martedì 30 aprile 2013

Tre saggi sul destino dell'uomo







Aveva inizio così, per mano del prof. Valitutti, maestro indimenticabile di libertà e crocianesimo, il mio esordio, per così dire, in letteratura. Erano anni in cui la fine di qualcosa era celebrata come l’aurora di altro, nella coscienza di una età di mezzo, di non so quale durata…*





1. La fine della modernità





Nella Parigi degli anni ‘30, in un corso su Hegel tenuto presso la celebre Ecole pratique des hautes études, e immortalato anche dalla presenza di intellettuali del calibro di Aron, Bataille, Breton, Lacan, Merleau-Ponty e Weil, Alexandre Kojève poneva l’inquietante problema della “fine della storia”. 

Nell’interpretare la Fenomenologia dello spirito secondo il profilo della mortalità dell’uomo, egli metteva in risalto soprattutto il valore della “negatività” come principio dell’azione, della libertà storica dell’uomo nella lotta per il dominio della natura. Per “fine della storia” egli intendeva appunto la conclusione di tale vicenda dello spirito.
Il problema si trova riproposto, sempre con riferimento alla vecchia Europa, ma nello spirito dell’età postindustriale, nell’ultimo lavoro di Gianni Vattimo, La fine della modernità[1], che raccoglie una serie d’interventi tenuti in occasione di conferenze, convegni, seminari, e pubblicati in riviste o volumi miscellanei. In esso l’autore si propone (tentativo che peraltro egli sa assai arduo), attraverso una valorizzazione degli scritti tardi di Heidegger e del Nietzsche maturo, di interpretare quella “fine” e nello stesso tempo di suggerire una prima espressione filosofica del “postmo­derno”.
Nel libro la parola “storia” esprime non già il punto di osservazione critico-nostalgico della sua stessa fine, ma, quasi fosse vista ab externo, l’idea che ha governato una stagione del pensiero che sembra giunta al tramonto.
Nel suo contrasto con le nostre attuali condizioni di esistenza (ben ritratte da Arnold Gehlen nella nozione di post-histoire), nelle quali nulla (di nuovo) sembra (più) accadere in una sensazione generale di atemporalità, la “modernità” è, per definitionem, ciò che “conferisce portata ontologica alla storia”"[2].
Questa caratteristica trova riscontro nel fatto che nell’ambito del “moderno”, il pensare, nel suo volgersi indietro per ritrovare il fondamento autentico e per fare in questo modo opera di rifondazione, avviene nei termini della novità, del progresso, del “superamento” (Aufhebung dialettica, marxismo di Bloch e di Adorno, ecc.).
Il “moderno” si definisce come nozione proprio perché l’idea di “superamento” sembra essere divenuta non-necessaria, costituzionalmente, per il pensare; mentre nel campo della scienza, della tecnica e del vivere sociale (connessione che funziona bene, nel consumismo) quell’idea si è svuotata perché il progresso è divenuto routine[3], traducendosi in (riducendosi a) un che di “fisiolo­gicamente richiesto per la pura e semplice sopravvivenza del sistema”[4].
Solo dopo avere raggiunto questo tipo di coscienza di una “fine” ha un senso l’interrogarsi sul “postmoderno”, inteso come qualcosa che, pur accadendo dopo il “moderno”, esclude la pensabilità di questa successione nei termini del quid novi, dell’oltrepassamento.
La fine della storia, interpretata come fine della modernità, si riconnette, nel libro, alla crisi della metafisica: il tramonto dell’idea caratterizzante di “superamento” riconduce al nichilismo, che Vattimo identifica non solo nella proclamazione nietzscheana della “morte di Dio” e nella situazione nella quale “l’uomo roto­la via dal centro verso la X”, ma anche nell’espressione heideggenana secondo cui nel nostro tempo “dell’essere come tale ‘non ne è più nulla’”[5].
Secondo questa interpretazione, ciò che accade alla metafisica (e che apre alla possibilità di una Verwindung di essa) accade all’umanismo ed è obiettivamente legato al tramonto dell’arte, nell’accezione classica della parola. 
La “crisi dell’umanismo” è lo smascheramento di un ruolo di presenza, in certo modo dissimulata, che l’uomo ha avuto nella metafisica. Citando uno scritto heideggeriano del 1946 - Über den Humanismus - Vattimo fa notare che in quell’opera “umanismo è addirittura sinonimo di metafisica, in quanto solo nella prospettiva di una metafisica come teoria generale dell’essere dell’ente [...] l’uomo può trovare una definizione, sulla cui base si può ‘costruire’, educarsi dandosi una Bildung anche nel senso delle humanae litterae che definiscono l’umanismo come momento della storia della cultura europea. Non c’è umanismo se non come dispiegarsi di una metafisica nella quale l’uomo si determina un ruolo, che non è necessariamente centrale o esclusivo. Anzi, come mostra del resto Heidegger nella sua sempre di nuovo ripresa ricostruzione della storia della metafisica, solo in quanto non viene in luce il suo carattere ‘umanistico’, nel senso di riduzione di tutto all’uomo, la metafisica può sopravvivere come tale; quando tale carattere riduttivo della metafisica si fa esplicito, come accade, secondo Heidegger, in Nietzsche (l’essere come volontà di potenza), ‘la metafisica è ormai al suo tramonto, e con essa, come constatiamo ogni giorno, tramonta anche l’umanismo’ ”[6].
