Se
vado a cercare nella enciclopedia Encharta
il lemma «grammatologia», non trovo una definizione ma il rinvio generale a
«Derrida, Jacques». Se vado a cercare in modo ipertestuale sotto questo nome,
mi rendo conto della singolarità e personalità del primo lemma cercato, ovvero
della sua stretta connessione con il nome di un Autore.
Il
rinvio può essere ritenuto singolare, se si considera che del nostro lemma è
dato anche incontrare una definizione in senso linguistico: studio della resa
grafica dei fatti linguisitici. Il che significa: un che di diverso rispetto al
progetto di Derrida, teso a differenziare scrittura e linguaggio.
Jacques Derrida |
Non
che tutta la scienza di Derrida, filosofo celebrato, anche mediante Websites,
anche negli USA, sia strettamente grammatologica. Ma in certo senso, se
consideriamo la versione derridiana, le cose stanno così. Perché il filosofo
francese si muove entro un'orbita che già pare segnata; che non è linguistica,
bensì scritturale.
Se
Derrida pensa e scrive, è perché la mano dell'uomo ha attuata un tempo la sua
prima inscriptio e sempre tende a
ripeterla, in varia forma, sino alle attuali, elettroniche. Allora molto, della
storia che interessa, è dato non dalla parola, ma da quella fisica elementare
cui anche la parola si attiene.
Ma
perché la grammatologia? Essa, quale
scienza positiva della scrittura, sostanzialmente contribuisce a comprendere
della comunicazione qualcosa che per solito sfugge: tentare un legame ancor
prima che un fondamento, umanistico - caratteristica che si fa apprezzare nella
scuola francese contemporanea del pensiero - a qualcosa che si manifesta nelle
macchine. O che le macchine hanno rivelato tardivamente, come avviene, secondo
Heidegger, che sia rivelata l’essenza della tecnica.
Questo
secondo due angolazioni: la prima, decisamente umanistica, la seconda, non
effettuale ma sostanziale, strutturale. Con essa la comunicazione, rompendo la
crosta della effettualità, lascia intravedere un che di profondo, ad esempio
quando si possa dire: «la scienza della scrittura dovrebbe dunque andare a
cercare il suo oggetto alla radice della scientificità»[1]. Per
dire varie cose, fra cui: la scrittura è epistème
(sistema del sapere, sapere come sistema). Nel senso che essa, elevata a
scienza, ne spiega la possibilità, anche di crisi. Quella crisi, o disagio, che
attualmente sta attraversando, a causa della informazione.
Uno
studio sulla grammatologia vuole istituzionalmente
la possibilità di primato della scrittura rispetto alla oralità, del gramma
(lettera scritta, carattere) rispetto alla parola. Questo rispondendo ad alcuni
canoni: come la parola fa il problema e non viceversa, così lo fa la scrittura;
e così: «l’idea […] di scienza è nata in una certa epoca della scrittura[2]».
Quella che è una contrazione, sul piano dei nostri schemi mentali, del mito del
verbum, che dura dall’oracolo delfico
in poi.
Si
può svolgere così una indagine storica, tentando di individuare il momento nel
quale tale primato sarebbe avvenuto per la prima volta.
Tale
momento, di emancipazione della scrittura dalla parola, lo si può cogliere
forse nel sec. XVIII, forse agli inizi di quella che McLuhan ha definita «epoca
gutenberghiana», ovvero l'epoca contrassegnata in occidente dalla invenzione della stampa a
caratteri mobili. Nella quale si sarebbe avuto un rafforzamento del potere del
segno nei confronti del discorso. In tal senso almeno sembrano deporre le
pagine di Clément e di quanti hanno insistito sulle differenze tra stampa ed
oralità. Come la scrittura non è la trascrizione di un discorso (è singolare -
almeno così sembra - la compresenza del verbum
come incarnazione e come tabulae) ,
così la stampa non è la semplice riproduzione di una scrittura; ma certo essa
viene anche a sviluppare e fissare qualcosa che la scrittura ha installato.
Quel qualcosa si avverte quando si leggono considerazioni sulla spazialità
della pagina, o si riscontra nel principio del layout (dis-posizione), ovvero anche sul passaggio dal principio
della linearità a quello bidimensionale.
Ma
l'indagine può avvenire anche sul terreno delle proprietà e dunque delle
attitudini insite negli alfabeti: in
primis si tratta di fare approfondimenti su quelli non fonetici. Fonetico
significa che io leggendo la parola ne ascolto (mentalmente, nel silenzio,
anche e necessariamente) il suono e ad esso allego significati predefiniti. (Il
che può significare che la fonetica non è tale.)
Di
qui il richiamo agli (il bel ricordo degli) studi leibniziani sull'alfabeto
cinese, nei quali Derrida ravvisa una insidia portata dalla scrittura al
sistema fonologico, associato alla (ma credo altrettanto non identificantesi) metafisica. Insidia alla quale Rousseau
(antesignano secondo Derrida di Lévy-Strauss) e Hegel (ultimo teorico del libro,
uno fra gli ultimi del contenimento della realtà nella scrittura) avrebbero
reagito.
Che
cosa emergeva dagli studi di Leibniz? Da essi, miranti alla cosiddetta caracteristica, ovvero ad una scienza
dei caratteri, emergeva il valore della scrittura rispetto alla parola, ed in
tale contesto il valore culturale dei simboli matematici.
