lunedì 18 febbraio 2013

Amarcord: il telegrafo e il giornale




Il telegrafo, per sua natura, trasforma profondamente l’idea di scrittura e meglio tanto la sconvolge quanto non fa sospettare alcuna trasformazione. Esso storicamente s’insinua nella scrittura, rispetto alla stampa, come qualcosa che è più-che-scrittura; o che comunque non sembra avere nulla a che fare con essa. 
La proposizione, la scrittura, da una parte sono lettere stampate, dall’altra sono notizia, che va subito data, che deve accedere al più presto al sociale, che è quello che essa ritrae, in modo diretto. Venendo per così dire a ridimensionarsi per questo secondo aspetto della cosa l’idea o l’immagine del tempo come tempo cristallizzato in una pagina scritta o stampata, o in lettere dell’alfabeto. E cioè ridimensionandosi il tempo lineare laddove potesse mutare il tipo di scrittura per la sua destinazione, in base cioè allo scopo; e ciò avvenisse a favore di un tempo vivo di scrittura. Ciò che accade col telegrafo è che il tempo è azzerato ed espanso, tenuto quasi in stand-by nello stesso gesto.
Il telegrafo, secondo McLuhan, s’inscrive nell’età della stampa come giornale. Esiste così un giornale “letterario” ed esiste un giornale “telegrafico”. E in questo la letteratura sembra potersi imporre - socialmente, pubblicamente - come meglio non avrebbe potuto. Ma tanto essa s’impone quanto inizia a cedere una parte di sé, dedicandosi a quel sociale che a causa della sua vivezza e attualità esige per sua natura un riconoscimento telegrafico. 
Laddove è evidente che il tempo è dato da ciò che esso descrive, oltre che dal modo come lo fa. E il giornale vale a descrivere nel fatto, nell’accaduto, nell’evento, un che di telegrafico; prende a modello l’elettricità, traduce a modo suo lo spirito telegrafico in fatto letterario e in letteratura; ritraduce a modo suo il telegrafo in scrittura, laddove esso si mostra e come coesistenza con il “mondo elettrico dell’interdipendenza” e come “immagine a mosaico” della vita collettiva[1]; laddove eliminando “il tempo e lo spazio nella presentazione delle notizie”, si ha l’attenuazione del “personalismo della forma libresca” e l’intensificazione di una nuova “immagine pubblica”[2].
In altre parole: se il telegrafo può avere una funzione, un riscontro immediatamente sociale, il giornale traduce tutto questo in letteratura, laddove si ha un pubblico che emerge, tanto quanto un tempo vivo, che con il sociale si confonde; così il giornale ad un certo punto cessa di aspettare le notizie per poter uscire, per poter parlare al pubblico, ed inizia a produrne in proprio, la sua verità, per rispettare il suo rapporto vivo con il tempo[3].
La testualità così viene rinnovata; ma noi continuiamo a parlare di èra tipografica; forse perché è ancora la macchina, la tecnica di stampa, ad essere considerata come fonte vera. Ma il meccanicismo qui sembra tradito, in una qualche misura, a causa di una diversa condizione del tempo. E se l’invenzione o il carattere eclatante di una notizia fantasiosa, se anche la retorica specifica che il giornale richiede, possono far pensare ad altro, ciò che può dirsi cambiato è solo il tempo dell’immaginazione letteraria, che non tradisce l’idea di letteratura. Ed anche se si privilegia il fatto che col giornalismo la littera entra direttamente nel sociale come trionfo della culture écrit, piuttosto che come un chiaro principio di compimento, ciò non è lontano dal vero.

