domenica 3 marzo 2013

Preliminari per uno studio sulla "grammatologia"




Se vado a cercare nella enciclopedia Encharta il lemma «grammatologia», non trovo una definizione ma il rinvio generale a «Derrida, Jacques». Se vado a cercare in modo ipertestuale sotto questo nome, mi rendo conto della singolarità e personalità del primo lemma cercato, ovvero della sua stretta connessione con il nome di un Autore.
Il rinvio può essere ritenuto singolare, se si considera che del nostro lemma è dato anche incontrare una definizione in senso linguistico: studio della resa grafica dei fatti linguisitici. Il che significa: un che di diverso rispetto al progetto di Derrida, teso a differenziare scrittura e linguaggio.
Jacques Derrida
Allora bisogna andare all’opera derridiana che reca questo titolo, Grammatologie, e ricostruire la definizione. La grammatologia è la scienza della scrittura, ecc.
Non che tutta la scienza di Derrida, filosofo celebrato, anche mediante Websites, anche negli USA, sia strettamente grammatologica. Ma in certo senso, se consideriamo la versione derridiana, le cose stanno così. Perché il filosofo francese si muove entro un'orbita che già pare segnata; che non è linguistica, bensì scritturale.
Se Derrida pensa e scrive, è perché la mano dell'uomo ha attuata un tempo la sua prima inscriptio e sempre tende a ripeterla, in varia forma, sino alle attuali, elettroniche. Allora molto, della storia che interessa, è dato non dalla parola, ma da quella fisica elementare cui anche la parola si attiene.
Ma perché la grammatologia? Essa, quale scienza positiva della scrittura, sostanzialmente contribuisce a comprendere della comunicazione qualcosa che per solito sfugge: tentare un legame ancor prima che un fondamento, umanistico - caratteristica che si fa apprezzare nella scuola francese contemporanea del pensiero - a qualcosa che si manifesta nelle macchine. O che le macchine hanno rivelato tardivamente, come avviene, secondo Heidegger, che sia rivelata l’essenza della tecnica.
Questo secondo due angolazioni: la prima, decisamente umanistica, la seconda, non effettuale ma sostanziale, strutturale. Con essa la comunicazione, rompendo la crosta della effettualità, lascia intravedere un che di profondo, ad esempio quando si possa dire: «la scienza della scrittura dovrebbe dunque andare a cercare il suo oggetto alla radice della scientificità»[1]. Per dire varie cose, fra cui: la scrittura è epistème (sistema del sapere, sapere come sistema). Nel senso che essa, elevata a scienza, ne spiega la possibilità, anche di crisi. Quella crisi, o disagio, che attualmente sta attraversando, a causa della informazione.

Uno studio sulla grammatologia vuole istituzionalmente la possibilità di primato della scrittura rispetto alla oralità, del gramma (lettera scritta, carattere) rispetto alla parola. Questo rispondendo ad alcuni canoni: come la parola fa il problema e non viceversa, così lo fa la scrittura; e così: «l’idea […] di scienza è nata in una certa epoca della scrittura[2]». Quella che è una contrazione, sul piano dei nostri schemi mentali, del mito del verbum, che dura dall’oracolo delfico in poi. 
Si può svolgere così una indagine storica, tentando di individuare il momento nel quale tale primato sarebbe avvenuto per la prima volta.
Tale momento, di emancipazione della scrittura dalla parola, lo si può cogliere forse nel sec. XVIII, forse agli inizi di quella che McLuhan ha definita «epoca gutenberghiana», ovvero l'epoca contrassegnata  in occidente dalla invenzione della stampa a caratteri mobili. Nella quale si sarebbe avuto un rafforzamento del potere del segno nei confronti del discorso. In tal senso almeno sembrano deporre le pagine di Clément e di quanti hanno insistito sulle differenze tra stampa ed oralità. Come la scrittura non è la trascrizione di un discorso (è singolare - almeno così sembra - la compresenza del verbum come incarnazione e come tabulae) , così la stampa non è la semplice riproduzione di una scrittura; ma certo essa viene anche a sviluppare e fissare qualcosa che la scrittura ha installato. Quel qualcosa si avverte quando si leggono considerazioni sulla spazialità della pagina, o si riscontra nel principio del layout (dis-posizione), ovvero anche sul passaggio dal principio della linearità a quello bidimensionale.
Ma l'indagine può avvenire anche sul terreno delle proprietà e dunque delle attitudini insite negli alfabeti: in primis si tratta di fare approfondimenti su quelli non fonetici. Fonetico significa che io leggendo la parola ne ascolto (mentalmente, nel silenzio, anche e necessariamente) il suono e ad esso allego significati predefiniti. (Il che può significare che la fonetica non è tale.)
Di qui il richiamo agli (il bel ricordo degli) studi leibniziani sull'alfabeto cinese, nei quali Derrida ravvisa una insidia portata dalla scrittura al sistema fonologico, associato alla (ma credo altrettanto non identificantesi) metafisica. Insidia alla quale Rousseau (antesignano secondo Derrida di Lévy-Strauss) e Hegel (ultimo teorico del libro, uno fra gli ultimi del contenimento della realtà nella scrittura) avrebbero reagito.
Che cosa emergeva dagli studi di Leibniz? Da essi, miranti alla cosiddetta caracteristica, ovvero ad una scienza dei caratteri, emergeva il valore della scrittura rispetto alla parola, ed in tale contesto il valore culturale dei simboli matematici.

