mercoledì 15 ottobre 2014

La cultura della distanza (Kultur der Abstand, Entfernung, ecc.)


 

Caratteristica generale dell’industria e tecnica del trasporto e/o della comunicazione - ma anche di quelle fotografica, cinematografica, televisiva, informatica e telematica (ché in esse si hanno nascita ed evoluzione del “doppio” del sé - forse un destino, destato dalla tecnica) - è quella di abbattere i confini territoriali come fattore di cultura, ovvero di cambiare il rapporto dell’uomo con la geografia vissuta, con il mondo-terra, con l’altro, con il tempo. Non solo nel senso di vincere la distanza ideando e realizzando mezzi di comunicazione vieppiù veloci e di facile utilizzo e invece anche di produrre per paradosso una cultura della distanzaQualcosa per cui la distanza, combattuta, dominata, regolata, s’impone - per un principio d’ironia, un po’ come accade alla "ragione" di hegeliana memoria o agli “oggetti” di Baudrillard - e viene introiettata. Ovvero per cui il sentimento della distanza diviene precondizione per poter vincere la distanza materiale (spazio e tempo) e assumerne il governo, riunendo così ciò che altrimenti dividerebbe soltanto. 
Maggiore dunque sarà la potenza e velocità del mezzo di trasporto e/o di comunicazione, maggiore la distanza fra un punto “A” - mettiamo Roma - e un punto “B” - mettiamo Parigi -; maggiore sarà lo spazio da percorrere nel minor tempo possibile, più forte nella progettazione e nella psicologia dell’uso in generale sarà il senso e valore della distanza.
Ci si allontanerà sì insomma dal punto “A”, di partenza, lo si farà sì per una volontà di espansione e di potenza (fu Napoleone che avendone intuita l’importanza attuò la prima rete di comunicazione telegrafica organizzata) ma al fine di avvicinare, ovvero così avvicinando. Allontanare dunque per avvicinare, allontanarsi avvicinandosi, consapevoli di poterlo fare; laddove l’avvicinamento sarà il prodotto finale e la distanza ora il presupposto necessario, ora elemento costruttivo, ora il dato psicologico prevalente. 


Di quello che qui può essere indicato, date le sue caratteristiche, come “paradosso della distanza”, si può rendere l’idea ricorrendo alla immagine dello scimmione antropomorfo che, arrampicatosi su un albero, lasci cadere gli oggetti che ha in mano per poterli poi riprendere, solo per sapere però istintivamente di poterlo fare, prima che quelli tocchino terra. Ma è assai significativo e probante il dato storico che “Uno dei primissimi impieghi del telegrafo elettrico […] riguarda la segnalazione dei treni”; ovvero: l’invenzione del telegrafo favorì, col suo impiego a bordo dei treni, lo sviluppo delle reti ferroviarie, pochi anni dopo l’invenzione del vapore e delle rotaie (cfr. Mattelard, L’invenzione della comunicazione, Roma 1998). Io potenzio insomma le linee ferroviarie poiché so che il telegrafo, posto a bordo dei treni, potrà annullare in ogni momento la crescente distanza, garantendo il controllo sul movimento.
Molta coscienza, venendo a parlare di cultura della distanza, la si deve a Marshall McLuhan, padre della mediologia, e alla sua teoria del “movimento d’informazione”, degli anni novecentosessanta; per cui il telegrafo elettrico materializzando e simboleggiando l’èra elettrica o se si preferisce “elettrica-ed-elettronica”, aiutava a comprendere anche se solo in parte che cosa fosse e a che cosa preludesse la crisi della print culture, una cultura ancora biblica, nel senso pieno della parola, per dire affidata a qualcosa di sacro, a quel sacro che si era dimostrato congeniale alla instaurazione del dominio della stampa a caratteri mobili. Crisi che avrebbe coinvolto più profondamente la stessa culture écrit
Ora invece si trattava di trasportare facendo a meno dei mezzi tradizionali di trasporto, sfruttando gli impulsi elettrici; non più cavalli dunque né carri né carrozze, né messaggeri (quelli delle “strade postali”), né vie da percorrere materialmente, né territorio, né appunto libri. Si trattava insomma di trasportare “informazione”, quale parte rilevante dell'oggetto, potendola così finalmente liberare. 
