I “Mille”
Giuseppe Cesare Abba, scrittore ottocentesco e meglio
risorgimentale, insegnante, infine senatore del Regno, avendovi preso parte
quale patriota, ha posto la propria impronta letteraria (in Da Quarto al Volturno) sulla famosa
impresa dei Mille, che nella sua prima fase salpò dalla costa ligure e giunse a
Marsala nel maggio del 1860.
Lo ha fatto da cronista appassionato, romantico, con una
sequenza diaristica di brani alcuni dei quali di radicale intensità, come
quello del pastore del feudo di Rampagallo che dopo avere atteso per via il
passaggio dei volontari prima della battaglia di Calatafimi, ad essi affidò -
non prima di avere esortato il comandante Carini a puntare decisamente su
Palermo -, allontanandolo da sé e spingendolo come verso un precettore, il
figlio quindicenne, prendendo poi in lacrime la strada di ritorno verso la sua
povera abitazione. Un gesto forse sorprendente perché umano, assai umano; e
direi singolarmente razionale, morale, prima ancora che storico.
Quella eroica, spregiudicata impresa, che consisté, per
chi vi prese parte, anche in un immergersi nel quotidiano e nel sociale del
profondo Sud, fu vissuta dai suoi artefici nella luce di Curtatone e Montanara,
di Sapri, del fantasma di Pisacane: vi sono stati insomma giovani, nella nostra
storia, che per amore della libertà, nell’idoleggiamento di Garibaldi (il
“Dittatore”, il “Generale”, il “Washington d’Italia”, insomma essenzialmente un
mito) e nell’ammirazione per i Bixio, i Taddei o altri comandanti, furono
capaci di non distinguere - forse perché i giovani come si usa dire si credono
immortali - fra la vita e la morte.
Ma dissolte per così dire le nebbie letterarie, pur
preziose per il contributo testimoniale, e tolte le passioni, resta il fatto,
per ciò che dalla narrazione emerge, che a dare primo e decisivo impulso a quell’impresa
furono soprattutto patrioti del Nord, provenienti da Lombardia, Piemonte e
Liguria (ad esempio i “carabinieri genovesi”): alla partenza da Quarto i
siciliani, gruppo di valorosi, si potevano contare in numero non superiore ai
venti.
E fra quei settentrionali molti erano - come definirli
altrimenti? - “teste calde”, entusiasti, giovani folli letterati, combattenti
della Libertà, anche stranieri, dei quali taluni si ritrovavano avendo già
combattuto e in Italia e in Europa laddove vi fossero stati - pensiero e azione
- moti indipendentisti; e vi era anche chi aveva imbracciato le armi nella
guerra di Crimea, la famosa chance di
Cavour, assai significativa per la nostra gloria politica nazionale. Una
ventata insomma di romanticismo, ovverosia di cultura continentale, il cui
orientamento politico era per il nazionalismo.
Per contro, l’adesione fattiva di quanti, a migliaia e
forse soprattutto fra i siciliani (ma l’attenzione dello scrittore va
soprattutto alla Sicilia), si unirono ai garibaldini va ricollegata
all’accoglienza riservata a quei patrioti dalle popolazioni di quelle terre
(ben diversa da luogo a luogo, nella rilevazione dell’autore): sentimenti umani
comuni e condivisibili ve ne furono come ve ne saranno sempre; ma
sostanzialmente è giocoforza considerare una partecipazione che per non esserlo
stata non sarebbe potuta essere superiore a un immediato e generico anelito di
liberazione e/o di risentimento nei confronti dei Borbone (ma siamo ancora per
lo più in Sicilia), che qua e là covava presso di esse.
Ne emerge allora forse un patriottismo culturalmente non
meridionale? Che non è sic et simpliciter
uno scetticismo caratterialmente meridionale? Presumibilmente sì, potrebbe
sembrare per una fatale quasi-estraneità delle Due Sicilie alla temperie
culturale europea, ovvero a quel romanticismo nazionalista di cui si diceva.
Quale allora la conseguenza? Sostanzialmente che nessuno
(come chiaramente espresso da un prete con cui l’autore aveva stretto amicizia)
sarebbe riuscito nell’impresa di far sì che il Sud formasse con le altre
regioni della penisola un unico popolo; al massimo si sarebbe realizzata una
unificazione territoriale.
Una previsione, curiosamente allineabile con il
successivo giudizio del principe di Metternich (sull’Italia, quale “pura
espressione geografica”); ma un messaggio che comunque bisogna saper ponderare,
magari confrontandolo con tante altre prove storiche, che non so dire se
deponga più a sfavore o a favore del nostro Mezzogiorno. Laddove certo alle
difficili condizioni di vita di tanta gente si associava una forte cultura
feudale (e la “resistenza”, così da taluni detta, che sarebbe stata messa in
atto dal cosiddetto “brigantaggio”, lo sta a dimostrare). Altra è insomma la
cultura della terra e/o del feudo, altra quella - mettiamo - della forma-Stato
e meglio dello Stato nazionale; ma anche qui credo sia giusto lasciare spazio
agli esperti: forse la diversità culturale né condanna né assolve, restando la
certezza però che pur non essendo partiti i Mille da Marsala, il Meridione
diede, per quanto la storia ad esso concesse, il suo contributo di uomini e di
sangue.
