§ 1.- Per secoli, secondo Heidegger, l’essere è stato pensato come esser presente, nel senso temporale che noi attribuiamo solitamente a questa espressione; nel senso cioè in cui “Essere, in quanto presenza, è determinato tramite il tempo”[1].
Ovvero:
l’essere è sempre stato rappresentato e percepito dalla ontologia come
fosse l’ente[2]
(ta önta), il quale a
sua volta è stato “[…] concepito […] come ‘presenzialità’, cioè […] in
riferimento a un determinato modo del tempo, il presente”[3].
O anche: spesso noi cerchiamo l’essere in quanto tale e cogliamo invece
l’essente[4]
(: “l’essere dell’ente”, laddove l'accento cade sull'ente).
Tutto
questo, ancora, nel senso per cui nella stessa “oggettualità”, nello stare
qualcosa di fronte a noi in quanto oggetto, si può ravvisare un modo della
presenza[5].
Nella
parte finale di Sein und Zeit si ha, su questa linea, il riferimento
critico alla filosofia di Hegel, il quale aveva asserito fra l’altro: “solo il
presente è, il prima e il dopo non sono” e ancora: “l’oggetto della filosofia è
il presente, cioè il reale”[6].
La riflessione critica si può estendere però sino a risalire all’antichità:
della oésÛa greca e della parousÛa si può affermare che esse racchiudono in sé, in modo
predominante, il senso del tempo.
Dunque,
secondo Heidegger, l’essere quale “[…] essere dell’essente, all’inizio della
storia dell’occidente, e per tutto il suo corso, appare come presenza, come Anwesen”[7].
Ma:
l’essere “non è una cosa”; “Esso non si lascia, come l’essente, rappresentare e
presentare oggettivamente”[8];
esso non passa con il tempo, esso è “niente di temporale”[9];
e, a sua volta: “il tempo stesso non è niente di temporale, come del resto non
è qualcosa di essente”[10].
Compito
dell’ontologia è ora dunque quello di emancipare l’essere dal tempo,
riconducendolo alla sua libertà. La liberazione dal tempo viene posta così come
la condizione stessa di pensabilità dell’essere.
E
l’obiezione heideggeriana - così vogliamo chiamarla - posta certo con la sua
sensibilità, può incuriosire dal punto di vista logico, in un’epoca in cui vi è
il principio
- serpeggiante, storico, prima che voluto - di azzeramento tecnico di spazio-e-tempo.
§
2.- La strada percorsa da Heidegger in fondo è quella, del voler/dover togliere
al tempo il suo valore di strumento interpretativo privilegiato,
prossimo alla coscienza dell’essere cosiddetto “cosciente”. Ma questo non è
facile, perché tempo ed essere sono fortemente legati tra loro; ovvero, secondo
la chiosa del decostruzionismo ad una nota di Sein
und Zeit, non si può “distruggere
l’ontologia se non ripetendo e interrogando il suo rapporto col problema del
tempo”[11].
La
difficoltà, come emerge complessivamente dalla problematica che Heidegger si
pone, deriva dal fatto che attraverso il tempo e le sue caratteristiche si può
comprendere l’essere (ad esempio: il tempo che “[…] assegna la presenza che
spetta all’ente che entra in essa”[12]
è una immagine che non si lascia distogliere da quella dell’“essere in
presenza”). Ovvero: è difficile rappresentarsi l’essere senza pensare l’azione
del tempo (il suo di-spiegarsi); è difficile distinguere il “dispiegarsi nella
presenza”, nel suo senso temporale, dall’essere.
La
difficoltà dunque - come si legge nel commento di un detto di Anassimandro - è
data dal fatto: che “l’essere parla del tempo” e che “l’essere stesso è ‘esperito’
come dispiegamento di presenza e questo dispiegamento è a sua volta ‘esperito’
come passaggio dal sorgere allo scomparire”[13].
(Laddove la difficoltà dunque è nella
mortalità.)
§
3.- Ma: la difficoltà deriva dal fatto stesso che la meditazione di Heidegger
sul tempo muove inizialmente dalla riconduzione del tempo al suo radicamento
nell’“esser-ci” (Da-sein), ovvero: in quell’ente che l’uomo è,
nell’essere dell’ente quale lo si ha nell’uomo (come esserci mio, tuo, altrui,
prima ancora che pubblico). E che, fatto questo, sarebbe stato necessario
rendere compatibile il punto di vista dell’esserci con quello dell’essere.
