sabato 7 settembre 2013

Letteratura e storia




I “Mille”



Giuseppe Cesare Abba, scrittore ottocentesco e meglio risorgimentale, insegnante, infine senatore del Regno, avendovi preso parte quale patriota, ha posto la propria impronta letteraria (in Da Quarto al Volturno) sulla famosa impresa dei Mille, che nella sua prima fase salpò dalla costa ligure e giunse a Marsala nel maggio del 1860.
Lo ha fatto da cronista appassionato, romantico, con una sequenza diaristica di brani alcuni dei quali di radicale intensità, come quello del pastore del feudo di Rampagallo che dopo avere atteso per via il passaggio dei volontari prima della battaglia di Calatafimi, ad essi affidò - non prima di avere esortato il comandante Carini a puntare decisamente su Palermo -, allontanandolo da sé e spingendolo come verso un precettore, il figlio quindicenne, prendendo poi in lacrime la strada di ritorno verso la sua povera abitazione. Un gesto forse sorprendente perché umano, assai umano; e direi singolarmente razionale, morale, prima ancora che storico.
Quella eroica, spregiudicata impresa, che consisté, per chi vi prese parte, anche in un immergersi nel quotidiano e nel sociale del profondo Sud, fu vissuta dai suoi artefici nella luce di Curtatone e Montanara, di Sapri, del fantasma di Pisacane: vi sono stati insomma giovani, nella nostra storia, che per amore della libertà, nell’idoleggiamento di Garibaldi (il “Dittatore”, il “Generale”, il “Washington d’Italia”, insomma essenzialmente un mito) e nell’ammirazione per i Bixio, i Taddei o altri comandanti, furono capaci di non distinguere - forse perché i giovani come si usa dire si credono immortali - fra la vita e la morte.
Ma dissolte per così dire le nebbie letterarie, pur preziose per il contributo testimoniale, e tolte le passioni, resta il fatto, per ciò che dalla narrazione emerge, che a dare primo e decisivo impulso a quell’impresa furono soprattutto patrioti del Nord, provenienti da Lombardia, Piemonte e Liguria (ad esempio i “carabinieri genovesi”): alla partenza da Quarto i siciliani, gruppo di valorosi, si potevano contare in numero non superiore ai venti.
E fra quei settentrionali molti erano - come definirli altrimenti? - “teste calde”, entusiasti, giovani folli letterati, combattenti della Libertà, anche stranieri, dei quali taluni si ritrovavano avendo già combattuto e in Italia e in Europa laddove vi fossero stati - pensiero e azione - moti indipendentisti; e vi era anche chi aveva imbracciato le armi nella guerra di Crimea, la famosa chance di Cavour, assai significativa per la nostra gloria politica nazionale. Una ventata insomma di romanticismo, ovverosia di cultura continentale, il cui orientamento politico era per il nazionalismo.
Per contro, l’adesione fattiva di quanti, a migliaia e forse soprattutto fra i siciliani (ma l’attenzione dello scrittore va soprattutto alla Sicilia), si unirono ai garibaldini va ricollegata all’accoglienza riservata a quei patrioti dalle popolazioni di quelle terre (ben diversa da luogo a luogo, nella rilevazione dell’autore): sentimenti umani comuni e condivisibili ve ne furono come ve ne saranno sempre; ma sostanzialmente è giocoforza considerare una partecipazione che per non esserlo stata non sarebbe potuta essere superiore a un immediato e generico anelito di liberazione e/o di risentimento nei confronti dei Borbone (ma siamo ancora per lo più in Sicilia), che qua e là covava presso di esse.
Ne emerge allora forse un patriottismo culturalmente non meridionale? Che non è sic et simpliciter uno scetticismo caratterialmente meridionale? Presumibilmente sì, potrebbe sembrare per una fatale quasi-estraneità delle Due Sicilie alla temperie culturale europea, ovvero a quel romanticismo nazionalista di cui si diceva.
Quale allora la conseguenza? Sostanzialmente che nessuno (come chiaramente espresso da un prete con cui l’autore aveva stretto amicizia) sarebbe riuscito nell’impresa di far sì che il Sud formasse con le altre regioni della penisola un unico popolo; al massimo si sarebbe realizzata una unificazione territoriale.