Laddove veniva a cambiare profondamente, in base a un principio di dematerializzazione, l’idea di trasporto; eppoi evidentemente non solo quella. “Fu solo con l’avvento del telegrafo - leggiamo in una pagina di Understanding Media - che i messaggi poterono viaggiare più in fretta del messaggero. Prima esisteva uno stretto rapporto tra le strade e la parola scritta. Con il telegrafo l’informazione si è staccata da materie solide come la pietra e il papiro, nello stesso modo in cui il danaro si era precedentemente staccato dalle pelli, dai lingotti e dai metalli per diventare carta. Il termine ‘comunicazione’ è stato ampiamente usato con riferimento alle strade, ai ponti, alle rotte navali, ai fiumi e ai canali, prima di trasformarsi con l’era elettronica in ‘movimento d’informazione’ ”.
Il contributo di McLuhan al nostro tema credo consista nell’avere evidenziato il nesso assai importante fra il telegrafo, quale fattore rivoluzionario nella storia della comunicazione e la cultura della distanza. Laddove liberare informazione traducendola in “movimento” a sé stante equivale a oltrepassare in modo decisivo il confine fra il territorio (e la terra) come entità vincolante e le potenzialità umane in generale.

Del nostro tema, sul finire degli anni novecentoventi, si era occupata in qualche modo la filosofia della (essenza della) tecnica, con la teoria heideggeriana dello Entfernung, ovverosia del cosiddetto “disallontanamento”.
“Disallontanamento” - nelle parole del pensatore tedesco - significa una “costituzione dell’essere dell’Esserci rispetto alla quale l’allontanamento puro e semplice di qualcosa, il porre lontano, non rappresenta che una modalità particolare. Dis-allontanamento [Ent-fernung] significa far scomparire la distanza [Ferne] cioè la lontananza di qualcosa, significa avvicinamento. L’Esserci è essenzialmente disallontanante e, in quanto è l’ente che è, lascia sempre che l’ente sia incontrato nella vicinanza” (Essere e tempo, Milano 1976). 
In primo luogo si ha che l’ente (ciò che è) predilige la lontananza; ma l’essere dell’esser-ci (cioè dell’uomo) - e lì anche l’ente, a quello assimilato, in quello cioè scopribile - la vicinanza. In secondo luogo si ha che l’esser-ci (l’uomo) tende a disallontanare, a porre nella vicinanza; non solo per il modo in generale come incontra l’ente, ma anche - debbo supporre - se produce egli stesso distanza, lontananza. 
Dunque si tratta di cogliere, in una generale filosofia che riunisca tematicamente l’industria e l’umanità, il rapporto fra la legge dello Entfernung (in cui si costituisce l’essere dell’esser-ci) e l’allontanamento, che viene considerato rispetto a quello come una modalità “particolare”.
Nel circolo della vicenda dell’uomo, condotto sempre a scoprire ciò che è, è certa quale connaturata “umanità” del disallontanare, innestata nel senso di ciò che è, ciò che viene sottolineato, ciò quindi in base a cui si può spiegare anche la tecnologia - e in generale la cultura, per come noi qui la vogliamo definire - “della distanza”. Ovvero: “Il disallontanamento, innanzi tutto e per lo più, è un avvicinamento guidato dalla visione ambientale preveggente, un portare nella vicinanza, quale si ha nelle forme del procurarsi, dell’installare, del prendere in mano. [...] L’Esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza. Tutte le forme di accelerazione della velocità a cui siamo oggi più o meno costretti, tendono a superare la lontananza. Con la ‘radio’, ad esempio, l’Esserci attua oggi un disallontanamento del ‘mondo’ non ancora ben chiaro nel suo significato esistenziale, ma da cui deriva un ampliamento del mondo-ambiente quotidiano” (ivi). 