E dunque: sulla questione della partecipazione
(personale, di fatto ma in questo generalmente culturale) della gente del Sud a
quell’impresa lascerei decidere a chi voglia accostarsi alle pagine di Abba con
animo più riflessivo, insomma lascerei ad altri la querelle; anche in considerazione del fatto che se i sentimenti e i
risentimenti degli “umili” nei confronti del potere costituito e della
ricchezza accumulata, ovvero - mettiamo - dei braccianti delle campagne verso i
“gentiluomini”, paiono trascendentali per dire sempre contemporanei, ciò non
nasconde che troppo o troppo diretto dové essere l’impatto dell’idea di nazione
sui rapporti di classe nella economia reale del Sud.
Ogni sostanziale atto di diffidenza o d’incomprensione
del contadino meridionale (si pensi all’episodio dei fratelli Bandiera) ma non
solo, verso qualsiasi iniziativa patriottica era anche per così dire
culturalmente “strutturato”, era razionalità storica: la cultura era ed è
cultura, proprio nelle sue diversità; i bisogni che cosa sono se non gli eterni
bisogni? E quei patrioti - che facevano tutt’altro che suggere “il sangue ai
bambini” e molti dei quali Abba ritrae singolarmente quasi a comporne una
piccola galleria - non si sarebbero potuti mai identificare se non idealmente (e senza avere occhi per la
natura e la storia delle classi sociali) con la realizzazione del risorgimento;
che alla fine fu deciso dalla politica e dalla ragion di Stato (i governi in
realtà - si pensi al Piemonte e all’Inghilterra - già avevano promosso e
favorito l’impresa dei Mille, fra i quali vi erano - infiltrati - tiratori
scelti), molto dalle leggi, dalle armi (le più moderne, di cui i garibaldini
furono puntualmente riforniti) e dal denaro, italo-piemontesi ma non solo;
laddove ben più dell’umano dové accadere in danno del Sud, che fu per lo più
annesso, fatto colonia, per lo più come si suole dire “piemontesizzato”.
Al che l’ulteriore domanda che si pone o la stessa
domanda che si ripropone, è la seguente: potranno mai quei patrioti e a fortiori coloro che Abba ricorda come
i “picciotti di Bixio”, “coonestare” ai
nostri occhi l’opera di saccheggio di risorse (per realizzare un pareggio di
bilancio) e di normalizzazione
successivamente attuate del governo italo-piemontese? E meglio: che cosa e chi
essi rappresentavano veramente, nello sprezzo del pericolo e della morte, nelle
res gestae per ricordarci dei Latini,
in considerazione del fatto, non irrilevante, che essi erano appunto folli
della libertà e “teste calde”?
E anche: quale sarebbe potuto essere il governo più
naturale o confacente per i popoli del Sud e meglio il più convincente Stato di
diritto: quello borbonico (un Regno dotato di una eccellente classe
intellettuale e che prima dell’unificazione nazionale fu quotato politicamente
e tecnologicamente fra i primi cinque d’Europa) o quello piemontese-italiano? O
quale altro? o che non vene fosse alcuno, di Stato di diritto?
Resta comunque, per le necessarie riflessioni storiche
postume (anche se del senno di poi - come ricordava Croce - “son piene le
fosse”), la testimonianza, mossa dalla vocazione letteraria, che poiché
incuriosisce di più è forse più di una semplice prova dei fatti. È il famoso “spaccato”
d’epoca, quella storia che ci rende sempre ignoranti, costituita da persone
viventi, quotidianità, personalità e umanità dei fatti; che induce a
riflettere, proprio nel vigore ed efficacia della scrittura, sui limiti insiti
in qualsiasi immagine troppo lineare, semplificata, della storia, alla quale
l’uomo osservato e descritto per sua radice e verità appare però irriducibile.
Leggere o rileggere, in questo caso singolare ma anche in
altri, è come dare ragione al ritorno in questa epoca - pur insidiosamente
mediatica - a una preparazione storica basata sul documento o sui diari e le
testimonianze dirette, laddove se s’indulge al fatto, è vero che il soggetto
descrivendo il fatto un po’ si riprende e anche restituisce ad altri aiutandoli
quei diritti che lo Spirito della
storia sembrava avergli già sottratto.