Quella
meditazione prende l’avvio ne Il concetto di tempo, laddove si legge
che: “L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo
stesso, e non è nel tempo”[14].
Quest’affermazione
è illustrata efficacemente mediante il concetto di “precorrimento”[15],
anzi: precorrimento del non-più; concetto che non risponde al nostro
comune dire linearmente il “precorrere” (nel senso di precedere o anticipare
nel tempo) ma che appare, in quanto proprio pre-correre, come un ripiegarsi
(dell’uomo) su di sé, ripiegamento legato all’angoscia.
Il
precorrere è tale per cui nell’essere sempre ancora in cammino dell’uomo
“Rimane […] qualcosa che non è ancora arrivato alla fine. Alla fine, quando vi
si è giunti, esso appunto non è più. Prima di questa fine, esso non è mai
propriamente ciò che può essere; e se lo è, allora non è più”[16].
E ancora: “Questo non più non è un “che cosa”, ma un “come”. E precisamente il
“come” autentico del mio esserci. Questo non più, che in quanto mio io posso
precorrere, non è un “che cosa”, ma il come del mio esserci puro e semplice”[17].
Si
può dire, del “precorrimento del non-più”, che esso racchiude in sé l’angoscia
del futuro, che non potrà mai farsi presente, in un modo strutturale: esso ha
in sé racchiuso qualcosa che è tale per cui, parlandone, il filosofo tenta di
decifrare l’angoscia, tradotta nel tempo.
L’angoscia,
resa così comprensibile, del precorrimento del non-più, è tale per cui “il
fenomeno fondamentale del tempo è il futuro”[18];
il futuro è tale in quanto è questo fenomeno fondamentale, avvolto nella
possibilità d’essere estrema dell’esserci[19].
Ciò indica, appunto, che per l’e-sistente il colloquio con la morte è come già
da sempre avvenuto e che da tale colloquio, nell’angoscia governata dal senso
del futuro rispetto al presente, è scaturita la temporalità dell’esser-ci. In
questo si ha l’elemento della dimensionalità ontologica del tempo; laddove il
futuro confuta già la successione dell’ora[20],
ovvero la concezione volgare e comune del tempo[21]. Ma lo fa, appunto, nel momento stesso in cui
il tempo si mostra costitutivo.
§
4.- La questione, restando di quel colloquio non tanto la generica memoria
quanto piuttosto l’essersi tradotto il “che cosa” in “come”, trova sviluppo in Sein
und Zeit, laddove si esprime l’importanza che la comprensione (das
Verstehen[22])
dell’essere assume con riferimento all’esserci.
Qui
s’incontrano i seguenti enunciati: “L’analitica dell’Esserci resta l’esigenza
prima nel problema dell’essere”[23],
o: “La problematica dell’ontologia greca, come del resto quella di ogni altra
ontologia, deve desumere il proprio filo conduttore dall’Esserci stesso” - al
che segue immediatamente, in chiave interpretativa, la necessaria spiegazione:
“L’Esserci, cioè l’essere dell’uomo, è assunto così nella ‘definizione’
ordinaria come in quella filosofica, come zÇon lñgon ¦xon,
come quel vivente il cui essere è
costituito in linea essenziale dalla possibilità di discorrere. Il l¡gein costituisce il filo conduttore per il raggiungimento
delle strutture d’essere dell’ente che s’incontra nell’interpellare e nel
discutere”
[24].
Nell’ordine
di tale ontologia (detta, in quell’opera, “fondamentale”[25])
“Il fondamento (ontologico) originario
dell’esistenzialità dell’Esserci è la temporalità”[26]
e così: “L’entrata dell’Esserci nello spazio è possibile solo sul fondamento
della temporalità estatico-orizzontale”[27];
ovvero: il tempo è la questione
principale, l’orizzonte trascendentale dell’essere (dell’esserci), ed
ha, sul piano dell’autenticità dell’esserci, una sua superiorità rispetto allo
spazio; ovvero ancora: “[…] anche la
spazialità caratteristica dell’Esserci deve fondarsi nella temporalità”[28].