Disallontanare significa dunque che “tutte le forme di accelerazione della velocità a cui siamo oggi più o meno costretti, tendono a superare la lontananza”; significa “portare nella vicinanza”, in ogni azione che si compia, ovvero anche accrescere lo spazio di movimento per espandere il “mondo-ambiente” e dunque in qualche modo per avvicinare allontanando. Per dire che qualsiasi mezzo, laddove senza un medium tecnico la cosa non risulterà né attuabile né pensabile, volto ad andare oltre, in realtà è volto ad avvicinare e meglio, sembra di poter dire, a ravvicinare, o a ricondurre a sé.
Tale qui è dunque la descrizione del rapporto fra le cose, che sembra che l’allontanare, lo spingersi sempre più in là, nasca da un bisogno di avvicinare, meglio di conquistare, acquisire con un mezzo di più forte avvicinamento; il che può certo essere, anche se non linearmente. 
Ora, in quel “portare nella vicinanza”, se pensiamo non solo alla radio ma anche all’autovettura o alla televisione o al computer, si può intravvedere qualcosa che si riallaccia a quello che vuole essere qui il nostro tema. Laddove disallontanamento non è semplicemente il contrario di allontanamento ma è l’espansione dell’ambiente, volta ad avvicinare ampliandolo, per “saperne” in generale.
Ciò di cui parla Heidegger non è semplicemente un avvicinare da parte dell’uomo ciò che tecnicamente ha guadagnato una lontananza; è anche questo, ma è un ravvicinare in senso tecnico, un condursi l’uomo, nel disallontanare tecnicamente, come in un luogo più grande, essendo - sempre - la distanza pari al bisogno della sua negazione. Come dire: sono l’economia, l’industria e la tecnica, la politica - e la cosa riguarda il tramonto della modernità -, a poter ridisegnare il mondo.
L’ Entfernung è così la “presenza”, che sempre s’installa - o qualcosa del genere -, in un contesto di lontananza, in spazi sempre più vasti, che vengono ridisegnati. Il gioco, il conflitto, che il disallontanamento esprime, è fra presenza e spazio, presenza e distanza; ma appunto come in un unico contesto di cosa.
Quella heideggeriana in generale è una filosofia del rapporto della verità e del mondo con l’industria; sensibile al modo che questa ha di governare il mondo con le sue risorse, producendo unità, sempre maggiori; e meglio di governare il mondo-terra traducendo tutto in risorsa (anche l’uomo, non nonostante la, ma proprio nella sua singolarità e ambivalenza).
Heidegger in altre parole intuisce che l’ambiente, a causa del fatto che esso sia prodotto dall’industria e dal dominio della tecnica, è ciò che viene prima, per lo stesso principio per cui “portare nella vicinanza” è ciò stesso che induce l’uomo a muoversi nello spazio, cambiando il luogo e rinnovando l’ambiente ricomprendendovi quel luogo; ed è in questo senso che l’industria nel novecento è riuscita a creare innanzi tutto un ambiente-mondo, forse il primo nella storia e questo fenomeno si accrescerà, forse sino al collasso. Essendo tutto questo riconducibile alla stessa natura dell’uomo, quasi la cultura della distanza fosse un frutto maturo della storia dell’umanità. 
Al centro di tale cultura non so quanto si ponga veramente l’uomo, anche se l'uomo lo ha creduto; pure l’industria, il progresso, soprattutto nel sette-ottocento, se deterritorializza allora lo fa, considerando il rapporto fra uomo e spazio, per quelle che sono le caratteristiche dell’uomo. Da una parte è vero quindi che la tecnica nel momento in cui deterritorializza in certo senso “umanizza”; ma la questione della cultura della distanza non sembra potersi risolvere in questo, perché bisogna domandarsi che cosa significhi "servire" l'uomo e che cosa continuare su questa strada e cioè continuare a inglobare in sé la distanza, in quanto tale, alla fine irrazionalmente, non necessariamente avendo sotto gli occhi altre premesse storico-obiettive rispetto a quelle heideggeriane, pur nemiche dell'umanismo e antropocentrismo. Si potrebbe ad esempio pensare che vincere sempre di più la distanza, nella velocità e nella lotta 'umana' contro spazio e tempo, equivalga - detto più o meno freudianamente - a rimuovere, o tradurre il territorio come culture umane a un tamquam non esset
Al punto che si pensi, nei termini del senso comune - poiché ciò che è rimosso si conserva -, che vi sia distanza o che debba esservene anche quando la distanza è minima o nulla, il che dà il senso di una egemonia. Laddove se è vero ciò che sembra solo imporsi, come un dover-essere, ciò avviene perché è cambiato il sentimento dello spazio. 