Una previsione, curiosamente allineabile con il successivo giudizio del principe di Metternich (sull’Italia, quale “pura espressione geografica”); ma un messaggio che comunque bisogna saper ponderare, magari confrontandolo con tante altre prove storiche, che non so dire se deponga più a sfavore o a favore del nostro Mezzogiorno. Laddove certo alle difficili condizioni di vita di tanta gente si associava una forte cultura feudale (e la “resistenza”, così da taluni detta, che sarebbe stata messa in atto dal cosiddetto “brigantaggio”, lo sta a dimostrare). Altra è insomma la cultura della terra e/o del feudo, altra quella - mettiamo - della forma-Stato e meglio dello Stato nazionale; ma anche qui credo sia giusto lasciare spazio agli esperti: forse la diversità culturale né condanna né assolve, restando la certezza però che pur non essendo partiti i Mille da Marsala, il Meridione diede, per quanto la storia ad esso concesse, il suo contributo di uomini e di sangue.
E dunque: sulla questione della partecipazione (personale, di fatto ma in questo generalmente culturale) della gente del Sud a quell’impresa lascerei decidere a chi voglia accostarsi alle pagine di Abba con animo più riflessivo, insomma lascerei ad altri la querelle; anche in considerazione del fatto che se i sentimenti e i risentimenti degli “umili” nei confronti del potere costituito e della ricchezza accumulata, ovvero - mettiamo - dei braccianti delle campagne verso i “gentiluomini”, paiono trascendentali per dire sempre contemporanei, ciò non nasconde che troppo o troppo diretto dové essere l’impatto dell’idea di nazione sui rapporti di classe nella economia reale del Sud.
Ogni sostanziale atto di diffidenza o d’incomprensione del contadino meridionale (si pensi all’episodio dei fratelli Bandiera) ma non solo, verso qualsiasi iniziativa patriottica era anche per così dire culturalmente “strutturato”, era razionalità storica: la cultura era ed è cultura, proprio nelle sue diversità; i bisogni che cosa sono se non gli eterni bisogni? E quei patrioti - che facevano tutt’altro che suggere “il sangue ai bambini” e molti dei quali Abba ritrae singolarmente quasi a comporne una piccola galleria - non si sarebbero potuti mai identificare se non idealmente (e senza avere occhi per la natura e la storia delle classi sociali) con la realizzazione del risorgimento; che alla fine fu deciso dalla politica e dalla ragion di Stato (i governi in realtà - si pensi al Piemonte e all’Inghilterra - già avevano promosso e favorito l’impresa dei Mille, fra i quali vi erano - infiltrati - tiratori scelti), molto dalle leggi, dalle armi (le più moderne, di cui i garibaldini furono puntualmente riforniti) e dal denaro, italo-piemontesi ma non solo; laddove ben più dell’umano dové accadere in danno del Sud, che fu per lo più annesso, fatto colonia, per lo più come si suole dire “piemontesizzato”.
Al che l’ulteriore domanda che si pone o la stessa domanda che si ripropone, è la seguente: potranno mai quei patrioti e a fortiori coloro che Abba ricorda come i “picciotti di Bixio”,  “coonestare” ai nostri occhi l’opera di saccheggio di risorse (per realizzare un pareggio di bilancio) e di normalizzazione successivamente attuate del governo italo-piemontese? E meglio: che cosa e chi essi rappresentavano veramente, nello sprezzo del pericolo e della morte, nelle res gestae per ricordarci dei Latini, in considerazione del fatto, non irrilevante, che essi erano appunto folli della libertà e “teste calde”?
E anche: quale sarebbe potuto essere il governo più naturale o confacente per i popoli del Sud e meglio il più convincente Stato di diritto: quello borbonico (un Regno dotato di una eccellente classe intellettuale e che prima dell’unificazione nazionale fu quotato politicamente e tecnologicamente fra i primi cinque d’Europa) o quello piemontese-italiano? O quale altro? o che non vene fosse alcuno, di Stato di diritto?
Resta comunque, per le necessarie riflessioni storiche postume (anche se del senno di poi - come ricordava Croce - “son piene le fosse”), la testimonianza, mossa dalla vocazione letteraria, che poiché incuriosisce di più è forse più di una semplice prova dei fatti. È il famoso “spaccato” d’epoca, quella storia che ci rende sempre ignoranti, costituita da persone viventi, quotidianità, personalità e umanità dei fatti; che induce a riflettere, proprio nel vigore ed efficacia della scrittura, sui limiti insiti in qualsiasi immagine troppo lineare, semplificata, della storia, alla quale l’uomo osservato e descritto per sua radice e verità appare però irriducibile.
Leggere o rileggere, in questo caso singolare ma anche in altri, è come dare ragione al ritorno in questa epoca - pur insidiosamente mediatica - a una preparazione storica basata sul documento o sui diari e le testimonianze dirette, laddove se s’indulge al fatto, è vero che il soggetto descrivendo il fatto un po’ si riprende e anche restituisce ad altri aiutandoli quei diritti che lo Spirito della storia sembrava avergli già sottratto.