(2010; già
pubblicato in Europa Giovani)
Famiglia e rivoluzione
Il
diritto è - anche - il pensiero dell’uomo storico, sia sotto il profilo
soggettivo (di colui cioè che pensa), sia sotto quello oggettivo (ovvero di ciò
che è pensato). O anche: la norma, in quanto posta, dice dell’uomo, che essa
sottintende.
È
che per comprendere la storia come storia di un popolo, o di una terra, bisogna
toccare con mano le carte, compenetrarsi nella documentazione e, nello
specifico, nella sua documentazione giuridica; ovvero: nella
positività della disposizione normativa bisogna saper riconoscere
compenetrandoli il regolamento e il documento.
Conosciamo
tutti la Storia
del diritto quale disciplina, da cui emergeva nei nostri studi e letture più
o meno giovanili la verità: che il diritto è storia; ma in certo senso in
questo si annidava un difetto di comprensione, o di sostanza, prestandosi
quella disciplina a un ruolo liberatorio e come di compensazione, ma di ordine
nemmeno pari, rispetto al diritto positivo. Ma la norma non è dogma se essa è
posta, se ad essa si addicono lo spazio del territorio e il tempo. Quindi dove
cresca la documentazione storiografica (lo stile dei cronisti, che precedettero
per diversità gli storiografi, illuministi e romantici) e in questo quella
giuridica, là si può pensare il passato come fosse il presente e viceversa,
riunendo le due cose in una.
Non
è dunque solamente che per comprendere un istituto se ne debbano indagare
origine e sviluppi, il che è peraltro atto dovuto o comunque scolastico; ma è
che quella distinzione fra diritto positivo e storia giuridica non è detto che
debba costituire un freno, o una limitazione, sul piano del pensiero.
È
così che le norme e i fatti documentati di un popolo - ma quelle appunto come
fatti documentati - sono la sua storia; è così - mettiamo - che la storia dei
tedeschi o dei francesi è la storia del loro diritto civile e anche più in
generale: un popolo è anche questo o quel popolo, pensato come, e meglio
pensando il, suo diritto civile. Laddove forse nulla è come il diritto civile,
che può essere elevato quasi a categoria. Nulla come il diritto civile, per
quanto si può trarre dai legami con la storia romana antica coltivati e
promossi dai giuristi successivi di ogni epoca, induce il pensiero a porsi su
questo piano, storico-giuridico.
In
certo senso è vero: se tutto cresce sul terreno della documentazione, allora
tutto cresce o dovrebbe crescere sul terreno del pensiero: il giardino è sempre
quello; se non fosse anche che la documentazione rischia di andare ben oltre e
di non essere sufficientemente pensata. Ovvero, come giudicava Hegel ponendosi
in relazione con il suo tempo, a un certo punto il pensiero si trova di fronte
a un ammasso di materiale empirico, che non ha pensiero.
Interpretativamente,
bisogna dunque sì riunire “americani e francesi”, come già avvenne all’epoca di
Lafayette, per dire che la documentazione, al pari di proclamazioni di diritti
e libertà (legate all’epoca ad una insolita circolazione d’idee e principi) è
qualcosa che riunisce, secondo la universalità, e vale a formare le coscienze;
ma nello stesso tempo bisogna pensare di più, e pensarsi relativamente a quel
materiale, in modo giuridico. E l’ideale di ogni popolo, per dire certo di ogni
cittadino, di ogni persona, dovrebbe consistere nel sapersi ben calare nel suo essere
(per ciò che si è stati) giuridicamente; magari in alternativa al senso
comune o alla tavola dei valori, promossa dall’Azienda pubblicitaria, dal tam-tam,
ovvero dai media.
Sono
questi - credo - alcuni fra gli insegnamenti che la rivoluzione francese,
potendo sempre incuriosire e appassionare a causa della sua valenza simbolica,
di certa quale sua prossimità al nostro sentire, della intensità e velocità dei
fatti che la contraddistinsero e della densità documentale che la riguarda,
riserva ancora alla pur stanca cultura occidentale, che è in noi.
In
una parola, per il nostro tema: i fatti che seguirono l’‘89 sono tuttora di per
sé un invito a ritenere che il diritto normativo, poiché esso dové essere
rivoluzionato e “rivoluzionario” (rispetto al droit coutumier; ma si
trattava in questo anche di logica metodica e di un riconnettersi, come fecero
i tanti giuristi francesi, al Corpus Iuris Civilis, che lo si ritenesse
diritto naturale applicato al diritto civile o modello di razionalità o
meritevole solo di una comparazione), fosse per quel dover essere storia
concreta, e quindi a fortiori chiave di lettura storica.
Quei
fatti dimostrarono insomma, in relazione a spazio e tempo, che diritto e storia
possono formare oggetto di una sola lettura; che essi appartengono alla
medesima possibilità di spiegazione, potendo sempre la sua storia dare
profondità di concetto e critica a ciò che nella sua normatività renderebbe
univoca l’esegesi.