La teoria dello Entfernung è quindi solo un primo passo nella definizione della cultura della distanza la quale significa tanto credere che se distanza vi è allora è come non ve ne fosse, quanto avere inglobata in sé mentalmente sempre una distanza. Che è la verità del computer, allorquando di esso si dice che è computer “remoto”. Ma non in un modo o con sviluppi innocui e invece con conseguenze mondiali, che sovrastano quel computer, che sarà complice del "suicidio" del suo e altrui territorio. 
Ovvero, per tornare alla nostra nozione-base: la velocità, da tempo idoleggiata, se la si nomina come ciò che deve vincere la distanza, allora implica necessariamente quella distanza; se cresce, allora implica distanze sempre maggiori, che sembra quasi poter contenere in sé. La velocità è tale per cui se ci si allontana dal luogo in cui ci si trova è perché lo si può fare in sempre minor tempo, sino ad azzerare i tempi, sino alla “eutanasia dei luoghi” (Virilio), espressione più crudele di quanto non sembri, con tutte le sue conseguenze. Vi è culturalmente comunque sia la distanza, al centro delle cose, delle attenzioni e della volontà: se da una parte si parla di velocità, dall’altra non si può non parlare di distanza. e distanza e indifferenza... 
Cultura della distanza se significa produrre distanza, con la potenza dei mezzi, per poterla annullare; o produrre allontanamento, o lontananza, volendo poterla azzerare in qualsiasi momento, allora indurrà distanza comunque, o in un modo ineludibile e così dominio della distanza. 
Sembra quindi per tutto questo e tornando a ciò che si diceva inizialmente, che la distanza sia un portato degli ultimi due secoli di tecnica e d’industria. E la storia anche qui sembra mostrare un suo singolare svolgimento oggettivo, per cui ciò che accade prima nella tecnica poi accade anche nella società. O per cui alle volte il tempo sembra fermarsi, quasi in attesa che maturino altri effetti a parità di causa. O è forse più semplicemente che qualcosa che un secolo fa poté passare inosservato oggi, alla luce dei progressi della tecnica, può essere visto con occhi diversi. 
È così che s’incontrano in questo tempo proposizioni di natura sociologica, le quali riscontrano comportamenti, e/o dati di urbanizzazione, che pongono spazio, luogo e distanza ai primi posti, laddove sembra che il comportamento sociale si sia adeguato a internet, che a sua volta nel telegrafo e in tanta tecnica successiva trova la sua spiegazione. Ma che si spiega anche ella fine con le sue conseguenze, che all'origine non erano perfettamente prevedibili. 
Leggiamo ad esempio in un testo recente, nel quale si affronta il tema della crisi della territorialità per ciò che debba saperne avendola quanto meno ad oggetto la norma giuridica: “Le innovazioni tecnologiche […] non si limitano a consentire la comunicazione oltre i confini ristretti della presenza sensibile, ma trasformano la distanza in condizione del rapporto e la vicinanza in un suo impedimento. La progressiva intellettualizzazione della vita ha avuto come effetto l’intolleranza o l’indifferenza verso gli esseri umani che abbiamo accanto e la disponibilità quasi esclusiva ad avere relazioni anonime ed astratte, grazie alle quali non s’incontrano persone, ma ‘interagiscono tra loro comportamenti oggettivati e mediati’” (Saraceni, Luoghi della giustizia, Napoli 2008). 