(2010; già pubblicato in Europa Giovani)






Famiglia e rivoluzione



Il diritto è - anche - il pensiero dell’uomo storico, sia sotto il profilo soggettivo (di colui cioè che pensa), sia sotto quello oggettivo (ovvero di ciò che è pensato). O anche: la norma, in quanto posta, dice dell’uomo, che essa sottintende. 
È che per comprendere la storia come storia di un popolo, o di una terra, bisogna toccare con mano le carte, compenetrarsi nella documentazione e, nello specifico, nella sua documentazione giuridica; ovvero: nella positività della disposizione normativa bisogna saper riconoscere compenetrandoli il regolamento e il documento.
Conosciamo tutti la Storia del diritto quale disciplina, da cui emergeva nei nostri studi e letture più o meno giovanili la verità: che il diritto è storia; ma in certo senso in questo si annidava un difetto di comprensione, o di sostanza, prestandosi quella disciplina a un ruolo liberatorio e come di compensazione, ma di ordine nemmeno pari, rispetto al diritto positivo. Ma la norma non è dogma se essa è posta, se ad essa si addicono lo spazio del territorio e il tempo. Quindi dove cresca la documentazione storiografica (lo stile dei cronisti, che precedettero per diversità gli storiografi, illuministi e romantici) e in questo quella giuridica, là si può pensare il passato come fosse il presente e viceversa, riunendo le due cose in una.
Non è dunque solamente che per comprendere un istituto se ne debbano indagare origine e sviluppi, il che è peraltro atto dovuto o comunque scolastico; ma è che quella distinzione fra diritto positivo e storia giuridica non è detto che debba costituire un freno, o una limitazione, sul piano del pensiero.
È così che le norme e i fatti documentati di un popolo - ma quelle appunto come fatti documentati - sono la sua storia; è così - mettiamo - che la storia dei tedeschi o dei francesi è la storia del loro diritto civile e anche più in generale: un popolo è anche questo o quel popolo, pensato come, e meglio pensando il, suo diritto civile. Laddove forse nulla è come il diritto civile, che può essere elevato quasi a categoria. Nulla come il diritto civile, per quanto si può trarre dai legami con la storia romana antica coltivati e promossi dai giuristi successivi di ogni epoca, induce il pensiero a porsi su questo piano, storico-giuridico.
In certo senso è vero: se tutto cresce sul terreno della documentazione, allora tutto cresce o dovrebbe crescere sul terreno del pensiero: il giardino è sempre quello; se non fosse anche che la documentazione rischia di andare ben oltre e di non essere sufficientemente pensata. Ovvero, come giudicava Hegel ponendosi in relazione con il suo tempo, a un certo punto il pensiero si trova di fronte a un ammasso di materiale empirico, che non ha pensiero.
Interpretativamente, bisogna dunque sì riunire “americani e francesi”, come già avvenne all’epoca di Lafayette, per dire che la documentazione, al pari di proclamazioni di diritti e libertà (legate all’epoca ad una insolita circolazione d’idee e principi) è qualcosa che riunisce, secondo la universalità, e vale a formare le coscienze; ma nello stesso tempo bisogna pensare di più, e pensarsi relativamente a quel materiale, in modo giuridico. E l’ideale di ogni popolo, per dire certo di ogni cittadino, di ogni persona, dovrebbe consistere nel sapersi ben calare nel suo essere (per ciò che si è stati) giuridicamente; magari in alternativa al senso comune o alla tavola dei valori, promossa dall’Azienda pubblicitaria, dal tam-tam, ovvero dai media.
Sono questi - credo - alcuni fra gli insegnamenti che la rivoluzione francese, potendo sempre incuriosire e appassionare a causa della sua valenza simbolica, di certa quale sua prossimità al nostro sentire, della intensità e velocità dei fatti che la contraddistinsero e della densità documentale che la riguarda, riserva ancora alla pur stanca cultura occidentale, che è in noi.
In una parola, per il nostro tema: i fatti che seguirono l’‘89 sono tuttora di per sé un invito a ritenere che il diritto normativo, poiché esso dové essere rivoluzionato e “rivoluzionario” (rispetto al droit coutumier; ma si trattava in questo anche di logica metodica e di un riconnettersi, come fecero i tanti giuristi francesi, al Corpus Iuris Civilis, che lo si ritenesse diritto naturale applicato al diritto civile o modello di razionalità o meritevole solo di una comparazione), fosse per quel dover essere storia concreta, e quindi a fortiori chiave di lettura storica.