Di Rivoluzione
francese a ben riflettere - e non è questione schematica o letteraria di
Restaurazione - se ne è fatta
meno di quanto non si creda, anche se certe ideazioni pratiche - come la
ghigliottina, le prefetture, i numeri civici delle strade ecc. - una volta
installate prescindono dal regime che le ha introdotte; ovvero la storia di
quella rivoluzione non è l’idea-immagine di ciò che dev’essere una ribellione o
una insurrezione popolare, o una rivoluzione basata sul “giacobinismo”
(Gramsci); non è un quid lineare, una icona o un simbolo, sovrapponibile
alla storia stessa e chiede invece, per alimentare il pensiero storico, di
essere riesaminata e documentata. Chiede, in una maniera più equilibrata, di
essere vista sotto il profilo sì delle sue déclarations, delle sue
costituzioni, ma del suo diritto civile.
Già,
si diceva: la storia di un popolo è anche necessariamente la storia del suo
diritto civile, che riguarda direttamente la vita della gente, che si esprime
in qualcosa che la regola e con essa interagisce; e c’è un libro recente (I
giacobini, l’imperatore e il divorzio, autore P. Furio Zelaschi) che depone
in tal senso, intrattenendosi in modo sobrio e puntuale sulla evoluzione
normativa del diritto di famiglia con riferimento ai fatti che scandirono il
tempo della Rivoluzione dalla sua fase più propriamente “rivoluzionaria”
all’impero e dunque all’epoca napoleonica.
Il
bisogno di un code civil, per dire di una unificazione del diritto
nazionale, era in certo modo presente già da tempo, nella mente dei francesi,
se si considerano le elaborazioni dottrinali (ed è istruttivo a tale proposito
il libro di A-J Arnaud, Napoli, 2005) dei Domat, dei Bourjon e dei Pothier, o i
progetti privati, mettiamo di un Olivier. Ed era nei proponimenti
dell’Assemblea nazionale, definitasi costituente, sin dal 1790, di abolire la
congerie di consuetudini locali e dare vita a un diritto scritto nazionale che
ponesse fine al feudalesimo, all’Ancien Régime e al primato della Chiesa
nelle cose temporali. Anche l’opinione pubblica sembrava matura, per quanto
risulta dai molti pamphlets sull’argomento che circolavano in quel
periodo, ed esercitava pressioni (così fece nel 1791 il Corpo municipale di
Parigi nei confronti di quell’Assemblea) per una riforma in senso civile del
diritto matrimoniale. Ma considerato il momento e certi tentativi fallimentari
di quell’anno, ciò che fu impossibile fare con un codice lo si fece per legge.
Fu
così in forza di un atto del 20 settembre 1792 - integrato subito da un decreto
in pari data sulle cause e da ulteriori interventi normativi quali quello del
23 aprile 1794 - che s’introdusse in Francia la riforma dello stato civile,
con i suoi ufficiali e registri - municipali e non già parrocchiali -, i suoi
estratti, dotati del valore di prova legale e i suoi moduli bene organizzati, e
che fu disciplinato il matrimonio civile e introdotto il divorzio; l’una cosa
da mettersi in profonda connessione con l’altra, laddove alla nascita di una
moderna burocrazia amministrativa faceva riscontro (e molto sembrava davvero
essere stato predefinito da Voltaire nel suo Dictionnaire: il vinculum
coniugii è un “contratto del diritto delle genti di cui i cattolici romani
hanno fatto un sacramento”) la normativizzazione del matrimonio-contratto
- già peraltro riconosciuta nella costituzione del 1791, all’art. 7 - il cui
fondamento era nel consenso e cioè nella volontà dei nubendi, nell’autonomia
della volontà; passando in second’ordine la pronuncia e benedizione
dell’officiante religioso (il sempre meno amato prete “giurato”), e venendo per
conseguenza minimizzato l’istituto della separazione (séparation des corps),
che era valso alla Chiesa il monopolio degli annullamenti.
Nella
voluntas legis, il rapporto fra i due istituti - matrimonio e divorzio -
doveva essere di simmetria: se il matrimonio è basato sul consenso, allora,
venendo a cessare tale consenso, si ha lo scioglimento del vincolo; dunque il
divorzio non era semplicemente ammissibile ma in certo senso era connaturato
col matrimonio. Ma sul piano pratico vennero a pesare soprattutto le cause, i motifs
déterminés, ed essendo previsto anche un divorce facil o che
bastasse, per porre fine al legame coniugale, la “pura e semplice dichiarazione
unilaterale di incompatibilità di carattere”, tutto fece sì che il divorzio nei
fatti prevalesse sul matrimonio stesso e che esso prendesse rapidamente piede,
con casistiche e frequenze che variavano di classe in classe, di regione in
regione.
