SULLA «MODERNITÀ» E LA
«MACCHINA»
Chi è? |
1.- L’anima, leggo in un testo del
settecento, «non è [...] altro che un termine vago, di cui non possediamo
alcuna idea e di cui un buon intelletto deve servirsi per nominare quella parte
che pensa in noi»[1]. Dunque è come si discendesse da Dio verso l'uomo in forza dell'anima.
Io direi anche questo, inoltre, prendendo spunto
da tale brano: che l’anima, se in qualche modo si giunge a sostenere che essa
«non esiste», è proprio ciò che l’essere, razionale e pensante, dovrà costruirsi.
Non sic et simpliciter come ci si costruisce una finzione o
come si ha, mentalmente, un’immagine ma, anche, come si «mette su» una casa,
per costituirsi in quanto essere razionale e pensante, e per continuare a stare
sulla Terra. Stare sulla Terra nei termini di una fondamentale condizione.
Io posso immaginare così che fatto saliente e
significativo dell’età moderna sia la nascita ed il formarsi di un’anima
razionale produttiva ovvero prodotta-riproduttiva-riproducibile.
Un’anima in ciò, anche, circolare.
E aggiungo subito, per illustrare i legami che
sono alla base di questo scritto, che quest’anima è sorta in quel modo,
razionalistico, contenuto nel messaggio lamettriano, per essere poi consegnata
in quanto tale all'epoca cosiddetta «post-industriale», ovvero epoca della filosofia e arte cosiddette «postmoderne»; essendo immersi nella quale
si crederà invece che la modernità in questo modo sia
«superata». ( Potremmo
però anche risalire molto nel tempo e scomodare Platone: la conoscenza, contrariamente a quanto sosteneva Protàgora, non
consiste nella sensazione ma in una attività di
elaborazione da parte dell'anima.)
Nascita di un’anima razionale produttiva non
significa, certo, sorgere di qualcosa che è un presupposto delle cose; o
sorgere del pensiero che pensa, della capacità di pensare dell’uomo, della sua
virtù di astrarre; ma il presentarsi di tutto questo in una chiave
produttiva, di un’anima e di un mondo razionale che sono collegabili e
collegati alla sensibilità, e potenzialmente rinnovantisi.
Non si tratta dunque dell’anima per come ne
parlava anticamente Ecfanto di Siracusa, ad esempio, secondo il quale i corpi
sensibili vengono da corpi indivisibili, ma l’anima li muove[2], affermazioni che restano come tali e che appaiono come
il frutto dell’accostamento, immediato, fra ciò che è naturale e qualcosa che
costituisce vago termine di ricerca o traspositivo di una economia troppo
umana.
Ovvero non si tratta di una qualsivoglia anima
razionale, di un’anima razionale semplicemente detta, pronunciata come fosse un dato,
ad esempio in una delle molte argomentazioni che s’incontrano nella filosofia
medievale.
Ma di qualcosa in cui il produrre, od il
riprodurre, il costruire ed il poter sempre ricostruire, per avere in sé una
dose di materialismo razionale ed un indice di esistenza maggiori rispetto a
parole vaghe, si presenta come il primum. In cui cioè il produrre,
col trascorrere del tempo - per così dire -, si espande, perde il legame
inerente di causalità-linearità, sino ad essere riconosciuto non già come il
semplice rapporto di causa ad effetto, ma come l’evoluzione del riprodurre in
quanto tale, il poter riprodurre come la nuova fondamentale condizione oppure
come la possibilità, o anche come l’istituirsi-aprirsi (nel
gergo che userebbe una illustre scuola del pensiero contemporaneo) di un qualcosa.
E si deve ammettere dunque che il produrre è,
nel suo espandersi, la strada che conduce al dominio dell’astrazione,
consistendo l’astrattezza, per il suo carattere di universalità, nel fatto che
si producano, che vi sia la possibilità di riprodurre, così corpi come oggetti
spirituali, immagini, sensazioni (indifferenza - quasi - dell’animo rispetto
alla qualità del prodotto); che si producano immagini così come si
producono un tavolo, una pasta alimentare, una saponetta, un vestito, parole.
Ovvero anche, volendo riprendere il concetto
sopra espresso, sul produrre-riprodurre, ma vedendo le cose da un altro punto
di osservazione: la riproducibilità, come insegna il progresso nella chimica,
riconduce al valore storico della produzione. Infonde maggiore
consapevolezza in tal senso.