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Con il giornale la realtà si sposta verso il dilemma tempo, per inghiottirlo, ma essendosi così facendo trasformata; la realtà - si dice - è il quotidiano, l’esperienza di ogni giorno; ma di quale realtà si verrà a parlare, in questo modo? Si ha forse allora una realtà più veloce ed una realtà meno veloce?
Si ha così il realismo del giornale, che è garantito dall’essere un fatto che si possa descrivere catalogabile come quotidiano, e meglio qualcosa che può avvenire nella giornata - per dire in un qualsiasi giorno -, o - il che è lo stesso - nell’arco di una mattinata. Per dire: che è una realtà più veloce, è qualcosa che potrebbe capitare a chiunque, ovvero che a chiunque potrebbe accadere qualsiasi cosa; che una cosa vale l’altra e che il tempo così inizia ad oscillare fra un sempre e un mai. E così cioè la notizia, come un dare-e-avere, non può non essere reale, e meglio realistica. È il principio della verosimiglianza, di cui parlava Barthes a proposito di Aristotele, che mostra di avere i mezzi tecnici, la produzione, per imporsi, e sempre più lo farà.
Il realismo dunque così è dato dalla veloce quotidianità del fatto, ma per dire dell’evento e dell’eventuale; e più la realtà si sposta verso una dimensione temporale minima, più la temporalità - con la velocità tecnica o di trasmissione - entra quale eventualità nella possibilità di essere verosimile. Maggiore è dunque la vicinanza alla realtà - ridotta a quotidianità ed esperienza possibile, eventuale per chiunque -, maggiore è la realtà come un che di essenzialmente dicibile, narrabile, annunciabile;  a patto anche che essa sorprenda, ma semplicemente per essere qualcosa che è sempre temuto, desiderato, ma non direttamente vissuto.

Il giornale precorre culturalmente il tempo reale, il real time cosiddetto. Il giornale cioè è chiamato, per sua natura e funzione, tanto a rispecchiare fedelmente la realtà quanto a indebolire il confine tra realtà e finzione. Nel senso ad esempio in cui esso può chiamarsi significativamente Daily Mirror, o simili.
La cultura giornalistica americana può insegnare molto, in questo senso, laddove daily mirror è una endiadi, e significa tanto che si rende lo specchio del quotidiano quanto che questo va proclamato quanto che la perfetta specularità identifica la notizia fresca, quotidiana. Che quanto più la notizia è aggiornata, tanto più essa ritrae la realtà. Che tanto è maggiore il realismo e la plausibilità che ha in sé, tanto più essa è uno scoop, e cioè risulta sorprendente. Che quanto più si è veloci nell’informare, producendo comunque verosimiglianza, tanto maggiore è la veridicità della notizia che si dà.
Senza dubbio una singolare presunzione, ma che prende piede, inizia a percorrere la sua strada, come cronaca giornalistica, governando la sensibilità, producendo nuove forme del Potere. Perché dunque sorprendersi oggi, nel clima generale dell’approdo alla cosiddetta realtà virtuale, che si possa vivere un’esperienza credendo di viverla effettivamente? Dando corpo sostanzialmente ad una nuova credulità?
Tanto si può ritenere il giornale come inscritto nella cultura della stampa, dunque, quanto lo si può ritenere amico-nemico di tale cultura. E comunque trarne chiaro indizio dell’inizio di un declino, quello del libro con in sé una presunzione di verità rivelata. Cessa in altre parole la rivelazione come autorità legata al passato o a Dio e il suo posto è preso dalla credibilità di un fatto, di cui si dia notizia, o dalla verosimiglianza. Laddove alla notizia in quanto tale è concesso di determinare il fatto, o sostituirsi ad esso.
E tanto la cultura telegrafica e meglio post-telegrafica può avere inciso in questo senso, quanto un sintomo può essere ravvisato, o un legame può essere colto, fra il testo stampato e il romanzo, per cui si possa dire che un testo di filosofia della storia, come quello hegeliano, può essere letto come un romanzo.
Tanto cioè si attribuisce un carattere fantasioso ad un testo che descriva fatti del passato, quanto si può attribuire veridicità ad una notizia, sia pure inventata, su fatti del presente. Nel senso però che ciò che si chiede a entrambi è di immergere il lettore in una realtà vissuta.
Tutto diviene quindi questione di modello: non è più importante, non è più educativo, un modello classico ma ciò che accade (socialmente, politicamente), o che meglio si deve poter ritenere sia effettivamente accaduto; ieri come oggi. E anche: la realtà è ciò che il lettore vuole sentirsi dire; ma pur sapendola per potersi sorprendere.




[1] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, p. 228.
[2] Ivi.
[3] Ivi, p. 226.

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