Quei fatti dimostrarono insomma, in relazione a spazio e tempo, che diritto e storia possono formare oggetto di una sola lettura; che essi appartengono alla medesima possibilità di spiegazione, potendo sempre la sua storia dare profondità di concetto e critica a ciò che nella sua normatività renderebbe univoca l’esegesi.
La Rivoluzione francese - questo va sempre ripetuto - non fu eguale a sé stessa; essa fu una storia nella storia e ad un certo punto, dopo Robespierre, dopo l’esperienza del Direttorio, essa per così dire tentò di negarsi (in tal senso già la costituzione del 1795 - anno III - limitò il diritto di voto, togliendo il suffragio universale; e Robespierre in un colloquio con Danton parlava della necessità di … salvare la rivoluzione).
Di Rivoluzione francese a ben riflettere - e non è questione schematica o letteraria di Restaurazione - se ne è fatta meno di quanto non si creda, anche se certe ideazioni pratiche - come la ghigliottina, le prefetture, i numeri civici delle strade ecc. - una volta installate prescindono dal regime che le ha introdotte; ovvero la storia di quella rivoluzione non è l’idea-immagine di ciò che dev’essere una ribellione o una insurrezione popolare, o una rivoluzione basata sul “giacobinismo” (Gramsci); non è un quid lineare, una icona o un simbolo, sovrapponibile alla storia stessa e chiede invece, per alimentare il pensiero storico, di essere riesaminata e documentata. Chiede, in una maniera più equilibrata, di essere vista sotto il profilo sì delle sue déclarations, delle sue costituzioni, ma del suo diritto civile.
Già, si diceva: la storia di un popolo è anche necessariamente la storia del suo diritto civile, che riguarda direttamente la vita della gente, che si esprime in qualcosa che la regola e con essa interagisce; e c’è un libro recente (I giacobini, l’imperatore e il divorzio, autore P. Furio Zelaschi) che depone in tal senso, intrattenendosi in modo sobrio e puntuale sulla evoluzione normativa del diritto di famiglia con riferimento ai fatti che scandirono il tempo della Rivoluzione dalla sua fase più propriamente “rivoluzionaria” all’impero e dunque all’epoca napoleonica.
Il bisogno di un code civil, per dire di una unificazione del diritto nazionale, era in certo modo presente già da tempo, nella mente dei francesi, se si considerano le elaborazioni dottrinali (ed è istruttivo a tale proposito il libro di A-J Arnaud, Napoli, 2005) dei Domat, dei Bourjon e dei Pothier, o i progetti privati, mettiamo di un Olivier. Ed era nei proponimenti dell’Assemblea nazionale, definitasi costituente, sin dal 1790, di abolire la congerie di consuetudini locali e dare vita a un diritto scritto nazionale che ponesse fine al feudalesimo, all’Ancien Régime e al primato della Chiesa nelle cose temporali. Anche l’opinione pubblica sembrava matura, per quanto risulta dai molti pamphlets sull’argomento che circolavano in quel periodo, ed esercitava pressioni (così fece nel 1791 il Corpo municipale di Parigi nei confronti di quell’Assemblea) per una riforma in senso civile del diritto matrimoniale. Ma considerato il momento e certi tentativi fallimentari di quell’anno, ciò che fu impossibile fare con un codice lo si fece per legge.
Fu così in forza di un atto del 20 settembre 1792 - integrato subito da un decreto in pari data sulle cause e da ulteriori interventi normativi quali quello del 23 aprile 1794 - che s’introdusse in Francia la riforma dello stato civile, con i suoi ufficiali e registri - municipali e non già parrocchiali -, i suoi estratti, dotati del valore di prova legale e i suoi moduli bene organizzati, e che fu disciplinato il matrimonio civile e introdotto il divorzio; l’una cosa da mettersi in profonda connessione con l’altra, laddove alla nascita di una moderna burocrazia amministrativa faceva riscontro (e molto sembrava davvero essere stato predefinito da Voltaire nel suo Dictionnaire: il vinculum coniugii è un “contratto del diritto delle genti di cui i cattolici romani hanno fatto un sacramento”) la normativizzazione del matrimonio-contratto - già peraltro riconosciuta nella costituzione del 1791, all’art. 7 - il cui fondamento era nel consenso e cioè nella volontà dei nubendi, nell’autonomia della volontà; passando in second’ordine la pronuncia e benedizione dell’officiante religioso (il sempre meno amato prete “giurato”), e venendo per conseguenza minimizzato l’istituto della separazione (séparation des corps), che era valso alla Chiesa il monopolio degli annullamenti.