Il brano, davvero stimolante, centrale, svela appieno l’heideggerismo di Vattimo, nel senso che nel parlare della nietzseheana “morte di Dio” e della crisi che colpisce l’umanismo egli si contrappone, ipso facto, alla filosofia che definisce “riappropriativa”, ricomprendendovi una parte del marxismo contemporaneo e l’ateismo alla Feuerbach, che consiste proprio in quel ridurre “tutto all’uomo”. “Riappropriativa” è qualsiasi reazione umanistica alla crisi dell’umanismo e al dominio della tecnica, qualsiasi modo di pensare che creda che quella crisi nasca e si sviluppi come estranea all’uomo, senza cornprometterne l’essenza e dunque la possibilità di un recupero; qualsiasi filosofia nella quale l’uomo (il soggetto, come substantia), teorizzato ancora, cartesianamente, come coscienza, auto­coscienza, sia il “correlato dell’essere metafisico caratterizzato in termini di oggettività, cioè come evidenza, stabilità, certezza inconcussa”[7]
Proprio nella critica di questo genere di filosofia, che è l’opporsi ad un certo modo di reagire negativamente, con il rifiuto, al primato (disumanizzante?) della tecnica, il libro trova il suo fondamento. È in questo senso che Vattimo mira a cogliere in Nietzsche e in Heidegger quei concetti che consentano di interpretare la “crisi” (dell’umanismo) e l’uscita dal “moderno” in un modo positivo.
Ciò si manifesta già nel rapporto fra il tramonto dell’arte - l’altro aspetto collegato alla crisi della metafisica - e le considerazioni dell’ultimo Heidegger sull’essere (come può avvenire) nell’arte, che si incentrano nella formula, più volte ripetuta nel libro, dell’opera d’arte come “messa in opera della verità”. L’importanza di questa formula è dovuta al fatto che il riferimento al campo dell’estetica non è meramente esemplificativo per una teoria della società tecnologica, se è vero che di fronte al dominio della tecnica non solo l’arte tende a massificarsi, a tradursi in estetizzazione dell’esistenza (Saggio sulla liberazione di Marcuse), ma di più a manifestare per prima, secondo teorie che quanto meno all’esistenzialismo si richiamano, i segni del “postmoderno”.
La questione della centralità dell’arte, non essendo risolvibile nei termini della nietzscheana “volontà di potenza” o del fenomeno delle avanguardie e neanche, secondo il rapporto fra l’ermeneutica di Heidegger e quella di Gadamer, nella “critica della coscienza estetica” (il che varrebbe a riproporre il modello della “modernità”), ha un senso, secondo Vattimo, proprio qualora la si interpreti secondo quella formula. 
Heidegger individua nell’opera d’arte la compresenza della “esposizione” (Aufstellung) di un mondo e della “produzione” (Herstellung) della terra (erde). Esposizione del (di un) mondo “significa che l’opera d’arte ha una funzione di fondazione e costituzione delle linee che definiscono un mondo storico. Un mondo storico, una società o un gruppo sociale, riconosce i tratti costitutivi della propria esperienza del mondo - per esempio i criteri segreti di distinzione tra vero e falso, bene e male, ecc. - in un’opera d’arte”[8].
Nella produzione della “terra”, questa parola indica la “materialità (non ‘fisica’, mai)” dell’opera. Essa, nell’opera, “non è la materia in senso stretto; è però la sua presenza come tale, il suo puntuale manifestarsi come qualcosa che richiama sempre di nuovo l’attenzione [...], l’hic et nunc dell’opera a cui ogni nuova interpretazione sempre ritorna, e che suscita sempre nuove letture, dunque nuovi possibili ‘mondi’ [...]. Terra, physis sono ciò che zeitigt: alla lettera che matura nel senso del vivente; ma anche che ‘si temporalizza’ secondo l’uso etimologico che fa di questo verbo Sein und Zeit L’altro dal mondo, la terra, non è ciò che dura, anzi proprio l’opposto, ciò che appare come quello che sempre si ritrae in una ‘naturalità’ che comporta lo Zeitigen, il nascere e il maturare portando sul volto i segni del tempo”[9].
La “terra” - scrive altrove Vattimo - “è quell’elemento dell’opera che si fa avanti come sempre di nuovo chiudentesi, come una sorta di nocciolo mai consumabile dalle interpretazioni, mai esaurito nei significati. Anche dalla terra, come dallo Zeigen, siamo rimandati alla mortalità”[10]