La
riproduzione-riproducibilità ha invaso infatti, per così dire, il campo
dell’arte, il tempo, lo spazio; ad esempio: riproducibilità, tecnica,
dell’opera d’arte[3], oppure: emulazione,
virtualizzazione tecnica, di fronte a cui, come è stato asserito da Philippe
Quéau, la spazio-temporalità, rispetto a come essa fu illustrata dalla ragion
pura kantiana, perde il suo rango di «categoria», di forma a priori della
ragione[4].
Il nesso, che si può istituire, è fra la nascita
della modernità come anima che l’uomo si fabbrica quale essere pensante, come
idea di tutto questo; e l’attuale caratterizzazione della produzione, dal punto
di vista della potenzialità tecnica. Il nesso cioè viene in mente dal momento
che si divenga pensosi dell’età, non solo novecentesca, ma prima ancora
ottocentesca, risalente in quanto tale ad epoche che le hanno precedute, e
dunque per questo dico «moderna», guardando le cose, la storia, da dentro l’età
cosiddetta «della tecnica».
L’astrattezza della produzione, che si
manifesta nella riproducibilità in generale, si manifesta negli strumenti che
servono alla produzione o riproduzione, la quale alla fine si presenta come
produzione o riproduzione di ciò che è astratto. (Se oggigiorno ad esempio si
pensa il cosiddetto «virtuale», ciò avviene, credo, perché la riproducibilità
di qualcosa è il frutto di un astrarre che si è accumulato nelle sue
realizzazioni).
Ovvero, osservando le cose dal punto di vista
dei cosiddetti «strumenti»: l’astrattezza della produzione è l’astrattezza che
la macchina ha acquisita in quanto macchina «imitativa», per così dire secondo
la possibilità del linguaggio, dell’uomo. Essa è essenzialmente o forse
anche illusoriamente, imitativa, ma ha cominciato ad esserlo di «ciò che l’uomo
fa», per divenirlo di «ciò che l’uomo sente, pensa». Di ciò che l’uomo è in
quanto essere pensante o senziente. Ulteriormente «interiorizzandosi». Ma allo stesso
tempo ulteriormente allontanandosi, come accade che vi sia un doppio.
La macchina «imitativa» in questo modo, dando
per buona questa possibile visione delle cose, può essere ripensata, più o meno
metaforicamente, come un’anima da dare al corpo. Ritenendo, comunque, di
essere nelle approssimazioni e nell'analogia.
«Anima da dare al corpo» significa ad esempio
che la macchina è luogo per ospitare interiorità, essendo interiorità
realisticamente il fatto che l’uomo pensando calcoli; e sono le idee o gli
oggetti osservati come «allocazione» e «registrazione», creazione di memorie.
La dinamica della mente umana, in quanto in essa
vi siano ricompresi interiorità, memorizzazione di dati, dinamica
dell’immagine, indica caratteristiche vecchie quanto l’umanità, alcune
fra le quali hanno interessato i filosofi dell’antica Grecia e meglio
l’antica cultura egizia; ma tali caratteristiche io noto come a decorrere da
una certa epoca divengano riproducibili, e ancora io noto come esse
si materializzino fuori dell’uomo, sganciandosi, essenzialmente, in ciò,
da quella che direi la condizione psicologica dell’unico (facente
capo ad esempio a proposizioni recondite del tipo: l’uomo è l’unico, lo è l’io,
valore del sé, esiste in fondo un unico-vero-Dio, ecc.).
Si tratta di caratteristiche, cioè, che non è
più così evidente, oggi, che siano attività spirituali. Interiorità dunque e
non interiorità; il che non esclude la mia teoria dell’anima moderna.
Interiorità e non interiorità, per avere
l’esteriorità perso il suo stesso principio, di essere esteriore. O per
cui si possa parlare di «essere nell'esteriorità».
(Ovvero: nel mondo della produzione il soggetto
tende alla referenzialità. Espressione che va approfondita).
2.- Con la mia tesi, sulla nascita dell’anima - evoluzione della teoria dell'anima - come caratteristica dell’età moderna, io riannodo ulteriormente i legami fra
ciò che sembra essere tutt’altro che cartesiano (ripenso un po' sorridendo al
Cartesio che era già vecchio e ridicolo agli occhi di un Voltaire, se
confrontato con la cultura newtoniana, e dunque al fatto che in certo senso
allora ciò che era newtoniano a proposito del pensiero della fisica
cosmologica, non fosse cartesiano) e ciò che è cartesiano.