Nella voluntas legis, il rapporto fra i due istituti - matrimonio e divorzio - doveva essere di simmetria: se il matrimonio è basato sul consenso, allora, venendo a cessare tale consenso, si ha lo scioglimento del vincolo; dunque il divorzio non era semplicemente ammissibile ma in certo senso era connaturato col matrimonio. Ma sul piano pratico vennero a pesare soprattutto le cause, i motifs déterminés, ed essendo previsto anche un divorce facil o che bastasse, per porre fine al legame coniugale, la “pura e semplice dichiarazione unilaterale di incompatibilità di carattere”, tutto fece sì che il divorzio nei fatti prevalesse sul matrimonio stesso e che esso prendesse rapidamente piede, con casistiche e frequenze che variavano di classe in classe, di regione in regione.
Epperò, come i numeri dimostrano, se tutto ciò si rivelò congeniale al periodo più “rivoluzionario” e alle condizioni personali e patrimoniali delle famiglie sino ai giorni del Terrore, la cosa era destinata a non durare, una volta che fossero cambiate in nome di una maggiore stabilità dei rapporti le condizioni politiche del paese.
Quel racconto, che inizia con la legge e decreto del 20 settembre 1792, passa attraverso il 18 brumaio, il consolato e l’impero e si conclude con il Codice civile dei francesi (1804), poi definito Code Napoléon, che è appunto quell’opera che la Costituente non era riuscita a portare a compimento. E qui fu chiaro il riflusso, dovuto all’intento dell’imperatore di rendere più compatta e solida la nazione, nei suoi tessuti familiare e patrimoniale: dal testo del code civil emerge una famiglia più al centro delle attenzioni giuridiche, più d’impronta patriarcale; in esso si trova accentuato quel “maschilismo” che peraltro mai aveva abbandonato il legislatore francese; vi fu un minore riconoscimento per i diritti dei figli naturali e furono posti all’ottenimento del divorzio una serie di freni; se emerse anche la chiara volontà di Napoleone (che comunque doveva farlo e divorziò) di fare salvo il principio del matrimonio-contratto e della laicità e di non riconsegnare nulla del vecchio potere in materia alla Chiesa - come dimostra lo spirito del concordato del 1801, con il quale d’imperio il clero non cessò di essere sottoposto all’autorità dello Stato -, fu chiaro come la famiglia dovesse essere restaurata, al di là della simmetria del consenso-contratto.
Qualcosa dunque veniva cambiato e qualcosa conservato, cercando di rendere compatibili l’individuo, il moderno soggetto giuridico, e la famiglia. Ed anche qui è vero: il progresso nonostante tutto era evidente e non bisogna pretendere in generale che il percorso evolutivo di un istituto sia unilineare e indisturbato, ed invece ci si deve rendere conto di come esso proceda per avanzamenti, adattamenti, ridimensionamenti e conversioni. Doveva essere questo l’andamento della storia, per ciò che se ne sa: in séguito la Restaurazione avrebbe ripristinato, a favore della Chiesa, il ripristinabile; ma l’impronta sarebbe rimasta.
Per il resto, Napoleone aveva dichiarato espressamente di essere l’erede della Rivoluzione francese - non si trattava dunque di una conclusione filosofica hegeliana -; ma evidentemente non era semplicemente Napoleone da tenere sott’occhio (e peraltro le biografie celebrative del personaggio certo non mancano) ed invece per ciò che qui rileva la gente di Francia, il popolo di quella nazione, le famiglie, donne, uomini e bambini, nonché non ultimo il legislatore, per come essi vivevano il loro diritto: le norme vanno lette senz’altro in relazione a tempo-e-spazio, che le contraddistinguono, ai relativi dati e comunque non solo in relazione alla fonte, che non va discussa.
Ecco: forse un titolo alternativo per quel libro del 2009 - ma altri ne dovranno venire - che mi ha fornito più di uno spunto prezioso, potrebbe essere qualcosa come: “Breve storia della gente di Francia, letta attraverso i fatti e la legislazione matrimoniale, rivoluzionaria e napoleonica”. Serviva e serve in certo modo una robusta sapienza storica, una consolidata familiarità con i documenti, unita a una bella confidenza con la norma giuridica quale solo un avvocato esperto può avere, per poter contribuire alla comprensione, la meno scolastica possibile, della giuridicità della storia.