La “terra”, nel suo rapporto col “mondo”, indica quella atemporalità e quella astoricità (riscontrabile, secondo Gehlen, anche nell’utopìsmo dei rivoluzionari) che sono i caratteri che denotano una possibilità di apertura del pensiero nel senso del postmoderno: “L’arte sì definisce ‘messa in opera della verità’ proprio perché tiene vivo il conflitto tra mondo e terra, cioè fonda il mondo mentre ne esibisce l’infondatezza”[11].
Già in questa ultima proposizione (“fonda il mondo mentre ne esibisce l’infondatezza”) si ha il profilarsi della nozione heideggeriana di Verwindung, parola con la quale si indica una sorta di “superamento” inteso non nel suo senso usuale, né come Aufhebung dialettica, ma come “oltrepassamento che ha in sé i tratti dell’accettazione e dell’approfondimento”[12]. Sotto questo profilo la metafisica è “qualcosa che rimane in noi come le tracce di una malattia e come un dolore al quale ci si rassegna”[13]; essa, al pari del Gestell heideggeriano (il porsi, l’imporsi, il provocare della tecnica) non è inoltre “qualcosa che si accetta puramente e semplicemente”, ma che può essere vissuto come una chance, “come la possibilità di un cambiamento in virtù del quale essi si torcono in una direzione che non è quella prevista dalla loro essenza propria, e tuttavia vi è connessa”[14].
Il discorso sulla Verwindung, va sempre ricollegato alla questione del rapporto fra la crisi dell’umanismo (come mancanza di ogni possibile base di riappropriazione), il recupero degli elementi irdisch, terrestri, dell’“esserci”[15], il senso che quella crisi e quel recupero assumono in stretta relazione con il mondo della tecnica. La nozione di Verwindung assume piena espressività qualora sia pensata in relazione al fatto che l’arte è “messa in opera della verità” perché “fonda il mondo mentre ne esibisce l’infondatezza”.
In questo senso quell’“oltrepassamento” ha quale propria conditio sine qua non un essere concepito non più come forte, solido, in presenza (l’ontos on platonico), ma un essere che sia indebolito nel senso indicato dal continuo richiamo alla “terra”, come qualcosa che dura in quanto mortalità ed eventualità. 
Con la nozione di Verwindung si profila l’uscita dalla modernità e l’introdursi nel postmoderno: sotto questo aspetto tale concetto, secondo Vattimo, va integrato con quello, sempre heideggeriano, di An-denken (rimemorazione). Rimemorare l’essere significa che possiamo pensarlo diversamente dall’essere forte e dato in presenza della metafisica tradizionale, “solo come gewesen, solo come non (più) presente”[16].
Il risalimento heideggeriano della storia della metafisica, “non ci conduce in nessun luogo, se non a ricordarci dell’essere come di quello da cui abbiamo già sempre preso congedo. L’essere si dà qui solo nella forma del Geschick (l’insieme dell’invio) e della Überlieferung (la trasmissione)”[17]
Di questi motivi heideggeriani Vattimo, con profonda diligenza, coglie l’anticipazione nella nietzscheana “filosofia del mattino” (che lo stesso autore ricollega all’“eterno ritorno all’uguale” e allo Übermensch). La “filosofia del mattino” è il pensiero non più orientato sull’origine o sul fondamento, che sono oramai insignificanti, ma sulla “prossimità”; essa non consiste nella individuazione e critica degli errori della metafisica e della morale, ma nel ripercorrerne i cammini, le erranze, “nel vederli come sorgente stessa della ricchezza che ci costituisce e che dà interesse, colore, essere, al mondo”[18].
Questo concetto, ricollegabile al celebre enunciato de Il crepuscolo degli idoli, secondo cui “il mondo vero è divenuto favola e con esso pero si è dissolto anche il mondo ‘apparente’”[19], è un modo di pensare “decostruttivo”, non cioè critico, che al pari dei concetti heideggeriani di Verwindung e di Andenken, rientra in quella idea di pensiero “fruitivo” nella quale sembra davvero concretarsi la prospettiva di un “postomoderno” nella filosofia e nella vita. 
Guardando al fondo di questi concetti, si può notare come il significato realistico di essi sia la ricerca, provocata dal primato che la tecnica ha raggiunto rispetto alle nostre condizioni effettive di esistenza (il motivo del Ge-stell è sempre sullo sfondo del libro), di un modo di pensare la nostra tradizione sapendola non più come un valore. 
Questa possibilità, per il pensiero, è stata liberata dal fatto che la routinizzazione del progresso (nel campo della scienza, della tecnica, della moda) sembra aver sottratto alla filosofia e alla vita della nostra Europa quella forte tensione ideale al “superamento” che ha caratterizzato i movimenti di liberazione nazionale dell’Ottocento. 
In questo senso la fine della modernità manifesta davvero il suo legame di trasparenza con quella fine della storia, alla quale si è fatto cenno in sede introduttiva.






