Il
telegrafo, per sua natura, trasforma profondamente l’idea di scrittura e meglio
tanto la sconvolge quanto non fa sospettare alcuna trasformazione. Esso
storicamente s’insinua nella scrittura, rispetto alla stampa, come qualcosa che
è più-che-scrittura; o che comunque non sembra avere nulla a che fare con essa.
La
proposizione, la scrittura, da una parte sono lettere stampate, dall’altra sono
notizia, che va subito data, che deve accedere al più presto al sociale, che è quello che essa ritrae, in modo diretto. Venendo per così dire a
ridimensionarsi per questo secondo aspetto della cosa l’idea o l’immagine del
tempo come tempo cristallizzato in una pagina scritta o stampata, o in lettere
dell’alfabeto. E cioè ridimensionandosi il tempo lineare laddove potesse mutare
il tipo di scrittura per la sua destinazione, in base cioè allo scopo; e ciò
avvenisse a favore di un tempo vivo di scrittura. Ciò che accade col telegrafo
è che il tempo è azzerato ed espanso, tenuto quasi in stand-by nello stesso gesto.
Il
telegrafo, secondo McLuhan, s’inscrive nell’età della stampa come giornale.
Esiste così un giornale “letterario” ed esiste un giornale “telegrafico”. E in
questo la letteratura sembra potersi imporre - socialmente, pubblicamente -
come meglio non avrebbe potuto. Ma tanto essa s’impone quanto inizia a cedere
una parte di sé, dedicandosi a quel sociale che a causa della sua vivezza e attualità esige per sua natura un
riconoscimento telegrafico.
Laddove
è evidente che il tempo è dato da ciò che esso descrive, oltre che dal modo come lo fa. E il giornale vale a
descrivere nel fatto, nell’accaduto, nell’evento, un che di telegrafico; prende
a modello l’elettricità, traduce a modo suo lo spirito telegrafico in fatto letterario
e in letteratura; ritraduce a modo suo il telegrafo in scrittura, laddove esso
si mostra e come coesistenza con il “mondo elettrico dell’interdipendenza” e
come “immagine a mosaico” della vita collettiva[1];
laddove eliminando “il tempo e lo spazio nella presentazione delle notizie”, si
ha l’attenuazione del “personalismo della forma libresca” e l’intensificazione
di una nuova “immagine pubblica”[2].
In
altre parole: se il telegrafo può avere una funzione, un riscontro
immediatamente sociale, il giornale traduce tutto questo in letteratura,
laddove si ha un pubblico che emerge, tanto quanto un tempo vivo, che con il
sociale si confonde; così il giornale ad un certo punto cessa di aspettare le
notizie per poter uscire, per poter parlare al pubblico, ed inizia a produrne
in proprio, la sua verità, per rispettare il suo rapporto vivo con il
tempo[3].
La
testualità così viene rinnovata; ma noi continuiamo a parlare di èra
tipografica; forse perché è ancora la macchina, la tecnica di stampa, ad essere
considerata come fonte vera. Ma il meccanicismo qui sembra tradito, in una
qualche misura, a causa di una diversa condizione del tempo. E se l’invenzione
o il carattere eclatante di una notizia fantasiosa, se anche la retorica
specifica che il giornale richiede, possono far pensare ad altro, ciò che può
dirsi cambiato è solo il tempo dell’immaginazione letteraria, che non tradisce
l’idea di letteratura. Ed anche se si privilegia il fatto che col giornalismo
la littera entra direttamente nel sociale come trionfo della culture
écrit, piuttosto che come un chiaro principio di compimento, ciò non è
lontano dal vero.
***
Con
il giornale la realtà si sposta verso il dilemma tempo, per inghiottirlo, ma
essendosi così facendo trasformata; la realtà - si dice - è il quotidiano,
l’esperienza di ogni giorno; ma di quale realtà si verrà a parlare, in questo
modo? Si ha forse allora una realtà più veloce ed una realtà meno veloce?