Lo
“spazio” in Sein und Zeit viene preso in considerazione, come la
spazialità dell’esserci che è l’ordinarsi uno spazio[29];
ma alla temporalità è riconosciuta comunque una funzione fondativa nei
suoi confronti (essa è un po’ - per dirla con parole nostre - la meccanica del
motore rispetto al moto)[30]
e prima di tutto: “Il tempo deve esser posto in chiaro e determinato
concettualmente in modo genuino come l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni
interpretazione dell’essere. Perché tutto ciò sia chiaro, occorre un’esplicazione
originaria del tempo come orizzonte della comprensione dell’essere a partire
dalla temporalità quale essere dell’Esserci che comprende l’essere”[31].
E ancora: “[…] è sul terreno della elaborazione del problema del senso
dell’essere che bisogna far vedere che e come nel fenomeno del tempo,
rettamente inteso e rettamente esplicitato, si radica la problematica centrale
di ogni ontologia”[32].
In
Sein und Zeit il tempo dunque, quale primo orizzonte della comprensione
dell’essere, è chiamato a spiegare l’esserci stesso. L’esserci allora spiega e
giustifica l’importanza del tempo tanto quanto il tempo spiega e giustifica
l’esserci. E questo dicasi anche per l’ente, in un modo diverso rispetto
all’esserci, che pure è anche l’ente, ma proprio in questo anche di
schiarimento.
§
5.- Ma: se il tempo è costitutivo dell’esserci, non si può dire che lo sia
dell’essere; il quale è ciò che va teoreticamente salvaguardato. Anzi qui le
cose, dopo la cosiddetta “svolta” (Kehre), che caratterizza la
evoluzione del pensiero di Heidegger, si pongono diversamente.
Successivamente
a Sein und Zeit, attraverso una serie di scritti (quali L’origine
dell’opera d’arte, “… poeticamente abita l’uomo”, Costruire,
abitare, pensare), vengono a maturare, nel pensiero, le condizioni di un
allentamento, rispetto allo spazio, della funzione fondativa del tempo[33].
Si ha così il trascorrere da una posizione in cui il tempo è fondamento
ad una posizione in cui, affiorando una qualche distanza rispetto al valore
ermeneutico-soggettivo del tempo, avviene, come è stato notato, il “recupero di
un’originaria spazialità dell’esserci cui l’uomo originariamente partecipa”[34].
Il che è pienamente ammissibile; ma per chiarezza va aggiunto che vi è in ciò
il recupero di un aspetto già emerso in Sein und Zeit. La “svolta”,
cosiddetta, non è un rovesciamento, ma il percorrere una curva senza
dimenticare quanto già percorso.
Il
ricondurre l’essere alla sua libertà avviene in modo chiaro - dopo Sein und
Zeit - allorquando il tempo viene relativizzato rispetto all’essere; e
allorquando esso viene in ciò liberato dalla sua rappresentazione
spaziotemporale (ma sarà così ancora, propriamente, “tempo”?); nel mentre lo
spazio è come venisse a sua volta liberato dalla temporalità.
Il
sintomo dello sviluppo di una tale posizione lo si può cogliere ad esempio
nella meditazione heideggeriana sull’“esser mezzo del mezzo” e sul venire in
opera, l’esser messo in opera (nell’opera) della verità, ovvero nell’accendersi
di nuovi legami fra verità e cosa, verità e mezzo, verità ed opera[35];
o in generale nell’uso di “metafore spaziali” che non sono semplici metafore, e
che piuttosto sembrano affacciarsi - come ha scritto Gianni Vattimo - su
qualcosa di teoreticamente rilevante[36].
(Tutto
questo porta a liberarsi dalla spaziotemporalità qual è il suo stare di fronte
a noi, alla nostra coscienza, la spaziotemporalità quale categoria empirica; ma
è della spaziotemporalità che bisogna liberarsi, o non piuttosto dell'unità?)
§
6.- L’essere, per ciò che esso è nella sua essenza, non è riducibile a tempo.
I
nessi fra essere e tempo sono tali per cui, se è vero che “Essere, in quanto
presenza, è determinato tramite il tempo”, si può giungere parimenti ad
asserire che il tempo è “determinato tramite un essere”.
Infatti
il tempo - come si dice - “passa”; ma
ciò può avvenire solo in virtù della sua “permanenza”, ovvero: “nell’ ‘esser
presente’ si fa valere, non pensato, nascosto, un presente e il suo durare,
ossia il tempo”[37];
il quale, “[…] passando costantemente, permane in quanto tempo”; laddove
“Permanere significa: non-svanire, dunque essere presente (Anwesen)”. In
questi termini si può asserire che “ […] il tempo è determinato tramite un
essere”[38].