2. Icone della legge





All’essere, all’“esserci” come sradicato, “decentrato”, dimentico dell’“origine”, al nietzscheano rotolare dell’uomo “via dal centro verso la X” (al quale Vattimo riconduce espressivamente il nichilismo), può essere ricollegata, prima facie, la vicenda dell’ebreo narrata da Massimo Cacciari in Icone della legge[20]. Il libro, che è uno scrivere fitto e inquieto, dove nel giuoco del linguaggio sembra manifestarsi l’allusione alla tematica heideggeriana, si divide in due parti. La prima (“Sulla legge”) è un’interpretazione, dotata di originalità, de La stella della redenzione di Rosenzweig, di alcune fra le più celebri opere di Kafka e del Mosè e il monoteismo di Sigmund Freud. La seconda (“Sull’icona”) è una riflessione tesa a cogliere le profonde affinità tra i concetti espressi sull’arte da Florenskij e l’arte di Malevic, tra la matematica formalistica (soprattutto l’intuizionismo puro di Brower) e la pittura di Mondrian, fra questa e la cosmologia leibniziana, fra la monadologia e l’opera di Klee.

È suggestivo, se vogliamo, il travestimento religioso del modo di raccontare, che riecheggia la Sacra scrittura (Vecchio e Nuovo Testamento): il passaggio dalla prima alla seconda parte, fra l’altro, è scandito dal significato del mistero dell’incarnazione, per cui l’icona è in certo senso il Cristo, l’avvento dell’umanistico, ed una sorta d’introduzione all’immagine, proibita nella storia vetero-testamentaria, dell’“Invisibile”.
Ma dietro siffatto travestimento... sacro si cela quella che può essere considerata la singolarità del libro: il tentativo di esplorare nuove forme di pensabilità della legge, o meglio dell’idea di legge, non certo giuridica, non religiosa, ma tendenzialmente categorica. Il riguadagnare, per l’uomo, una tale prospettiva, è il motivo centrale dello scritto; ma esso si effonde in una sottile, costante ambiguitas, secondo cui l’apparente mancanza-rifiuto di ogni legge nella psicologia umana, nasconde-rivela in fondo la necessità di avere una legge.
La Legge (ebraica) segue l’ebreo nella sua vicenda esistenziale, l’Entortung (sradicamento), conferendo alla sua figura incredibile attualità; essa è lo Judesein, comeDasein dell’ebreo, secondo un’applicazione del concetto heideggeniano dell’“esserci” alla vicenda biblica. 
La proposizione da cui prende l’avvio l’intero scritto è che l’ebreo, contrariamente alla lezione di Hegel e di Schelling, non è “nella Legge”, ma, come sostiene Rosenzweig, è “la creatura che fa la Legge”[21]. Se l’ebreo-uomo giunge a desiderare, in certi momenti, qualcosa di opposto alla sua legge, non per questo egli smetterà di cercare il confronto con (conforto di) essa.
Nei personaggi kafkiani, osservati da Cacciari con un argomentare ricco ed intelligente, ciò è palese: essi cercano la sicurezza della legge proprio nel momento in cui dentro di loro si concreta l’ist-frage, l’interrogarsi continuo, cercando di oltrepassare incessantemente, senza però avere risposta. Ma proprio in ciò, in questa ricerca della legge come evidenza (“interminabile interpretazione sradicata ormai da ogni Fonte o Testo”), vi è decisione, vale a dire, nel linguaggio di Cacciari, il perdere, lo smarrire il senso, la coscienza dell’“origine” (antica legge come “Testo”).
Perché, dunque, l’ebreo? Perché egli, tratto fuori dal Vecchio Testamento e dalla sua stessa dimensione storica attraverso un incalzante ritmo interpretativo, è la raffigurazione migliore della stessa possibilità di pensare la legge come un che di radicato nell’uomo (nella umanità dell’uomo), ciò cui egli non può rinunciare, un che di connaturato in lui, un pallido ma inevitabile ritorno alla cultura dello ius naturae.
Ciò diviene manifesto dove Cacciari[22] si occupa del nòmos schmittiano, motivo assai rilevante nell’attuale dibattito filosofico-politico. Il nòmos, secondo la ricostruzione etimologica e concettuale di Carl Schmitt, indica, non le antiche consuetudini dei greci come fonte del diritto, secondo l’accezione dei giuristi, ma qualcosa di legato all’economia e al diritto, che su quell’economia - di origine appropriativa - si edifica, della terra (erde); nella versione di Cacciari esso designa così l’esser vincolato alla terra, il “terraneo”.

La Legge ebraica è qualcosa che è in sé sradicato rispetto alla terra ed allo Stato che su di essa (intesa però non come mera territorialità) costituisce il suo diritto, le sue leggi. L’ebreo in ciò ha precorso, dolorosamente, i tempi della crisi dello Stato moderno, legata agli sviluppi assunti dall’economia dei commerci; anche se egli, ora che lo Stato-nòmos è in crisi, è colui che desidera uno Stato, una terra. In questo modo l’Entortung, che può apparire come negativo per l’ordine e la legge, si capovolge in un che di positivo per essi: la nuova concezione della legge, quale viene prospettata in queste pagine da Cacciari, dice che essa è Ordnung (ordine), ma non necessariamente inteso  come Ortung (radicamento). 
Nello stesso tempo la Legge (ebraica) è vicenda opposta rispetto alla “forza”, la quale, idealmente contrapposta ad esso, è realiter generativa e conservativa del diritto degli Stati: la forza è ciò che fa durare la legge dello Stato[23]. L’idea di legge, proprio per non essere legata alla forza, ma solo al Dasein, è ciò che dura oltre gli Stati; ovvero essa, come “diritto globale oltreterraneo, che via via si estende ai liberi spazi del mare e del cielo”[24], è qualcosa che ricomprende, nel suo divenire, la storia dello Stato. 
In questo modo viene dimostrato, con ingegno, non tanto che la “legge” è pensabile come gerarchicamente sovraordinata rispetto ad altre leggi, ma che essa è idea solo qualora si astragga dallo Stato e dal diritto. Ogni commento, ogni osservazione fatta sull’ebreo, diviene a questo punto in Cacciari una dimostrazione della validità di quella intuizione. 
Nel travestimento offerto dalla Sacra scrittura, l’icona toglie la benda di Mosè, libera gli occhi, apre (sul mistero, senza rivelarlo: “L’antinomicità dell’icona consiste nel mostrarsi del propriamente Invisibile”[25]) quella Porta che il protagonista de Il processo non osava varcare nonostante fosse aperta: essa vince in ciò la proibizione vetero-testamentaria della raffigurabilità dell’Invisibile.
Nella seconda parte dell’opera, con queste premesse, l’ontologia viene per così dire completata mediante un risalire dalla prospettiva del Dasein (l’“esserci”, raccontato come essere dell’ebreo, Judesein) all’essere del mondo. L’iter per giungervi è contraddistinto dal commento ad alcuni concetti posti dal formalismo matematico (quali la “successione proseguente dell’infinito”, la confuta­zione del principio del “terzo escluso”, la teorizzazione di un’intuizione denaturalizzata - penso qui, per contrasto, all’“intuizione sensibile” di Feuerbach - di contro alla logica e al linguaggio, legati a regole e ad un’idea di fisicità), dall’interpretazione dei motivi mondrianiani dell’albero e della croce (astrattismo che va oltre il cubismo come mera scomposizione formale delle figure) e della pittura di Klee (soprattutto la “città”).
Il senso di tali riferimenti è dato dalla critica di un concetto deterministico di legge, di ordine, e dall’approdo ad una serie di idee-immagini (intuizione pura dell’“origine”) che la costruzione razionale non può raggiungere, quali il continuum, il rhytmos, la “danza” (motivo trasparentemente nietzscheano), l’armonia, la polifonia, l’“infinito attuale”, la “bisecabilità dell’uno”, la “uno­duità” (dove si richiama ancora Nietzsche).