Epperò,
come i numeri dimostrano, se tutto ciò si rivelò congeniale al periodo più
“rivoluzionario” e alle condizioni personali e patrimoniali delle famiglie sino
ai giorni del Terrore, la cosa era destinata a non durare, una volta che
fossero cambiate in nome di una maggiore stabilità dei rapporti le condizioni
politiche del paese.
Quel
racconto, che inizia con la legge e decreto del 20 settembre 1792, passa
attraverso il 18 brumaio, il consolato e l’impero e si conclude con il Codice
civile dei francesi (1804), poi definito Code Napoléon, che è appunto
quell’opera che la
Costituente non era riuscita a portare a compimento. E qui fu
chiaro il riflusso, dovuto all’intento dell’imperatore di rendere più compatta
e solida la nazione, nei suoi tessuti familiare e patrimoniale: dal testo del code
civil emerge una famiglia più al centro delle attenzioni giuridiche, più
d’impronta patriarcale; in esso si trova accentuato quel “maschilismo” che
peraltro mai aveva abbandonato il legislatore francese; vi fu un minore
riconoscimento per i diritti dei figli naturali e furono posti
all’ottenimento del divorzio una serie di freni; se emerse anche la chiara
volontà di Napoleone (che comunque doveva farlo e divorziò) di fare salvo il
principio del matrimonio-contratto e della laicità e di non riconsegnare nulla
del vecchio potere in materia alla Chiesa - come dimostra lo spirito del
concordato del 1801, con il quale d’imperio il clero non cessò di essere
sottoposto all’autorità dello Stato -, fu chiaro come la famiglia dovesse
essere restaurata, al di là della simmetria del consenso-contratto.
Qualcosa
dunque veniva cambiato e qualcosa conservato, cercando di rendere compatibili
l’individuo, il moderno soggetto giuridico, e la famiglia. Ed anche qui è vero:
il progresso nonostante tutto era evidente e non bisogna pretendere in generale
che il percorso evolutivo di un istituto sia unilineare e indisturbato, ed
invece ci si deve rendere conto di come esso proceda per avanzamenti,
adattamenti, ridimensionamenti e conversioni. Doveva essere questo l’andamento
della storia, per ciò che se ne sa: in séguito la Restaurazione
avrebbe ripristinato, a favore della Chiesa, il ripristinabile; ma l’impronta
sarebbe rimasta.
Per
il resto, Napoleone aveva dichiarato espressamente di essere l’erede della Rivoluzione
francese - non si trattava dunque di una conclusione filosofica hegeliana -; ma
evidentemente non era semplicemente Napoleone da tenere sott’occhio (e peraltro
le biografie celebrative del personaggio certo non mancano) ed invece per ciò
che qui rileva la gente di Francia, il popolo di quella nazione, le famiglie,
donne, uomini e bambini, nonché non ultimo il legislatore, per come essi
vivevano il loro diritto: le norme vanno lette senz’altro in relazione a
tempo-e-spazio, che le contraddistinguono, ai relativi dati e comunque non solo
in relazione alla fonte, che non va discussa.
Ecco:
forse un titolo alternativo per quel libro del 2009 - ma altri ne dovranno
venire - che mi ha fornito più di uno spunto prezioso, potrebbe essere qualcosa
come: “Breve storia della gente di Francia, letta attraverso i fatti e la
legislazione matrimoniale, rivoluzionaria e napoleonica”. Serviva e serve in
certo modo una robusta sapienza storica, una consolidata familiarità con i
documenti, unita a una bella confidenza con la norma giuridica quale solo un
avvocato esperto può avere, per poter contribuire alla comprensione, la meno
scolastica possibile, della giuridicità della storia.
(2010; già pubblicato in Europa Giovani)
Una Riforma d’Italia
In
Italia quanti sono considerati bravi cristiani sono in verità “avari,
impazienti, ingiusti, sospettosi e maldicenti”; dunque “noi siamo cattivi
sudditi, cattivi cittadini e cattivi uomini, perché siamo cattivi cristiani”.
In
altre parole: ciò che è/sarebbe possibile per altri popoli cristiani, che cioè
uomini illuminati lo siano sviluppando i loro principi di carità e libertà
(Montesquieu), per noi è impossibile, a causa della cattiva istruzione
religiosa. Laddove però - si badi bene - quest’ultima non è tutto e si deve invece
comprendere come sia solo parte del problema generale della istruzione.
Istruzione religiosa significa dunque qualcosa che non può essere disgiunto
dalla istruzione pubblica, dalla cultura, per ciò che ne è, prima che
istruzione religiosa per sé stessa.