Anzi, il tempo è determinato tramite un essere del quale si può dire che è
nella presenza.
Sembra,
attenendosi alla sequenza delle proposizioni, che così il precedente assunto,
riferito alla tradizione ontologica del pensiero occidentale (: “essere è
determinato tramite il tempo”), sia ripensabile e non sia l’unico assunto
sostenibile. Ovvero la medesima cosa si può dire in due modi diversi, che si
confermano e si negano.
Qui
allora si possono fare due osservazioni: la prima è che non si può sostenere,
se non per un modo di dire, che vi è un tempo che passa ed uno che permane.
Ovvero: quello che permane non è solo tempo oppure se ciò che permane nella
permanenza è il tempo, allora vi è nel tempo qualcosa che è irriducibile
allo stesso (suo-non suo) permanere; non essendo pensabile,
per esservi l’uso della parola “essere”, che vi sia “essere del tempo”
riducibile a tempo.
La
seconda è che se il tempo ha un “essere”, se esso per ciò che risulta dal (suo)
permanere è determinato tramite un essere, allora il tempo non può limitare,
nel senso che non può fondare, da un punto di vista rigorosamente
ontologico, l’essere.
Queste
osservazioni sembrano condurre, entrambe, alla medesima conclusione; ovvero:
quando si parla di permanenza non è propriamente solo del tempo che si fa parola;
ma di qualcosa di essenziale, irriducibile per definitionem.
§
7.- Nell’essere, secondo Heidegger, si raccolgono due aspetti: in esso non si
ha solo temporalità ma anche disvelatezza[39].
E nella seconda si ha qualcosa che prende il luogo della prima.
La
temporalità la si può riferire all’essente, e cioè, nella
manifestatività, all’essere dell’ente, e
dunque all’ente il quale in tal senso, appunto, è; mentre dell’essere,
colto nel dispiego, nel disvelamento, che in sé anzi racchiuda la negazione
dell’ente, si dice prudentemente: (esso) c’è, si dà (“es gibt”).
Essere
si dà significa qualcosa come: l’essere viene (in libertà) all’uomo
su un territorio che non è dell’uomo; ciò che è il pensabile dal punto
di vista dell’Apertura: “Quando noi abbiamo compreso qualcosa diciamo anche che
qualcosa si è dischiuso e si è aperto a noi. Questo dipende soprattutto dal
fatto che noi siamo dislocati all’interno di ciò che si è aperto e siamo
continuamente determinati da esso”[40].
In
questo senso, se si dice es gibt Sein (“si dà essere”), ciò significa
che dell’essere si viene a parlare volendo prendere distanza dalla
rappresentazione della presenza in senso essenzialmente temporale. L’incedere
dell’essere verso l’uomo, il suo (come si vedrà) venire alla presenza secondo
una territorialità che non è (più) quella propria dell’esserci dell’uomo,
libera in qualche modo l’ontologia dalle ragioni del tempo, anche se siamo
ancora nell’uso delle immagini o delle metafore.
Pensare
secondo la prospettiva dello es gibt Sein e, in questo, voler liberare
l’essere dalla pregiudiziale della temporalità, significa liberare spazio,
cessare dal fondamento, interrogarsi sul luogo (liberarlo), e cioè sul Dare, sul Dono (del dare); significa assegnare una (nuova)
località propria all’essere: “Pensare propriamente l’essere esige che si
abbandoni l’essere come il fondamento dell’essente a favore del dare che gioca
nascosto nel disvelamento, cioè a favore dello “es gibt”. L’essere, in
quanto è la donazione (Gabe) di questo es gibt, trova il suo
luogo proprio (gehört) nel dare […]”[41].
Vi
è dunque un tempo del Dare che è il luogo nel quale (come ci accade di sentire
che una immagine, un pensiero, un ricordo torna a noi, ci raggiunge) l’essere
viene a manifestazione, si disvela per come essa lo fa. Ovvero: il luogo dell’essere è già proprio
nel dare stesso di quello es gibt[42];
è nell’“aver stanza e soggiornare” quali caratterizzano il venire nella
presenza e meglio ancora: il venire-ed-essere-nella-permanenza[43];
è l’avanzarsi al nostro riguardo dell’essere nella presenza[44]:
“L’Anwesenheit, essere-nella-presenza, significa: il continuo
soggiornare (Verweilen) [dell’essere] offerto all’uomo, la cui
[dell’essere] venuta lo raggiunge e lo riguarda”[45].