La
matematica quale scrittura, quale simbolismo, risponde al progetto di un
linguaggio universale e libero, non già fonetico, non già etnocentrico, nel
quale la componente fonetica nonché quella della coscienza ed intenzionalità
(«questo movimento va largamente al di là delle possibilità della
"coscienza intenzionale"»[3]),
vengono ad azzerarsi. Forse che un alfabeto universale assolve bene il proprio
compito allorquando elide la foneticità e la particolarità? Questa sembra una
conclusione affrettata. Ma se non si tratta di conclusioni generali, si tratta
di dati di fatto, suscettibili di riflessione.
La
scienza mirante a cogliere l'essenziale della scrittura sembra accostarsi
sempre di più ad un linguaggio simbolico universale ed al silenzio. Queste
sembrano decisamente le sue coordinate. La filosofia contemporanea insegna fra
l'altro che la scrittura è tale nel silenzio[4];
laddove il silenzio viene ad essere contrapposto alla parola ed alla foneticità.
Avendo in sé la capacità di azzerarle, di farne a meno.
Ma
la grammatologia dice dell'altro. Essa fa riferimento alla cibernetica e non
solo alla cibernetica. Mentre pensa alla cibernetica pensa anche alla genetica
e fa ciò prendendo in considerazione il senso di ciò che si definisce programma - forse è vero un po’ anche
questo: che la scrittura è metafora del programma? -
Questo
perché (1) un programma per esistere dev'essere tracciato o come scritto
(pro-gramma: scrivere prima); e di più perché (2) l'idea di programma, al di là
del, ma nel, fatto che esso debba essere tracciato, libera l'idea di traccia.
Il programma libera la traccia. La quale, strutturalmente, da una parte ha
un'attitudine protensiva, indicante un proiettarsi, un estendersi in avanti,
dall'altra una ritensiva, indicante un rattenere, un conservare.
La
traccia ha vigore e senso finché indica una funzione attiva o di promozione; ma
ciò lo si ha dal momento che essa è. Essa è in certo senso promozione di sé. Ma
essa comunque esiste e dunque conserva.
La
protensività è la traccia in quanto atta a comunicare direttamente; la
ritensività è la traccia in quanto atta a conservare in memoria ed a comunicare
in modo differenziato, non cioè ora, ma in un tempo successivo. E comunque essa
resta, è sempre, come comunicazione potenziale.
La
traccia, e cioè la sua fisica elementare, si presenta come un che di essenziale
che in tale sua essenzialità libera memoria e comunicazione.
Ma
che cos'è la traccia; che cosa essa lascia supporre? Difficile pensarla -
ritengo - se non come segno della mano. Essa risponde cioè per una qualche
simmetria alla presenza della mano: non si può pensare la traccia se non
pensando la mano. Ovvero: mediante la traccia la mano si ripresenta, e la
traccia è il modo della mano di confrontarsi con il mondo. O di conformarvisi.
La
traccia, in quanto entità scritturale, è così la presenza dell'uomo. Una fisica
forse un po' inquietante, un po’ religiosa, o magica, nel suo mutismo della presenza, ma comunque
qualcosa che vuole parlarci dell'uomo decostruito in quanto ridotto a mano.
Si
parla di trackball, e si parla di
tracciamento della mano, quando ci si occupa del senso di estensione della
presenza umana nel computer che è conferito dal mouse.
Nel
computer la presenza umana c'è, ma essa per lo più ha bisogno di essere
restituita alla coscienza.
La
traccia è dunque scrittura nella sua condizione essenziale o minima. Laddove vi
è traccia, lì vi è un mondo in cui la comunicazione è scrittura.
Per
riassumere dunque: nella fisica della scrittura si ha metafisica della
presenza: la scrittura, la inscriptio,
la scopriamo fuggendo lontani dall’uomo, mettiamo dall’uomo della città. E lì
vi è ancora comunicazione (risalgono alla mente allora alcune pagine di Derrida
laddove egli dice della scelta del Rousseau delle Confessions: scegliere di essere assente e di scrivere[5].
Deposta a questo punto la volitività, resta però una sorta di metafisica della
scrittura: dopo la fisica la metafisica. La comunicazione è scrittura; lo è nei
suoi fenomeni primigeni.
La
grammatologia dunque ci aiuta a pensare la comunicazione come scrittura. Ci
rende approfonditi su questa possibile identificazione, ma fa ciò dopo avere
tolto alla umanità dell'uomo ed alla presenza coscienza ed intenzionalità.
Dimostra come si abbia presenza pur togliendo coscienza. Lo fa dopo avere
mostrato come l'assenza di coscienza ed intenzionalità valga a liberare la
memoria. Il suo è umanismo minimale.
Ma
la grammatologia facendo ciò si costituisce un limite, un orizzonte: essa dice
che è scrittura anche ciò che non lo è. Essa riproduce metafisica.
Dicevamo
inizialmente: la grammatologia lascia intravedere della comunicazione qualcosa
che solitamente sfugge.
L’attuale
mondo della comunicazione quale mondo della messaggistica pone in risalto
messaggi verbali e scritti. La grammatologia invita a considerare i messaggi
scritti ed in generale la scrittura elettronica. Quasi essa fosse da sempre ad
attenderci, quale essenza della scrittura.
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