(2010; già pubblicato in Europa Giovani)






Una Riforma d’Italia



In Italia quanti sono considerati bravi cristiani sono in verità “avari, impazienti, ingiusti, sospettosi e maldicenti”; dunque “noi siamo cattivi sudditi, cattivi cittadini e cattivi uomini, perché siamo cattivi cristiani”.
In altre parole: ciò che è/sarebbe possibile per altri popoli cristiani, che cioè uomini illuminati lo siano sviluppando i loro principi di carità e libertà (Montesquieu), per noi è impossibile, a causa della cattiva istruzione religiosa. Laddove però - si badi bene - quest’ultima non è tutto e si deve invece comprendere come sia solo parte del problema generale della istruzione. Istruzione religiosa significa dunque qualcosa che non può essere disgiunto dalla istruzione pubblica, dalla cultura, per ciò che ne è, prima che istruzione religiosa per sé stessa.
Sono, questi, passaggi e concetti di buona incisività, che ritroviamo in uno scritto giuridico del 1767: Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia, autore il semisconosciuto (per i più ma non per la cultura di allora, né per un odierno storico del diritto) Carlo Antonio Pilati - l’“empio” Pilati, secondo una memoria ecclesiastica dell’epoca -, giurista trentino (Tassullo, in val Di Non, 1733-1802); professore a Lipsia, Gottinga, Helmstedt e Trento, interprete, come uomo del fronte italiano che guarda all’Europa, dello Aufklärung, e per noi, adusi a celebrare la nostra cultura giuridica nazionale ma ora bolognese, ora napoletana, una figura credo un po’ inusuale.
La Riforma d’Italia è uno scritto di chiara venatura giurisdizionalista (ricondotto a memoria dalla tesi di M. Santoro, che mi ha risensibilizzato a certi problemi ed alla quale anche qui attingo - dopo che Franco Venturi se ne è occupato nel suo Settecento riformatore) nel quale si denunciavano la cause della cattiva economia e cattiva morale (e - aggiungo - cattiva politica) del popolo italiano, con concrete puntuali proposte di riforma e con uno spirito che tanto sarebbe poi valso l’elogio di Voltaire (il quale ebbe a rimproverare al circolo napoletano di non aver colto la grandezza dell’opera) quanto dovrebbe guadagnare la nostra più seria considerazione, per analizzare il nostro tempo.
Cattivi costumi, dunque, e perniciose leggi, ovvero i mali denunciati possono essere così riassunti: la Chiesa Romana, con la soggezione dei suoi membri non alle leggi civili ma all’ordinamento canonico e con i privilegi e l’incremento delle ricchezze che ne derivavano, minava l’eguaglianza dei cittadini; i reati più o meno gravi commessi dai fedeli potevano essere sanati, onde evitare punizioni nell’aldilà, andando in pellegrinaggio dal santo protettore o facendo dire messe in suo onore; il clero commetteva abuso delle massime del Vangelo; i “santi padri” se è vero che avevano trasmesso ai posteri libri che altrimenti sarebbero andati persi, era altrettanto vero che ne avevano rielaborati alcuni (valga l’esempio degli scritti di sant’Agostino) in modo da favorire il fanatismo; i preti non rispettavano i principi trasmessi dai loro fondatori; l’eccessivo culto dei santi - da essi coltivato e non basato su fonti autentiche ed oggettive - nel garantire una presa costante sul popolo, speculava sull’ignoranza, contribuendo e a diffondere una falsa morale e a rendere le gente superstiziosa e peccatrice e a indurre i fedeli a lasciare in dote al clero beneficenze; essi erano giudicati non nei tribunali ordinari ma in quelli ecclesiastici; ed anche: l’Inquisizione andava soppressa e ne andava cancellato da ogni memoria il nome.
E vi si leggono altre affermazioni, dotate non meno di quelle sul culto dei santi di una penetrante attualità: che in una democrazia tutti i cittadini debbono essere tutelati; che in una repubblica le leggi devono essere buone, altrimenti il popolo non conoscerebbe ciò che è giusto, ecc.
Le riforme, sostiene Pilati, sono innanzitutto un problema di mentalità collettiva e solo in un secondo momento si possono promuovere per decreto. Meglio: esse chiedono una classe politica più colta e volta ad istruire i sudditi in modo illuminato e non oscuro.
Il modello proposto dal giurista trentino, per chi abbia letto Voltaire o Montesquieu, è illuministico e conservatore: ci vuole una nuova classe politica ma a tal fine è essenziale una riforma dell’istruzione; è importante che le maggiori cariche siano ricoperte da chi ha studiato nei “collegi” (e il pensiero va ad un rifondato Conseil du roi: “al fine di affiancare al principe delle persone adeguate e istruite con le quali poter disquisire”), nei quali bisognerà insegnare materie scientifiche; ma anche e allo steso modo: si dovranno riesaminare tutti gli scritti, per averne di veritieri ed obiettivi, eliminando ciò che è fantasticheria e falsificazione. E potrebbe e dovrebbe farsi spazio anche ad una cultura più elevata, attraverso lo studio dei testi latini, greci e di filosofia. Il che appunto consentirebbe alle autorità di educare il popolo, insegnando fatti veritieri e combattendo così superstizione ed ignoranza. Dunque una riforma dall’alto, e non solo dello Stato ma anche della Chiesa, se ci s’intrattiene sulla condizione dei monasteri e sullo strapotere del papa, al quale vengono rivolti fra l’altro appelli e consigli (a far riacquisire alla Chiesa il suo decoro, a rispettare maggiormente i fedeli, oppure a “proteggere l’artigiano, il mercante e l’agricoltore […] per migliorare le condizioni dei cittadini”).
Riforma dall’alto, dunque; ma tant’è. L’importante - a non voler muovere subito dall’argomento “politica” - è fissare il legame fra istruzione ed economia, come tra valori inscindibili di una nazione e l’assunto potrebbe essere il seguente: l’ignoranza e la superstizione popolare (quali qualsiasi “chiesa” intenda coltivare) danneggiano l’economia nazionale, se anche sono come sono favorevoli ad un certo modello di economia; ma quel legame è stata la Chiesa Romana ad averlo istituito oggettivamente, per averlo voluto, così attribuendo alla istruzione quel valore fondante che essa ha.
Pilati, al pari di altri illuministi più celebrati di lui, ha avuto il merito di estrarre questa verità dalle nebbie del fatto, come da una miniera. L’importante, credo, portati alla luce i legami, è non sotterrare nuovamente quanto già dissotterrato dall’intelletto umano, segnatamente in un’epoca come la nostra in cui la tecnologia coltivi l’ignoranza.
La Riforma d’Italia, tradotta in francese, fu messa all’Indice, e, a seguito di processo, l’autore fu espulso dalle terre austriache. Parimenti, sarebbe valso a Pilati un processo in contumacia e al libro la condanna al rogo, il successivo Riflessioni di un italiano sopra la chiesa in generale, sopra il clero sì regolare che secolare, sopra i vescovi ed i pontefici romani e sopra i diritti ecclesiastici dei principi, pubblicato nel 1769.