Ovvero la presenza, se s’intende continuare nell’uso di questo termine, non è
la presenza che si riferisca a ciò che è presente.
È
dunque nell’esser posti i termini del pensiero come in una nuova dimensione
territoriale, è nell’assumere teoreticamente questa territorialità (come
località dell’essere) corpo e solidità, è in questo liberare spazio, che viene
in risalto (in un diverso sentire la conoscenza), nella evoluzione dell’opera
di Heidegger, il senso dello es gibt Sein.
§
8.- Lo es gibt Sein è quindi il nuovo punto di vista della ontologia.
Come
nuovo punto di vista della ontologia esso si pone quale chiave di lettura
universale. Ovvero si può ripercorrere la storia dell’ontologia presumendo -
come si fa ogniqualvolta si fondi una nuova dottrina di ordine generale - che
quel “si dà essere” sia il punto di partenza (minimo), o la profonda piega, di
tutte le dottrine dell’essere: quella platonica della Þd¡a, quella aristotelica
della ¤n¡rgeia,
quella hegeliana del “concetto assoluto”, quella nietzscheana della “volontà di
potenza”. Le quali non sono - appunto - “dottrine proposte a caso, ma parole
dell’essere in quanto risposte ad un appello (Zuspruch) che parla nel
destinare (Schicken) che cela sé stesso, nello “es gibt Sein””[46].
Lo
es gibt si eleva così a principio: esso, proprio nel suo addirsi
all’essere, ha una portata tale da estendersi a ciò che non è ente, ciò
che non è né oggetto, né soggetto (: visibile, conoscibile, sensibile); a tutto
ciò che (in tal senso) non è. Esso è ciò che il conoscibile, nel suo fato,
consente di essere.
Così
è per il “nulla”; e così anche del tempo si può sostenere che esso è niente,
che “c’è”, ovvero “si dà”: es gibt Zeit (“si dà tempo”);
sospendendo il giudizio, portando i concetti lontano da un Centro.
· Versione
rimaneggiata di quanto già apparso in “Nuovi studi politici”, aprile-giugno
1993 e nel mio L’anima e la macchina,
Milano, 1999.
[1] Heidegger, Tempo ed essere [1962]
- trad. it. a cura di E. Mazzarella -, Napoli 1988, p. 103.
[2] Heidegger, Che cosa significa
pensare? [1952] - trad. it. in Id.,
Saggi e discorsi (a cura di G.
Vattimo) -, Milano 1991, pp. 94 e s.
[3] Heidegger, Essere e tempo [1927]
- trad. it. a cura di P. Chiodi -, Milano 1976, p. 44.
[4] Heidegger,
Poscritto a Che cos’è la metafisica? - trad. it. in Id., Che cos’è la metafisica? (a
cura di A. Carlini) -, Firenze 1984, p. 46. Cfr. anche, della medesima opera,
l’altra traduzione italiana in Heidegger,
Segnavia [“Wegmarken”,
1967], (a cura di F. Volpi), Milano 1987, p. 260.
[5] Heidegger, Seminari - trad. it.
di M. Bonola (a cura di F. Volpi) -,
Milano 1992, p. 153.
Il
legame fra l’esser presente fisicamente in un determinato luogo e l’essere come
“presenza” (nel senso della temporalità) viene in evidenza in E. Severino, La filosofia contemporanea,
Milano 1997, p. 243.
[6] Per la prima
proposizione cfr. Heidegger, Essere
e tempo, pp. 513 e ss., e di rimando Hegel,
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §§ 254, add., e ss.
(o anche Id., “Prefazione” alla Rechtsphilosophie).
Per la seconda Hegel, La
ragione della storia, ed. Lasson, 1917; riportata in K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche -
trad. it.-, Torino 1949, pp. 315 e s. (Löwith osserva subito, peraltro, che il
concetto hegeliano del tempo fu abbandonato già dai suoi discepoli: ivi).
[7] Che cosa
significa pensare?,
pp. 94 e s. Cfr. anche Heidegger, La
questione dell’essere - trad. it. in Segnavia -, p. 350.
[8] Poscritto
(trad. Carlini), p. 46. Cfr. anche la trad. Volpi, alla p. 260: “A differenza
dell’ente, l’essere non si lascia rappresentare o produrre come oggetto”.