Sono tentativi di un approccio-approssimazione all’immagine dell’essere del mondo, che non può consistere in un’idea di Ordnung che coincida con il “nomotetico”. Se ordine si può pensare, esso non è qualcosa che possa predeterminare, dettare regole universalmente valide: in questo senso avviene, nel libro di Cacciari, l’approdo alla metafisica, ma ad un idea del cosmo (insieme dei mondi possibili) in cui Dio, come Legge, è morto. L’icona, sostiene il filosofo, rinnova il mistero del “fontale”, in ciò contrapponendosi allo sradicamento dell’ebreo dalla fonte, dal “testo”, dall’“origine”. L’espressione può essere spiegata alla luce dell’approdo all’ontologia di Leibniz. Ivi appare chiaro che essa indica - in relazione al senso complessivo del libro e con un che di evocativo della problematica heideggeriana - il risalimento dal poter o non poter essere della creatura (la sua eventualità), dall’essere come un che di gettato, alla fonte universale nella quale il possibile è sostanza, la quale getta continuamente (è il continuum), per poi tornare a definire la creatura, che è specchio partecipe di una totalità, come “compossibile”, dotata di una sostanza che è quella della totalità.
Il possibile (anche il ... simultaneo), come “costituzione ontologica”, si sostituisce alla logica (penso qui al problema hegeliano del “cominciamento”) nel ricomprendere in sé essere e nulla come possibili. Il nuovo approccio ai testi leibniziani è senz’altro suggestivo, ma ivi la metafisica appare diversa, trasformata rispetto a quella classica, ulteriormente denaturalizzata (la sostituzione del “possibile” alla logica è eloquente), ovvero definitivamente liberata, mediante la forza dell’immaginazione, dalla materia.
Le monadi, i veri atomi della natura “atomi metafisici”, ebbe anche a definirli Leibniz), non sono parti costitutive della natura: “La monade è atomo, nel senso di non-composta di elementi materiali”[26]. Esse sono fasci percettivi, composti di infinite minime percezioni[27], cioè di un che di scomponibile all’infinito, che lascia e non lascia intravvedere l’impercettibile (quell’in­finito, quell’Invisibile, positivizzato) che ne è la sostanza. 
Ma, in tutto ciò, ci si potrebbe domandare, che ne è stato dell’idea di legge? Il risalimento, nella ricerca ontologica, dalla prospettiva soggettivistica del Dasein (Judesein) a quella, oggettivistica, del mondo, è anche il passaggio da certe ad altre condizioni di pensabilità di essa? In parole più semplici: il discorso di Cacciari sulla legge si esaurisce nella prima parte del libro, oppure va oltre, proseguendo nella seconda?

Se il problema viene visto sotto il profilo della pensabilità della legge, considerata come mero oggetto della teoria, l’interpretazione s’imbatte in richiami linguistici alnòmos, alla Grundnorm, all’ordine, che conducono tutti alla conclusione che, sotto il profilo oggettivo, non vi è legge.
Se, in altri termini, ci s’interroga sulla pensabilità di una legge come conclusione positiva del risalimento dalla prospettiva del Dasein a quella classicamente ontologica, la risposta che si ottiene è negativa. La ricerca dell’essere del mondo consiste nella critica-superamento della legge, dell’ordine, come espressione di naturalismo, di determinismo (emblematica, direi, a questo proposito, è la critica del principio dell’entropia); nel ricorso a concetti-princìpi quali quello della “successione proseguente all’infinito” e nella condivisione della negazione del principio del “terzo escluso”, dove l’obiettivo generale è rompere il guscio della logica e del linguaggio (come ostativi di quella ricerca), spezzare il senso fisico dello spazio e del tempo, per giungere all’immagine o intuizione pura dell’“origine”, del cosmo.
Se si riflette in modo particolare sul concetto di “successione proseguente all’infinito” (s.p.i.) - nel quale appare superata l’idea di Dedekind della successione come numerazione - ci si rende conto di come quel concetto non sia riducibile alla confutazione del determinismo (normatività, nomoteticità) della legge (dell’accadere, della natura, del mondo) attraverso l’introduzione nell’essere di un elemento di arbitrarietà-libertà (il “possibile”, in fondo, come “sostanza”), ma di come esso consista nel superamento della pensabilità della legge quale attinente allo stesso rapporto di reciproca esclusione fra “necessità” e “arbitrio”. Ciò appare manifesto nei concetti di “bisecabilità dell’uno” e di “uno-duità” (per la quale Cacciari richiama espressamente lo Zarathustra[28]). 
A questi esiti si giunge attraverso quella ricerca ontologica. Eppure l’idea di legge, il bisogno di essa, che non siano riducibili nei termini della definizione di legge, caratterizzano profondamente quell’opera di risalimento. In altre parole: l’importante qui non è la risposta che segua alla domanda, ma il senso della domanda (che può anche non trovare risposta). Non bisogna, in certo senso, lasciarsi distrarre dalle conclusioni della ricerca trascurando il continuo interrogarsi del giovane filosofo sulla possibilità di una legge, perché è in quell’inquieto interrogarsi che si racchiude il senso della ricerca.
Allora, di fronte alla domanda: è pensabile una legge oggettiva?, la risposta che si riceve è: la legge è la non-legge (ciò che è un ritornare alla vicenda dell’ebreo, il quale ora è in certo qual senso l’autore stesso del libro); essa non può essere pensata come una legge: dunque legge non si dà, così come Dio non esiste. Ma ciò che qui ha importanza è la domanda stessa. 
Nelle pagine dedicate al commento dell’opera di Malevic e di Florenskij s’incontra a questo riguardo, un brano che può risultare illuminante: “Un ordine che non è Ortung, non collegabile a localizzazioni determinate, non soggetto a nessuna terra sensibile - un ordine che è puro rhytmos matematico - questa idea (anche attra­verso le mediazioni della ‘crisi’ nietzscheana e dostoevschiana) domina lo spazio figurale immaginativo dell’astrazione”[29].

Per quanto è dato desumere da queste righe, l’ordine è ciò che dà senso alla ricerca di un essere oggettivo, all’immaginazione (la parola sembra attagliarsi bene alla Monadologia) di una “rete cosmica fittissima, le cui particelle si muovono in avanti e all’indietro nel tempo, a destra e a sinistra nello spazio, ‘libere’ da ogni senso unidirezionale”[30], a questo vedere con la mente il cosmo: l’ordine, in questo, è il bisogno di ordine che guida l’artista. Ciò significa, per estensione, che è lo stesso bisogno di legge, di ordine, di immaginare il mondo come legge, a dare senso alla ricerca dell’essere come essere del mondo: nonostante non si dia legge, questa vige in interiore homine come un’esigenza insopprimibile.