(2010; già pubblicato in Europa Giovani)







Diritto e morale in un libro-epistolario dell’ottocento



Pasquale Stanislao Mancini
Se è vero che chi offende il bene giuridico offende anche il bene morale, non per questo è detto che il diritto - che ha il suo fondamento nella parte sensibile della personalità umana e in generale nella utilità - debba essere determinato dalla morale.
Non per questo, e in considerazione del fatto che di fronte alla legge morale nessuna condotta è impeccabile (“anche il non accompagnar sempre le buone azioni con fine disinteressato, sarebbe […] reato”: p. 102), la legge del taglione ovverosia della pena eguale e contraria al delitto, che pretende di ripristinare - per il principio il bene deve riscuoter bene ed il male deve riscuoter male - l’ordine violato, è una legge giusta, e parimenti invece le pene non debbono distruggere, contrastando l’uso della ragione, la personalità umana; ma possono e debbono essere in proporzione del delitto.
Ovvero: i beni relativi e sensibili possono semplicemente manifestare il bene assoluto (p. 133), “in quanto sieno l’effetto dell’opera di Dio, o della retta ragione umana, rivolta ovvero libera di rivolgersi alla partecipazione di tal bene” (p. 133), ché quell’opera ha resi compresenti nell’uomo - nella personalità umana, che dunque si presenta ad essi superiore - il bene morale e quello sensibile (p. 137); ma i suddetti beni, estranei al dominio della morale, né sono il bene assoluto né lo contengono (p. 138).
Dunque la concezione del diritto penale è innervata in quella del rapporto fra diritto e morale, l’importanza dell’uno si confonde con l’importanza dell’altro e il rischio è che il dominio della morale sul diritto renda il sistema delle pene inumano. Al che appunto si tratta, per liberare quanto più possibile l’uno dall’altra - ma eo ipso il diritto dalla religione e dall’assolutismo giuridico -, di insistere sul valore meramente sensibile del diritto, svuotandolo di ogni elevatezza morale.
Ed inoltre, a voler rimarcare il ruolo centrale della personalità umana e quasi a trarne un corollario, è da dire che il diritto non ha la sua fonte nella legge ma ad essa preesiste avendo fondamento nella natura dell’uomo.
Sono questi gli assunti di filosofia giuridica che emergono in modo conclusivo da uno scambio  epistolare (Intorno alla filosofia del dritto e singolarmente intorno alle origini del dritto di punire - cui si riferiscono le pagine citate) fra due noti personaggi del nostro Risorgimento nazionale, Pasquale Stanislao Mancini (al quale ho la pretesa di attribuire le proposizioni iniziali), docente di diritto internazionale - della cui prima cattedra in Italia egli fu titolare - e ministro della istruzione nel governo Rattazzi e Terenzio Mamiani della Rovere, che fu anch'egli ministro dell’istruzione ma nel periodo preunitario e con Cavour, poi senatore del Regno (nonché cugino - non è mai male saperlo - di Giacomo Leopardi).
Terenzio Mamiani
Le Lettere, raccolte in volumetto e pubblicate a Napoli nel 1841, non possono essere considerate un testo secondario ma un documento significativo dello stato ed evoluzione della dottrina giuridica ottocentesca con riguardo alle questioni: del rapporto fra diritto e morale e del fondamento del ius puniendi e della misura delle pene, nonché dei principali istituti del diritto penale, sostanziale e di rito.
Mamiani nel suo pensiero tende a mantenere ben vicine la legge divina a quella umana: “È da pensare - egli scrive - che debito permanente della convivenza umana è di effettuare, nell’ordine secondario ed imperfetto in cui vive, le condizioni dell’ordine superiore assoluto (come quelle che sono l'essenza stessa del bene), emendando quanto può il meglio, e combattendo gli accidenti e le imperfezioni che indugiano e viziano, per così dire, l'adempimento della legge suprema. Imperocchè gli uomini, in virtù del libero arbitrio, vengono fatti capaci, conformandosi o no all'ordine, di perturbare ovvero di aiutare la massima partecipazione degli enti al bene assoluto, nel che appunto consiste il più alto e glorioso  titolo dell'umanità, vale a dire, nell'essere costituiti veraci e liberi imitatori di Dio. Nè perchè la sapienza e la  efficienza infinita della legge eterna non possono rimanere frustrate, debbono gli uomini sottrarsi a questa obbligazione perpetua di attuare, quanto è da loro; l’ordine supremo assoluto nel nostro relativo ed inferiore. Così parimenti, se niuna malvagità e