anche questo) - il che si attaglierebbe ancora agli schemi della nostra tradizione - ma il senso di un accordarsi pieno, armonioso, spontaneo, totale, solo a quel mondo che la scienza possa offrire.
* Da “Nuovi studi
politici”, n. 3 del 1985.
[1] G.
Vattimo, La fine della modernità, Milano 1985.
[2] Ivi, p.
11.
[3] Ivi.
[4] Ivi, p. 15.
[5] Ivi, p.
27.
[6] Ivi, p.
40.
[7] Ivi, p.
50.
[8] Ivi, pp. 69 e
s.
[9] Ivi, pp. 71 e
s.
[10] Ivi, p.
79.
[11] Ivi, p.
136.
[12] Ivi, p.
180.
[13] Ivi, p.
181.
[14] Ivi.
[15] Ivi, p. 52.
[16] Ivi, p.
182.
[17] Ivi, pp. 182
e s.
[18] Ivi, p.
178.
[19] Ivi, p.
78.
[20] M.
Cacciari, Icone della legge, Milano 1985.
[21] Ivi, pp. 42 e
ss.
[22] Ivi.
[23] Ivi, p. 50.
[24] Ivi, p.
51.
[25] Ivi, p.
188.
[26] Ivi, p.
274.
[27] Ivi.
[28] Ivi, p. 244.
[29] Ivi, p.
203.
[30] Ivi.
[31] G. De
Santilana, Fato antico e fato moderno, Milano 1985.
[32] Ivi, p.
43.
[33] Ivi, p.
41.
[34] Ivi, p.
42.
[35] Cfr. ivi, pp.
42 e s.
[36] Ivi, p.
41.
[37] Ivi.
[38] Ivi, p. 150.
[39] Ivi, p.
81.
[40] Ivi, p.
159.
[41] Ivi, p.
141.
[42] Ivi, p.
11.
[43] Ivi, p.
168.
[44] Ivi, p.
70.
[45] Cfr. ivi, pp.
160-162.
[46] Ivi, p.
160.
[47] Ivi, p.
197.
[48] Ivi, p.
11.
[49] Ivi, p.
152.
[50] Ivi, p.
15.
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