3. Fato antico e fato moderno





Per chi cerchi nella passione per l’arcaico di Giorgio de Santillana una vena profonda di contemporaneità, la prima indicazione può essere fornita dal fatto che in quell’attitudine si possa cogliere un legame obiettivo con la crisi dell’idea ottocentesca di “progresso ”.

In Fato antico e fato moderno (un volumetto nel quale si raccolgono articoli datati fra il 1965 e il 1968)[31] si tratta piuttosto di critica che di crisi. Il “progresso”, infatti, vi appare non come un che d’idealmente e praticamente morto, svuotato, lasciato alle spalle (ciò invece accade, ad esempio, nella filosofia di Vattimo), ma come qualcosa di tecnologicamente vivo, operante, che proprio nella sua evidenza (la migliore esemplificazione è fornita dall’esplosione dell’atomica) si tramuta in fonte del proprio ridimensionamento ideale.
Il libro, in questo, è sostanzialmente una sorta di reazione morale di fronte a ciò che meglio simboleggia l’era tecnico-scientifica. Lo prova il fatto che le riflessioni sul cosiddetto “fato moderno” sono per lo più ferme allo stadio delle impressioni; che molto, anche in senso buono, è dato dalla suggestione, mentre le note critiche riguardano prevalentemente la “macchina”, il cui nido filosofico - qui l’intuizione è davvero pregevole - è cartesiano. 
Ma l’essenza della “macchina ”, che è come se fosse il frutto della moderna colpa umana, non è la “macchina”: essa in fondo - sembra quasi una nèmesi - è qualcosa di più che una mera complice del “fato”. 
Di fronte alle riprese filmate dì uno dei primi esperimenti atomici avvenuto nel Pacifico (“La macchina - è il commento - era scattata”[32]), de Santillana evoca l’immagine del sorgere di Venere dalle acque[33]. Si tratta di una impressione significativa, che può essere ricollegata, nell’economia generale del libro, all’ironia usata nei riguardi di un concetto del Vico, a tenore del quale (le parole sono dello scrittore) “se non possiamo comprendere la natura possiamo almeno comprendere la storia, come quella che facciamo noi stessi”[34].
La storia è la “macchina” ed è il “progresso”; ma in questo modo non si coglie l’essenziale e non si riesce ad abbracciare l’intera significazione dell’epoca contemporanea, ove invece riemerge una dimensione superiore, più profonda, rispetto al nostro comprendere: in fondo è sempre stata la “macchina”, sin dalla sua prima comparsa, a fare la storia di chi l’aveva fabbricata[35]
La nascita di Venere in realtà esprime la percezione di quella essenza, che è identificabile in una forza dimenticata. Nell’età contemporanea, secondo de Santillana, è dato riscontrare il ritorno di anànke, non la “necessità” che contraddistingue il realismo o certo materialismo naturalistico, ma, al contrario, ciò che si oppone al “progresso”. 
La questione investe dunque quelle che potremmo ritenere le illusioni tipiche dell’ideologia progressiva. “Il mondo industriale nega ogni futuro assegnabile, liquida la fatalità”[36], così come esso ha creduto di avere raggiunto il dominio pieno sulla natura; ma, a quanto è dato desumere dal testo, lo stesso farsi della storia impedisce che si torni indietro di tre secoli a respirare, come in una ritrovata origine, aria di libertà: “Da una parte ci siamo costituiti prigionieri della natura attraverso il darwinismo e la psicanalisi, dall’altra abbiamo lasciato che l’attività scientifica fosse presa nell’ingranaggio tecnico-industriale”[37].
Secondo questa interpretazione l’uomo, nell’età moderna, ha solamente presunto di avere posto sé stesso nella condizione di essere determinato dalla libertà. Il problema del “progresso” si ri­connette quindi (questo aspetto non viene sviscerato nel libro, ma ne costituisce una implicazione) a quello della libertà. L’idea del “fato”, ad una più attenta riflessione, cozza immancabilmente contro la nostra moderna idea di storia, ciò che in fondo, sia pure in età tarda, Croce ha espresso, hegelianamente, parlando di “storia come storia della libertà”. Forse non si tratta di una formula da liquidare a causa del suo idealismo, perché questo atteggiamento significherebbe che non ci rendiamo conto a sufficienza di quanto il principio di libertà condizioni la nostra concezione della storia.

De Santillana, magari con uno stile “da velocista”, e per lo più a contrario, ha evidenziato questa verità. Lo ha fatto - ciò che rientra nella profondità delle sue impressioni - attraverso immagini che, ripensate, conducono ad una riflessione fondamentale sul tipo di contrapposizione ideale che egli propone fra modernità e antichità. 
Prendiamo ad esempio le macchine di Tinguely, che lo scrittore ricorda di avere visto in una esposizione newyorkese. Esse sono marchingegni creati per distruggersi in base al loro stesso funzionamento; e in ciò consiste la loro carica d’ironia nei confronti del nostro pregiudizio di poter governare la “macchina” semplicemente con l’arma della comprensione. Ma questa immagine, che è dì quelle che restano impresse perché valgono a caratterizzare un discorso filosofico, mi ha fatto tornare alla memoria i settecenteschi giocattoli meccanici di Vaucançon, ai quali Lamettrie accennava per confortare le proprie tesi meccanicistiche. Ma quale distanza fra le due immagini! Nella morale dell’illuminismo, di derivazione più strettamente cartesiana, la “macchina” aveva un senso necessariamente liberatorio; nella problematica di de Santìllana quel significato sembra perfettamente capovolto: essa indica piuttosto imprigionamento, neanche la semplice irreversibilità storica.
Fin qui, sembra di essere tornati ad immagini consuete: la hegeliana “astuzia della ragione” oppure l’agostiniana “predestinazione”, che valgono ad illustrare, nella nostra tradizione, il senso d’impotenza dell’essere umano dì fronte al destino; ma nel testo in esame l’idea del “fato” è pre-cristiana e non sembra riconducibile, proprio perché ne è l’opposto, alla cultura post-platonica in generale. 
Avviene infatti che la critica dell’idea di “progresso” ricacci l’animo indietro nei millenni e che la mente, inoltrandosi nel pensiero pre-platonico per tentare di risalire alla “protostoria”, si trovi, per così dire, elevata al cielo: stato degli studi, certo (il libro in fondo è una serie di spunti, di indicazioni, di aggiornamenti sulle ricerche, di esortazioni al proseguimento di esse), ma anche una sorta di stanchezza nel rapporto con la “modernità”, di voglia di rìdiscutere la storia come luogo, supposto, di libertà.