Sono, questi, passaggi e
concetti di buona incisività, che ritroviamo in uno scritto giuridico del 1767:
Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi
e le più perniciose leggi d’Italia, autore il semisconosciuto (per i più ma
non per la cultura di allora, né per un odierno storico del diritto) Carlo
Antonio Pilati - l’“empio” Pilati, secondo una memoria ecclesiastica dell’epoca
-, giurista trentino (Tassullo, in val Di Non, 1733-1802); professore a Lipsia,
Gottinga, Helmstedt e Trento, interprete, come uomo del fronte italiano che
guarda all’Europa, dello Aufklärung, e per noi, adusi a celebrare la
nostra cultura giuridica nazionale ma ora bolognese, ora napoletana, una figura
credo un po’ inusuale.
Cattivi
costumi, dunque, e perniciose leggi, ovvero i mali denunciati possono essere
così riassunti: la
Chiesa Romana , con la soggezione dei suoi membri non alle
leggi civili ma all’ordinamento canonico e con i privilegi e l’incremento delle
ricchezze che ne derivavano, minava l’eguaglianza dei cittadini; i reati più o
meno gravi commessi dai fedeli potevano essere sanati, onde evitare punizioni
nell’aldilà, andando in pellegrinaggio dal santo protettore o facendo dire
messe in suo onore; il clero commetteva abuso delle massime del Vangelo; i
“santi padri” se è vero che avevano trasmesso ai posteri libri che altrimenti
sarebbero andati persi, era altrettanto vero che ne avevano rielaborati alcuni
(valga l’esempio degli scritti di sant’Agostino) in modo da favorire il
fanatismo; i preti non rispettavano i principi trasmessi dai loro fondatori; l’eccessivo
culto dei santi - da essi coltivato e non basato su fonti autentiche ed
oggettive - nel garantire una presa costante sul popolo, speculava
sull’ignoranza, contribuendo e a diffondere una falsa morale e a rendere le
gente superstiziosa e peccatrice e a indurre i fedeli a lasciare in dote al
clero beneficenze; essi erano giudicati non nei tribunali ordinari ma in quelli
ecclesiastici; ed anche: l’Inquisizione andava soppressa e ne andava cancellato
da ogni memoria il nome.
E vi
si leggono altre affermazioni, dotate non meno di quelle sul culto dei santi di
una penetrante attualità: che in una democrazia tutti i cittadini debbono
essere tutelati; che in una repubblica le leggi devono essere buone, altrimenti
il popolo non conoscerebbe ciò che è giusto, ecc.
Le
riforme, sostiene Pilati, sono innanzitutto un problema di mentalità collettiva
e solo in un secondo momento si possono promuovere per decreto. Meglio: esse
chiedono una classe politica più colta e volta ad istruire i sudditi in modo
illuminato e non oscuro.
Il
modello proposto dal giurista trentino, per chi abbia letto Voltaire o
Montesquieu, è illuministico e conservatore: ci vuole una nuova classe politica
ma a tal fine è essenziale una riforma dell’istruzione; è importante che le
maggiori cariche siano ricoperte da chi ha studiato nei “collegi” (e il
pensiero va ad un rifondato Conseil du roi: “al fine di affiancare al
principe delle persone adeguate e istruite con le quali poter disquisire”), nei
quali bisognerà insegnare materie scientifiche; ma anche e allo steso
modo: si dovranno riesaminare tutti gli scritti, per averne di veritieri ed
obiettivi, eliminando ciò che è fantasticheria e falsificazione. E potrebbe e
dovrebbe farsi spazio anche ad una cultura più elevata, attraverso lo studio dei
testi latini, greci e di filosofia. Il che appunto consentirebbe alle autorità
di educare il popolo, insegnando fatti veritieri e combattendo così
superstizione ed ignoranza. Dunque una riforma dall’alto, e non solo dello
Stato ma anche della Chiesa, se ci s’intrattiene sulla condizione dei monasteri
e sullo strapotere del papa, al quale vengono rivolti fra l’altro appelli e
consigli (a far riacquisire alla Chiesa il suo decoro, a rispettare
maggiormente i fedeli, oppure a “proteggere l’artigiano, il mercante e
l’agricoltore […] per migliorare le condizioni dei cittadini”).
Riforma
dall’alto, dunque; ma tant’è. L’importante - a non voler muovere subito
dall’argomento “politica” - è fissare il legame fra istruzione ed
economia, come tra valori inscindibili di una nazione e l’assunto
potrebbe essere il seguente: l’ignoranza e la superstizione popolare (quali
qualsiasi “chiesa” intenda coltivare) danneggiano l’economia nazionale, se
anche sono come sono favorevoli ad un certo modello di economia; ma quel legame
è stata la Chiesa Romana
ad averlo istituito oggettivamente, per averlo voluto, così attribuendo alla
istruzione quel valore fondante che essa ha.