Si
ha così il realismo del giornale, che è garantito dall’essere un fatto
che si possa descrivere catalogabile come quotidiano, e meglio qualcosa che può
avvenire nella giornata - per dire in un qualsiasi giorno -, o - il che è lo
stesso - nell’arco di una mattinata. Per dire: che è una realtà più veloce, è
qualcosa che potrebbe capitare a chiunque, ovvero che a chiunque potrebbe
accadere qualsiasi cosa; che una cosa vale l’altra e che il tempo così inizia
ad oscillare fra un sempre e un mai. E così cioè la notizia, come un
dare-e-avere, non può non essere reale, e meglio realistica. È il principio
della verosimiglianza, di cui parlava Barthes a proposito di Aristotele, che
mostra di avere i mezzi tecnici, la produzione, per imporsi, e sempre più lo
farà.
Il
realismo dunque così è dato dalla veloce
quotidianità del fatto, ma per dire dell’evento e dell’eventuale; e più la
realtà si sposta verso una dimensione temporale minima, più la temporalità -
con la velocità tecnica o di trasmissione - entra quale eventualità nella possibilità
di essere verosimile. Maggiore è dunque la vicinanza alla realtà - ridotta a
quotidianità ed esperienza possibile, eventuale per chiunque -, maggiore
è la realtà come un che di essenzialmente dicibile, narrabile,
annunciabile; a patto anche che essa
sorprenda, ma semplicemente per essere qualcosa che è sempre temuto,
desiderato, ma non direttamente vissuto.
Il
giornale precorre culturalmente il tempo reale, il real time cosiddetto.
Il giornale cioè è chiamato, per sua natura e funzione, tanto a rispecchiare
fedelmente la realtà quanto a indebolire il confine tra realtà e finzione. Nel
senso ad esempio in cui esso può chiamarsi significativamente Daily Mirror,
o simili.
La cultura
giornalistica americana può insegnare molto, in questo senso, laddove daily
mirror è una endiadi, e significa tanto che si rende lo specchio del
quotidiano quanto che questo va proclamato quanto che la perfetta specularità
identifica la notizia fresca, quotidiana. Che quanto più la notizia è
aggiornata, tanto più essa ritrae la realtà. Che tanto è maggiore il realismo e
la plausibilità che ha in sé, tanto più essa è uno scoop, e cioè risulta sorprendente. Che quanto più si è veloci
nell’informare, producendo comunque verosimiglianza, tanto maggiore è la
veridicità della notizia che si dà.
Senza
dubbio una singolare presunzione, ma che prende piede, inizia a percorrere la
sua strada, come cronaca giornalistica, governando la sensibilità, producendo
nuove forme del Potere. Perché dunque sorprendersi oggi, nel clima generale
dell’approdo alla cosiddetta realtà virtuale, che si possa vivere un’esperienza
credendo di viverla effettivamente? Dando corpo sostanzialmente ad una nuova
credulità?
Tanto si può ritenere il giornale come inscritto nella
cultura della stampa, dunque, quanto lo si può ritenere amico-nemico di tale
cultura. E comunque trarne chiaro indizio dell’inizio di un declino, quello del
libro con in sé una presunzione di verità rivelata. Cessa in altre parole la
rivelazione come autorità legata al passato o a Dio e il suo posto è preso
dalla credibilità di un fatto, di cui si dia notizia, o dalla verosimiglianza.
Laddove alla notizia in quanto tale è concesso di determinare il fatto, o
sostituirsi ad esso.
E tanto la cultura telegrafica e meglio post-telegrafica
può avere inciso in questo senso, quanto un sintomo può essere ravvisato, o un
legame può essere colto, fra il testo stampato e il romanzo, per cui si possa
dire che un testo di filosofia della
storia, come quello hegeliano, può essere letto come un romanzo.
Tanto cioè si attribuisce un carattere fantasioso ad un
testo che descriva fatti del passato, quanto si può attribuire veridicità ad
una notizia, sia pure inventata, su fatti del presente. Nel senso però che ciò
che si chiede a entrambi è di immergere il lettore in una realtà vissuta.
Tutto diviene quindi questione di modello: non è più
importante, non è più educativo, un modello classico ma ciò che accade
(socialmente, politicamente), o che meglio si deve poter ritenere sia
effettivamente accaduto; ieri come oggi. E anche: la realtà è ciò che il
lettore vuole sentirsi dire; ma pur sapendola per potersi sorprendere.
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