In Giorgio de Santillana, autore di vari saggi sulla storia della scienza (Adelphi ha già pubblicato Il mulino di Amleto, opera della quale egli è coautore), la reazione al “progresso” è significativa. Egli sostiene che dietro la religiosità degli antichi (bisogna abbandonare l’immagine delle “danze selvagge, delle urla, delle orge e dei riti cruenti”[38]) si cela una cultura scientifica essenzialmente astronomica - che nella sua rigorosità può essere solo acco­stata alla “freddezza” della nostra fisica. Quella cultura si dimostra ricca di anticipazioni sorprendenti: ciò che si è attribuito poi alla scienza dei Keplero e dei Copernico, in fondo, era già stato scoperto.
Parlando, ad esempio, dei presocratici, de Santillana scrive: “A mano a mano che cresce l’edificio della nostra consapevolezza della storia, non possiamo fare a meno di riconoscere che furono proprio quegli antichi a elargire tutte le idee con cui da allora si è baloccato il pensiero occidentale”[39]. Di Aristarco egli sostiene che costui, nel 370 a.C., “proponeva il sistema copernicano”[40]; e dei pitagorici che essi avevano elaborato lo “schema fondamentale della nostra fisica classica, fondata sulla periodicità”[41].
L’antichità, secondo questa proposta di riesame, non è più rappresentabile come approssimazione rozza, infantile, antropomorfica, al reale; oppure, sempre illuministicamente, come focolaio di idolatria, di ridicola superstizione. In essa, all’opposto, è possibile rinvenire il cosiddetto furor mensurandi, un intenso spirito di osservazione e la capacità di costruire - misurandolo, e vivendolo con rigore morale - il cosmo.

Ma l’elemento che predomina idealmente nel libro, è, direi, la “notte dei tempi”, la “protostoria”: “Se non ci fermiamo al fatto strettamente religioso possiamo scorgere più indietro gli inizi di un pensiero scientifico vero e proprio, e con esso la possibilità di una valutazione più complessa di quello che si dice il fato. Al di là dell’Egitto e di Babilonia, al di là anche dei Sumeri e delle civiltà dell’Indo si comincia oggi a discernere i lineamenti colossali di una vera astronomia arcaica, quella che fissò il corso dei pianeti, che dette il nome alle costellazioni dello zodiaco, che creò l’universo astronomico - e con esso il cosmo - quale lo troviamo già pronto quando comincia la scrittura, verso il 4000 a.C.”[42].

Questa idea (de Santillana parlerà più avanti di “Mesopotamia protostorica”[43]; di “un cerchio ristretto di pensatori audaci, vissuti in Mesopotamia verso il V millennio a.C.”[44]) viene per lo più alimentata attraverso l’interpretazione del pensiero presocratico (emblematico è il Prologo a Parmenide), oppure delle favole tramandate dai popoli che vivono ancora in condizioni semiprimitive (si pensi al mito del Cervo, Prometeo-Krònos dei pellirosse della costa canadese del Pacifico[45]) come “residuo di un linguaggio tecnico anteriore alla scrittura”[46], vale a dire come segni (impoveriti) di una cultura scientifica che sfugge alla nostra percezione di moderni, la quale è piuttosto incline a seguire gli spostamenti di questo o quel pianeta che ad avere una visione sinottica del cosmo.
Non a caso, secondo questo modo di procedere, l’“Essere” parmenideo (al quale è dedicato il saggio più stimolante del libro) presenta i connotati della rotondità, della sfericità, della continuità ed è inscindibilmente legato al “divenire”: in esso non si estingue, ma si affina, si fa astratta (si va dalla visualizzazione al noèin) l’immagine che la Daìmon (Afrodite Urania), con il suo moto, “disegna di sé stessa, un fiammeggiante pentagramma stagliato lungo lo Zodiaco nel corso di otto anni”[47]. Non a caso nella cultura presocratica (sarebbe forse più esatto dire pre-platonica) fervette l’ideale, unitario, della mousik, del lògos, dell’armonia, del ritmo, della danza dei pianeti. 
Ma, sia beninteso, sono tutte tracce, residui: lo scrittore mira sempre a riguadagnare, cercando di tenerne viva la fiammella, il fuoco originario della scientificità che precorre l’epoca della scrittura, il segreto dei pampàlaioi (gli “antichissimi”), secondo l’espressione aristotelica. 
L’idea del “fato” ha origine in quella temperie. Essa “prende forma quando l’uomo non subisce come la bestia, ma cerca di rendersi conto e non accetta il dono d’origine, le grand don de ne rien comprendre à notre sort[48].
Ciò che è importante comprendere è che quell’idea nasce e si afferma in una tensione antropologica alla conoscenza delle regole di funzionamento dell’universo, in un clima di scienza vissuta, che contraddistingue le età precristiane; che dunque, nel susseguirsi delle epoche storiche, quell’idea possa riaffermarsi in un momento di profonda crisi, non solo del “progresso” (mito ottocentesco), ma anche nel cristianesimo.
Il libro, a questo riguardo, può offrire alcune indicazioni sulla sua filosofia. Esso è essenzialmente una rivalutazione, attraverso questa nuova effigie dell’antichità, della cosmologia. Frasi come “Il pensiero arcaico è cosmologico da cima a fondo”[49], oppure: “La realtà, in senso ontologico, è quella regolarità della macchina cosmica”[50], stanno a confermare l’impressione generale suscitata dalla lettura del volumetto.
Ma l’Autore sottolinea il fatto che il segno più evidente della differenza tra la nostra cultura e quella antica è dato dalla insensibilità del pensiero e della scienza dei moderni verso quella cosmologia arcaica che pure ne ha offerto evidenti anticipazioni. Non si prospetta quindi - ciò è sin troppo manifesto - un ritorno alla tradizionale cosmologia moderna, ovvero a quelle filosofie che si siano rese in vario modo portavoce di una coscienza dell’essere umano influenzata da quella dell’universo, ma la ripresa di una dimensione e di una cultura che attendono un vero atto di comprensione.