Pilati,
al pari di altri illuministi più celebrati di lui, ha avuto il merito di
estrarre questa verità dalle nebbie del fatto, come da una miniera.
L’importante, credo, portati alla luce i legami, è non sotterrare nuovamente
quanto già dissotterrato dall’intelletto umano, segnatamente in un’epoca come
la nostra in cui la tecnologia coltivi l’ignoranza.
(2010; già pubblicato in Europa Giovani)
Diritto e morale in un libro-epistolario dell’ottocento
Pasquale Stanislao Mancini |
Se è
vero che chi offende il bene giuridico offende anche il bene morale,
non per questo è detto che il diritto - che ha il suo fondamento nella parte
sensibile della personalità umana e in generale nella utilità - debba
essere determinato dalla morale.
Non
per questo, e in considerazione del fatto che di fronte alla legge morale
nessuna condotta è impeccabile (“anche il non accompagnar sempre le buone
azioni con fine disinteressato, sarebbe […] reato”: p. 102), la legge
del taglione ovverosia della pena eguale e contraria al delitto, che pretende di
ripristinare - per il principio il bene deve riscuoter bene ed il male deve
riscuoter male - l’ordine violato, è una legge giusta, e parimenti invece
le pene non debbono distruggere, contrastando l’uso della ragione, la
personalità umana; ma possono e debbono essere in proporzione del delitto.
Ovvero:
i beni relativi e sensibili possono semplicemente manifestare il
bene assoluto (p. 133), “in quanto sieno l’effetto dell’opera di Dio, o della
retta ragione umana, rivolta ovvero libera di rivolgersi alla partecipazione
di tal bene” (p. 133), ché quell’opera ha resi compresenti nell’uomo - nella personalità
umana, che dunque si presenta ad essi superiore - il bene morale e quello
sensibile (p. 137); ma i suddetti beni, estranei al dominio della morale, né sono
il bene assoluto né lo contengono (p. 138).
Dunque
la concezione del diritto penale è innervata in quella del rapporto fra diritto
e morale, l’importanza dell’uno si confonde con l’importanza dell’altro e il
rischio è che il dominio della morale sul diritto renda il sistema delle pene
inumano. Al che appunto si tratta, per liberare quanto più possibile l’uno
dall’altra - ma eo ipso il diritto dalla religione e dall’assolutismo
giuridico -, di insistere sul valore meramente sensibile del diritto, svuotandolo
di ogni elevatezza morale.
Ed
inoltre, a voler rimarcare il ruolo centrale della personalità umana e quasi a
trarne un corollario, è da dire che il diritto non ha la sua fonte nella legge
ma ad essa preesiste avendo fondamento nella natura dell’uomo.
Sono
questi gli assunti di filosofia giuridica che emergono in modo conclusivo da
uno scambio epistolare (Intorno alla
filosofia del dritto e singolarmente intorno alle origini del dritto di punire
- cui si riferiscono le pagine citate) fra due noti personaggi del nostro
Risorgimento nazionale, Pasquale Stanislao Mancini (al quale ho la pretesa di
attribuire le proposizioni iniziali), docente di diritto internazionale - della
cui prima cattedra in Italia egli fu titolare - e ministro della istruzione nel
governo Rattazzi e Terenzio Mamiani della Rovere, che fu anch'egli ministro
dell’istruzione ma nel periodo preunitario e con Cavour, poi senatore del Regno
(nonché cugino - non è mai male saperlo - di Giacomo Leopardi).
Terenzio Mamiani |
Le Lettere,
raccolte in volumetto e pubblicate a Napoli nel 1841, non possono essere
considerate un testo secondario ma un documento significativo dello stato ed
evoluzione della dottrina giuridica ottocentesca con riguardo alle questioni:
del rapporto fra diritto e morale e del fondamento del ius puniendi e
della misura delle pene, nonché dei principali istituti del diritto penale,
sostanziale e di rito.
Mamiani
nel suo pensiero tende a mantenere ben vicine la legge divina a quella umana:
“È da pensare - egli scrive - che debito permanente della convivenza umana è di
effettuare, nell’ordine secondario ed imperfetto in cui vive, le condizioni
dell’ordine superiore assoluto (come quelle che sono l'essenza stessa del
bene), emendando quanto può il meglio, e combattendo gli accidenti e le imperfezioni
che indugiano e viziano, per così dire, l'adempimento della legge suprema.