Laddove l’abilità dello scrittore consiste nel ricollegare tecnica e società, non semplicemente per ciò, che esse interagiscono nel momento della fruizione o dell’utilizzo soggettivo ma essendo che la società sembra sdoppiarsi - e il discorso attiene molto all’urbanistica e ai fatti migratori che favoriscono la filosofia dello straniero o del barbaro - o essersi sdoppiata nella tecnica, attorno alla quale pure una qualche società si era formata ma non in fondo con le medesime caratteristiche sociali. 
Nel che si esprime l’altro lato umano della cultura della distanza, per il quale si traduce in effetto comportamentale o morale qualcosa che sembrava appartenere logicamente alla sola tecnica, quasi questa dovesse essere la separazione dalla vita e dall’esistenza, o quasi grazie ad essa l’individuo potesse dissociarsi ancor prima che associarsi diversamente. Un modo strumentale di usare la tecnica che sembra essersi tradotto quanto meno parzialmente in stile di vita e modo di essere, con le ripercussioni giuridiche e non solo - da non sottovalutare - che ne derivano. Laddove è più che presumibile che lo user ignaro sia stato semplicemente incorporato nella distanza (per cui mettiamo alla “presenza” non corrisponde questa o quella persona fisica e morale), allontanandolo e lasciandolo andare per ricondurlo a sé. 
La distanza come “condizione del rapporto” e la vicinanza come “suo impedimento”: sono queste forse le proposizioni principali, da sottolineare; nelle quali si coglie, rispetto a certo quale positivismo anche delle ricerche speculative del pensiero, una nota di diversità, data dalla prevalenza della distanza, laddove quanto meno ad un livello sociale comune è piuttosto la prossimità ad essere rifiutata, o rimossa. 
Internet avrebbe colto e favorito, o vi si sarebbe comunque accompagnata, certa quale attitudine dell’uomo postmoderno alla chiusura in sé, all’ombra, all’individualismo o all’isolamento, secondo un passaggio dell’Homo videns di Sartori, nel quale si menziona il cosiddetto “paradosso di Forster”, il quale “immaginava con un secolo di anticipo un mondo nel quale una rete elettronica ci connette tutti, un mondo nel quale tutti si chiudono e isolano nelle loro stanze comunicando costantemente” (Homo videns, Bari 1999). Ma, a quanto è dato comprendere e per essere conseguenti, l'isolamento e la chiusura potrebbero non essere che gli effetti meno dolorosi e infausti, ché la direzione assunta dal progresso tecnologico ben si sposa con la indifferenza morale: sarebbe la produzione di sempre maggiore distanza il momento principale e l'altro, del suo annullamento, segnerebbe il primato della tecnologia. 

Se si può parlare dunque di un “paradosso della distanza”, che consiste nel lasciare-per-prendere o nell’allontanarsi-avvicinarsi, così si può parlare del paradosso di Forster (The Machine Stops, 1909); ma laddove la mediologia e la filosofia dell’esistenza hanno colto prevalentemente in positivo l’aspetto finale della cosa e cioè quello dell’avvicinamento, lì bisognerebbe ripristinare pienamente il senso del paradosso, per cui a prevalere può essere o l’un aspetto o l’altro, non uno solo di essi. Cultura della distanza se significa abbattere i confini territoriali come fattore di cultura, allora significa anche porre nuovi confini. 
Rispetto alle prime fondamentali intuizioni insomma la cultura della distanza sembra avere mostrato meglio il suo volto, o, se si crede, sembra aver lasciato trapelare la sua essenza. E gli interrogativi, giunti a questo punto, debbono quanto meno riguardare gli ulteriori sviluppi: è prudente allinearsi piuttosto alla sensibilità di un Derrida, il quale ha teorizzato la différance (dilazionare nel tempo e spaziare: Della grammatologia, Milano 1998) ovvero la differenza o diversità ontologica irriducibile che incessantemente viene prodotta, che non trarre necessariamente dal discorso le conclusioni che ne traeva Forster, con un pessimismo anche comprensibilmente superiore a quello ben successivo contenuto nella teoria “dell’incidente” di Paul Virilio: “poi la macchina collassa, e con essa il mondo”. 

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