De Santillana usa anche, per esprimere il senso della sua indicazione, la parola “metafisica”; ma questo termine non significa la rimessa in giuoco del pensiero dei Leibniz, o degli Spinoza, o degli Hegel, bensì un dissolvimento della prospettiva naturalistica che sia contemporaneamente un superamento - come dimostra la critica delle interpretazioni fuorvianti di Parmenide - dell’idealismo. L’esito, a mio giudizio, è alla fine quello di una visione naturalistica del cosmo che per essere caratterizzata da un rapporto vitale con ciò che avviene materialmente nei corpi celesti (che sono “natura”, o no?) subisce una profonda smaterializzazione.
Questa impressione può trovare conferma in alcuni punti qualificanti del testo. Se Afrodite Urania è signora del “tempo”, ciò significa che il tempo di cui si parla non è quello storico, ma è scandito dai pianeti, abitatori della Terra. “Necessità”, come opposto del “progresso”, non è la meccanicità, cioè la prevedibilità scientifica dell’accadere come valore, bensì proprio l’indistruttibile purezza del “fato”, nella storia e nella vita. I tratti caratteristici dell’ontologia presocratica (il modello della mousik, dell’armonia, del “continuo”) prospettano l’idea dell’“essere” come totalità, non nel modo dialettico hegeliano, ma in un senso profondamente legato al “fato”, alla coscienza che con esso ambisce immedesimarsi.
Ma, forse, non bisognerebbe lasciarsi ingannare dai salti nel passato, proprio per il significato che essi racchiudono in sé. Se le età primitive vengono rivalutate sotto il profilo di una scienza che aveva il dono, davvero invidiabile, del vissuto (“Guardate! - sembra dire de Santillana - Gli antichi mettevano in pratica, persino al momento della morte, ciò che risultava dalla conoscenza, voluta, del cosmo”), vi è dunque una idealizzazione della scienza che è ancora a metà strada fra la nostalgia romantica per un passato giudicato (male) illuministicamente e l’illustrazione, travestita, di nuove, sperate possibilità di sviluppo. 
Ciò che qui rileva è dunque la scienza, non come impulso al “progresso”, ma essenzialmente come mondo ordinato ad essa, come ordine (si pensi all’importanza attribuita al “numero”, divino strumento arcaico per ordinare l’universo), in ciò, cosmologico.
Dietro la parola “fato” si nasconde quindi non un brutale invito alla sottomissione, oppure alla rassegnazione (ma in certo senso vi è anche questo) - il che si attaglierebbe ancora agli schemi della nostra tradizione - ma il senso di un accordarsi pieno, armonioso, spontaneo, totale, solo a quel mondo che la scienza possa offrire.



* Da “Nuovi studi politici”, n. 3 del 1985.

[1] G. Vattimo, La fine della modernità, Milano 1985.

[2] Ivi, p. 11.

[3] Ivi.

[4] Ivi, p. 15.
[5] Ivi, p. 27.
[6] Ivi, p. 40.
[7] Ivi, p. 50.
[8] Ivi, pp. 69 e s.
[9] Ivi, pp. 71 e s.
[10] Ivi, p. 79.
[11] Ivi, p. 136.
[12] Ivi, p. 180.
[13] Ivi, p. 181.
[14] Ivi.
[15] Ivi, p. 52.
[16] Ivi, p. 182.
[17] Ivi, pp. 182 e s.
[18] Ivi, p. 178.
[19] Ivi, p. 78.
[20] M. Cacciari, Icone della legge, Milano 1985.
[21] Ivi, pp. 42 e ss.
[22] Ivi.
[23] Ivi, p. 50.
[24] Ivi, p. 51.
[25] Ivi, p. 188.
[26] Ivi, p. 274.
[27] Ivi.
[28] Ivi, p. 244.
[29] Ivi, p. 203.
[30] Ivi.
[31] G. De Santilana, Fato antico e fato moderno, Milano 1985.
[32] Ivi, p. 43.
[33] Ivi, p. 41.
[34] Ivi, p. 42.
[35] Cfr. ivi, pp. 42 e s.
[36] Ivi, p. 41.
[37] Ivi.
[38] Ivi, p. 150.
[39] Ivi, p. 81.
[40] Ivi, p. 159.
[41] Ivi, p. 141.
[42] Ivi, p. 11.
[43] Ivi, p. 168.
[44] Ivi, p. 70.
[45] Cfr. ivi, pp. 160-162.
[46] Ivi, p. 160.
[47] Ivi, p. 197.
[48] Ivi, p. 11.
[49] Ivi, p. 152.
[50] Ivi, p. 15. 

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