[11] J. Derrida, “Ousia” e “grammé” - Nota su
una nota di “Sein und Zeit” - trad. it. in Id.,
Margini della filosofia -, Torino
1997, p. 61.
[12] Heidegger, Concetti fondamentali
[1941] - trad. it. a cura di F. Camera -, Genova 1989, p. 141.
[13] Ivi.
[15] Ivi, pp. 37 e
ss.
[16] Ivi, p. 36.
[17] Ivi, p. 38.
[18] Ivi, p. 40.
[19] Ivi, p. 35. Ma
cfr. anche, della medesima opera, ad esempio la p. 43: “Anche nel presente del
suo prendersi cura l’esserci è il tempo pieno, e precisamente in modo tale da
non liberarsi del futuro. Il futuro è adesso ciò in cui la cura si impiglia,
non è l’autentico essere futuro del non più, ma il futuro che il presente
stesso si forma come proprio, dacché il non più come futuro autentico non può
mai farsi presente. Se lo facesse, sarebbe il nulla”.
[20] Cfr. anche H.
G. Gadamer, La teologia di
Marburgo - trad. it. in Id., I
sentieri di Heidegger -, Genova 1988, pp. 30 e s.
Sulla
costitutività del tempo per l’essere dell’esserci si vedano le (sempre) chiare
parole di A. Lombardi, Psicologia
dell’esistenzialismo, in AA.VV., L’esistenzialismo, Roma 1943, pp. 71 e s.
[21] Si veda, su
tale concezione, quanto sarà detto più ampiamente infra.
[22] Sul valore
ontologico che la comprensione assume nel pensiero di Heidegger, si veda il
saggio di F. Bianco, Comprensione
dell’essere e linguaggio: Heidegger e i problemi dell’ermeneutica contemporanea
- in AA.VV., Heidegger e la metafisica, Genova 1991 -, pp. 83-106.
[24] Ivi, p. 44.
L’espressione greca “zÇon lñgon ¦xon,” viene solitamente identificata con il latino “animal rationale”.
[25] Essere e
tempo, p. 30.
[27] Ivi, p. 443.
[28] Ivi, p. 440.
[29] Ivi, p. 441;
ad es.: “L’Esserci è spaziale nella forma dello scoprimento ambientale dello
spazio, e ciò in quanto si rapporta costantemente all’ente che si incontra in
questa spazialità disallontanandolo” (Cfr. in generale, della medesima opera,
le pp. 440 e ss.).
Sul
motivo della spazialità dell’esserci come “dis-allontanamento”, “in-essere
disallontanante”, cfr., della medesima opera, il § 23 (“La spazialità
dell’essere-nel-mondo”, pp. 137 e ss.).
[30] Ivi, p. 442.
[31] Ivi, p. 35.
[32] Ivi, p. 36.
[33] E. Mazzarella, La “Seinsfrage” come
“Kehre” e come “Denkweg” (: Introduzione a Tempo ed essere, trad.
it. cit.), pp. 51 e s. Cfr. anche Tempo ed essere, p. 130.
[35] Heidegger, L’origine dell’opera
d’arte [1935] - trad. it. in Id.,
Sentieri interrotti (a cura di P. Chiodi) -, Firenze 1997, pp. 14 e s.
Ciò che avviene in un modo illustrativo
nell’attribuzione di significato alle scarpe della
contadina del quadro di Van Gogh (ivi, p. 21).
[36] Cfr.
G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, L’arte e lo spazio -
trad. it. a cura di A. Angelino -, Genova 1988, p. 10. Si veda, del medesimo
autore, La fine della modernità, Milano 1985, p. 88 (: “Ornamento
monumento”).
[37] Heidegger, Ritorno al fondamento
della metafisica [1949] - trad. it. in Che cos’è la metafisica? -,
p. 79.
L’opera
(titolo originale: Einleitung zu “Was ist Mataphysik?”) si trova
tradotta anche col titolo Introduzione a: “Che cos’è metafisica?”
(pubbl. in Segnavia). In questa seconda versione il medesimo brano viene
reso nel modo seguente: “Nell’essere-presente domina, non pensato e non
velato, il presente e il perdurare; nell’essere presente, quindi, dispiega la
sua essenza (west) il tempo” (p. 328).
Pur
attenendoci, in questo scritto, alla prima delle due versioni, della seconda
daremo puntualmente conto.
[40] Concetti
fondamentali, p. 33.
[43] Ivi, p. 115.
[46] Ivi, p. 111.
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