niun errore umano valgono ad impedire l’effettuazione successiva del corso ideale delle nazioni preconcetto da Dio, incombe nondimeno agli uomini l’aiutare per comune sforzo l'avviamento al bene di tutte le cose civili, le quali benchè non possano come acque di fiume pieno e gagliardo, venire impedite di correre al termine loro, possono tutta volta avere corso più o meno diretto, e più o meno facile e pronto. Adunque si fa debito alla società umana di avverare in terra la legge eterna dell'equa retribuzione del male pel male, che è la sanzione medesima della legge, la sua efficacia e la sua ragione, dovendo il male essere male e non bene, e produrre argine a sè medesimo e impedimento al moltiplicare; onde con sottile concetto sentenziava il vostro Genovesi, ogni legge essere legge penale.” (ivi, pp. 32-34).
Secondo Mamiani la pena, comminata in ossequio alla legge morale, vale a reintegrare l’ordine violato; secondo Mancini invece, non essendo tale ordine reintegrabile, la pena vale a prevenire crimini futuri. Di fronte, nel rapporto fra morale e diritto, sono il Bene e la sensibilità, il bene morale e il bene sensibile, il primo che ha sede nell’autorità divina ed è incomunicabile, la seconda in quella umana, il primo che si fonda sull’Essere infinito, la seconda che deve e può fondarsi sulla Ragione.
Secondo Mamiani, che la regola giuridica debba trarre - come per lui deve - vigore dalla regola morale comporta fra l’altro che l’autorità ha il suo fondamento nella divinità (“diritto naturale d’imperio”, nella teorizzazione menzionata del Gravina); in Mancini per contro non qualsiasi autorità attinge la propria forza alla legge morale, che se applicata come fosse giuridica, cioè con la “forza” e il “costringimento”, può condurre a risultati aberranti (“… far riaccendere i roghi degli eretici; rinnovar le carneficine de’ secoli di superstizione”: ivi, p. 102); e piuttosto bisogna distinguere così la norma giuridica dal comando, che non ne costituisce l'essenza, come il gius che è l’interesse personale dalla morale anche personale, come il governo di fatto dal governo legittimo.
Scrive fra l'altro Mancini: “In somma io veggo un abisso immensurabile nel passaggio dall’autorità assoluta di Dio, legislatore eterno, buono ed infinito, a quella relativa peccabile e finita del legislatore umano. L'autorità di Dio è tale, che non può risiedere in altro soggetto, fuorchè nell'Essere Infinito; e però è incomunicabile. Negli uomini poi non può concepirsi altra autorità che quella della ragione, e questa è la stessa in tutti gli uomini. Ben è vero che alcuni tra essi primeggiano per virtù e per prudenza civile: ma con buona pace del Gravina, io non so come ammettere in loro un diritto naturale d'imperio, il che distruggerebbe ogni ordine ed ogni forma di Dritto politico, introdurrebbe nella società la più deplorabile anarchia, e aprirebbe la via a legittimare un diritto naturale di schiavitù fra gli uomini, come già pretese Aristotile”. (ivi, p. 96)
Colpisce in generale il garbo, con cui Mancini sostiene il ruolo della ragione e così della libertà nel diritto e quindi l’autonomia di questo, ed emerge nelle sue argomentazioni, nel confronto con quelle del Mamiani, la difesa di un principio che mi ostino a dire di civiltà giuridica di contro agli errori e pericoli che una qualsiasi concezione che voglia il diritto assoggettato alla morale comporta, per la stessa persona umana.

Vi sono poi alcuni dati che forse possono aiutarci a capire: che Mamiani fu ministro dell’interno dello Stato Pontificio ed ebbe a dichiarare la sua contrarietà alla Repubblica Romana può spiegare il suo pensiero. È lecito così leggere il testo sotto un duplice profilo: e come testimonianza del contrasto fra una concezione rigidamente moralistica e comunque legata al passato ed una laica e progressiva del diritto e in questo come tentativo, in detto contrasto, di emancipare il diritto dalla morale. Tutto ciò, direi, in funzione di una idea tanto parziale quanto significativa di quella che poté essere la coscienza giuridica nazionale. Della quale è importante avere presente la costanza e la continuità, e per meglio dire la reiterabilità, nel senso che oggi ogni questione legislativa e di applicazione della legge che tocchi aspetti morali ci ributta indirettamente su quella questione per come essa è stata affrontata nel volumetto ottocentesco. 

(2010; già pubblicato in Europa Giovani)

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