Imperocchè gli uomini, in virtù del libero arbitrio, vengono fatti capaci,
conformandosi o no all'ordine, di perturbare ovvero di aiutare la massima
partecipazione degli enti al bene assoluto, nel che appunto consiste il più
alto e glorioso titolo dell'umanità,
vale a dire, nell'essere costituiti veraci e liberi imitatori di Dio. Nè perchè
la sapienza e la efficienza infinita
della legge eterna non possono rimanere frustrate, debbono gli uomini sottrarsi
a questa obbligazione perpetua di attuare, quanto è da loro; l’ordine supremo
assoluto nel nostro relativo ed inferiore. Così parimenti, se niuna malvagità e
niun errore umano valgono ad impedire l’effettuazione successiva del corso
ideale delle nazioni preconcetto da Dio, incombe nondimeno agli uomini
l’aiutare per comune sforzo l'avviamento al bene di tutte le cose civili, le
quali benchè non possano come acque di fiume pieno e gagliardo, venire impedite
di correre al termine loro, possono tutta volta avere corso più o meno diretto,
e più o meno facile e pronto. Adunque si fa debito alla società umana di
avverare in terra la legge eterna dell'equa retribuzione del male pel male, che
è la sanzione medesima della legge, la sua efficacia e la sua ragione, dovendo
il male essere male e non bene, e produrre argine a sè medesimo e impedimento
al moltiplicare; onde con sottile concetto sentenziava il vostro Genovesi, ogni
legge essere legge penale.” (ivi, pp.
32-34).
Secondo
Mamiani la pena, comminata in ossequio alla legge morale, vale a reintegrare
l’ordine violato; secondo Mancini invece, non essendo tale ordine
reintegrabile, la pena vale a prevenire crimini futuri. Di fronte, nel rapporto
fra morale e diritto, sono il Bene e la sensibilità, il bene morale e il bene
sensibile, il primo che ha sede nell’autorità divina ed è incomunicabile, la
seconda in quella umana, il primo che si fonda sull’Essere infinito, la seconda
che deve e può fondarsi sulla Ragione.
Secondo
Mamiani, che la regola giuridica debba trarre - come per lui deve - vigore
dalla regola morale comporta fra l’altro che l’autorità ha il suo fondamento
nella divinità (“diritto naturale d’imperio”, nella teorizzazione menzionata
del Gravina); in Mancini per contro non qualsiasi autorità attinge la propria
forza alla legge morale, che se applicata come fosse giuridica, cioè con la
“forza” e il “costringimento”, può condurre a risultati aberranti (“… far
riaccendere i roghi degli eretici; rinnovar le carneficine de’ secoli di
superstizione”: ivi, p. 102); e
piuttosto bisogna distinguere così la norma giuridica dal comando, che non ne
costituisce l'essenza, come il gius che è l’interesse personale dalla morale
anche personale, come il governo di fatto dal governo legittimo.
Scrive
fra l'altro Mancini: “In somma io veggo un abisso immensurabile nel passaggio
dall’autorità assoluta di Dio, legislatore eterno, buono ed infinito, a quella
relativa peccabile e finita del legislatore umano. L'autorità di Dio è tale,
che non può risiedere in altro soggetto, fuorchè nell'Essere Infinito; e però è
incomunicabile. Negli uomini poi non può concepirsi altra autorità che
quella della ragione, e questa è la stessa in tutti gli uomini. Ben è
vero che alcuni tra essi primeggiano per virtù e per prudenza civile: ma con
buona pace del Gravina, io non so come ammettere in loro un diritto
naturale d'imperio, il che distruggerebbe ogni ordine ed ogni forma di
Dritto politico, introdurrebbe nella società la più deplorabile anarchia, e
aprirebbe la via a legittimare un diritto naturale di schiavitù fra gli
uomini, come già pretese Aristotile”. (ivi,
p. 96)
Colpisce
in generale il garbo, con cui Mancini sostiene il ruolo della ragione e così
della libertà nel diritto e quindi l’autonomia di questo, ed emerge nelle sue
argomentazioni, nel confronto con quelle del Mamiani, la difesa di un principio
che mi ostino a dire di civiltà giuridica di contro agli errori e pericoli che
una qualsiasi concezione che voglia il diritto assoggettato alla morale comporta,
per la stessa persona umana.
Vi
sono poi alcuni dati che forse possono aiutarci a capire: che Mamiani fu
ministro dell’interno dello Stato Pontificio ed ebbe a dichiarare la sua
contrarietà alla Repubblica Romana può spiegare il suo pensiero. È lecito così
leggere il testo sotto un duplice profilo: e come testimonianza del contrasto
fra una concezione rigidamente moralistica e comunque legata al passato ed una
laica e progressiva del diritto e in questo come tentativo, in detto contrasto,
di emancipare il diritto dalla morale. Tutto ciò, direi, in funzione di una
idea tanto parziale quanto significativa di quella che poté essere la coscienza
giuridica nazionale. Della quale è importante avere presente la costanza e la
continuità, e per meglio dire la reiterabilità, nel senso che oggi ogni
questione legislativa e di applicazione della legge che tocchi aspetti morali
ci ributta indirettamente su quella questione per come essa è stata affrontata
nel volumetto ottocentesco.
(2010; già pubblicato in Europa Giovani)
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