La matematica quale scrittura, quale simbolismo, risponde al progetto di un linguaggio universale e libero, non già fonetico, non già etnocentrico, nel quale la componente fonetica nonché quella della coscienza ed intenzionalità («questo movimento va largamente al di là delle possibilità della "coscienza intenzionale"»[3]), vengono ad azzerarsi. Forse che un alfabeto universale assolve bene il proprio compito allorquando elide la foneticità e la particolarità? Questa sembra una conclusione affrettata. Ma se non si tratta di conclusioni generali, si tratta di dati di fatto, suscettibili di riflessione.
La scienza mirante a cogliere l'essenziale della scrittura sembra accostarsi sempre di più ad un linguaggio simbolico universale ed al silenzio. Queste sembrano decisamente le sue coordinate. La filosofia contemporanea insegna fra l'altro che la scrittura è tale nel silenzio[4]; laddove il silenzio viene ad essere contrapposto alla parola ed alla foneticità. Avendo in sé la capacità di azzerarle, di farne a meno.
Ma la grammatologia dice dell'altro. Essa fa riferimento alla cibernetica e non solo alla cibernetica. Mentre pensa alla cibernetica pensa anche alla genetica e fa ciò prendendo in considerazione il senso di ciò che si definisce programma - forse è vero un po’ anche questo: che la scrittura è metafora del programma? -
Questo perché (1) un programma per esistere dev'essere tracciato o come scritto (pro-gramma: scrivere prima); e di più perché (2) l'idea di programma, al di là del, ma nel, fatto che esso debba essere tracciato, libera l'idea di traccia. Il programma libera la traccia. La quale, strutturalmente, da una parte ha un'attitudine protensiva, indicante un proiettarsi, un estendersi in avanti, dall'altra una ritensiva, indicante un rattenere, un conservare.
La traccia ha vigore e senso finché indica una funzione attiva o di promozione; ma ciò lo si ha dal momento che essa è. Essa è in certo senso promozione di sé. Ma essa comunque esiste e dunque conserva.
La protensività è la traccia in quanto atta a comunicare direttamente; la ritensività è la traccia in quanto atta a conservare in memoria ed a comunicare in modo differenziato, non cioè ora, ma in un tempo successivo. E comunque essa resta, è sempre, come comunicazione potenziale.
La traccia, e cioè la sua fisica elementare, si presenta come un che di essenziale che in tale sua essenzialità libera memoria e comunicazione.
Ma che cos'è la traccia; che cosa essa lascia supporre? Difficile pensarla - ritengo - se non come segno della mano. Essa risponde cioè per una qualche simmetria alla presenza della mano: non si può pensare la traccia se non pensando la mano. Ovvero: mediante la traccia la mano si ripresenta, e la traccia è il modo della mano di confrontarsi con il mondo. O di conformarvisi.
La traccia, in quanto entità scritturale, è così la presenza dell'uomo. Una fisica forse un po' inquietante, un po’ religiosa, o magica, nel suo mutismo della presenza, ma comunque qualcosa che vuole parlarci dell'uomo decostruito in quanto ridotto a mano.

Si parla di trackball, e si parla di tracciamento della mano, quando ci si occupa del senso di estensione della presenza umana nel computer che è conferito dal mouse.
Nel computer la presenza umana c'è, ma essa per lo più ha bisogno di essere restituita alla coscienza.
La traccia è dunque scrittura nella sua condizione essenziale o minima. Laddove vi è traccia, lì vi è un mondo in cui la comunicazione è scrittura.
Per riassumere dunque: nella fisica della scrittura si ha metafisica della presenza: la scrittura, la inscriptio, la scopriamo fuggendo lontani dall’uomo, mettiamo dall’uomo della città. E lì vi è ancora comunicazione (risalgono alla mente allora alcune pagine di Derrida laddove egli dice della scelta del Rousseau delle Confessions: scegliere di essere assente e di scrivere[5]. Deposta a questo punto la volitività, resta però una sorta di metafisica della scrittura: dopo la fisica la metafisica. La comunicazione è scrittura; lo è nei suoi fenomeni primigeni.
La grammatologia dunque ci aiuta a pensare la comunicazione come scrittura. Ci rende approfonditi su questa possibile identificazione, ma fa ciò dopo avere tolto alla umanità dell'uomo ed alla presenza coscienza ed intenzionalità. Dimostra come si abbia presenza pur togliendo coscienza. Lo fa dopo avere mostrato come l'assenza di coscienza ed intenzionalità valga a liberare la memoria. Il suo è umanismo minimale.
Ma la grammatologia facendo ciò si costituisce un limite, un orizzonte: essa dice che è scrittura anche ciò che non lo è. Essa riproduce metafisica.

Dicevamo inizialmente: la grammatologia lascia intravedere della comunicazione qualcosa che solitamente sfugge.
L’attuale mondo della comunicazione quale mondo della messaggistica pone in risalto messaggi verbali e scritti. La grammatologia invita a considerare i messaggi scritti ed in generale la scrittura elettronica. Quasi essa fosse da sempre ad attenderci, quale essenza della scrittura.  




[1] La Grammatologia, trad. it., Milano 1998, p. 50.
[2] Ivi, p. 49.
[3] Ivi, p. 124.
[4] VITIELLO,  Dire  il silenzio, in AA.VV., Filosofia '90,  a cura di G.  Vattimo, Bari 1991, p.  16.
[5] La grammatologia, cit., p. 198. 

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