(Questa posizione mi sembra rafforzata dal fatto
ad esempio che il postmoderno riprenda certi passaggi delle Meditationes e
vi veda qualcosa che potrebbe essere ritenuto, secondo i modelli consueti della
interpretazione, «non-cartesiano»: si pensi, con J. Derrida, al valore
del sogno, in funzione dell’approdo alla verità del cogito ergo sum,
considerando beninteso tale approdo non già come qualcosa che nega o supera il
sogno; si pensi, anche, alla bidimensionalità, al piano ed agli assi
cartesiani, alla bidimensionalità che è vera, naturale, rispetto ai progetti
tecnologici del tridimensionale; ecc. O si pensi allo Husserl delle Meditazioni, secondo il
quale Cartesio col suo «puro ego cogito» avrebbe inaugurato «una filosofia di
specie interamente nuova», consistente in una «svolta radicale
dall'oggettivismo ingenuo a un soggettivismo
trascendentale». )
In tal senso bisognerebbe invece ripensare. Si
potrebbe notare che il deserto che ci comanda, il «nulla» proclamato
dall’esistenzialismo, è un po’ il deserto cartesiano, e cioè
ad esempio il fatto che il cosmo sia rappresentato in una maniera tale per cui
in esso non vi è posto né per Dio né per l’uomo. Un cosmo che più lo si
conosce, più sembra restituirci quel deserto.
Dunque il deserto della tarda modernità è
l’erede ed in certo modo la realizzazione di qualcosa che avvenne, che venne in
superficie, con Cartesio. Il «negativo» di Cartesio è accostabile al nichilismo
di Copernico segnalato da Fr. Nietzsche, ad esempio.
Difficile dunque parlare sic et
simpliciter di «superamento».
Il deserto cartesiano è però ancora molto un
metodo, è personalità scientifica, non sono sentimenti esistenziali di un
declino, non è abbandono, non è la sensazione che non ci resti
altro da fare che pensare, costruire in genere prodotti della ragione, per
«salvarci», secondo quelle che possono essere ritenute venature sentimentali
proprie dell’esistenzialismo (abbandono e salvazione in Heidegger).
Meglio e prima che nella filosofia
dell’abbandono o della salvazione, i termini del gioco nell'animo moderno si
sarebbero scoperti già in un Voltaire: il generale pessimismo sulla condizione
dell’uomo, devastato dai grandi terremoti (il terremoto di Lisbona),
microscopica presenza nell'universo (Micromegas), inadatto alla libertà,
e la proclamazione della ragione come grande vera essenza dell’uomo. E cioè
natura di grande calcolatore o misuratore. Le contraddizioni che
contraddistinguono l’uomo, che sta sulla Terra, sono chiaramente tracciate già
in Voltaire. In certo senso vi è forse nell'illuminismo una corrispondenza fra
la fiducia nel progresso e un generale sostrato pessimistico.
Forse però queste differenze sono limitate:
Cartesio infatti non tanto si sfogava, negli esordi così sinceri delle sue
opere, ma osservava, rifletteva... Comunque: se non si possono negare i
possibili legami fra modernità e postmodernità, non si può negare, a fortiori,
che Cartesio fosse metodo.
Descartes è dunque osservazione e metodo; è uno
di quei filosofi che hanno contribuito al progresso delle scienze e
della tecnica.
La sua personalità teorica è tale per cui
cercare di dimensionare l’anima mediante la ragione è lo stesso che
innovare nel campo della geometria (penso alla geometria «analitica») ed è lo
stesso che progettare, durante la guerra, macchine belliche. Identica è cioè la
dignità assegnata a cose nobili e cose meno nobili. Identità nella quale si può
vedere il segnale di una storia che cambia.
(Mi viene in mente, sotto il profilo di legami
«insoliti», e di questa - come dirla altrimenti? - circolarità della personalità
filosofica cartesiana, un’affermazione di George Bataille, e cioè: «il pensiero
nella sua forma sviluppata - e subordinata - che sola
preoccupava Descartes non ha il suo punto di partenza in se stesso bensì nella
manipolazione dei solidi»[5].)
Ma perché dunque Cartesio? Perché
con Cartesio per quello che sostengo fu il significato storico di Cartesio,
questa è la mia seconda proposizione, si affacciò alla coscienza, come
soggetto, la moderna anima razionale, arte di comando e
produttività, o quello che sia; nacque qualcosa per cui non si potesse fare a
meno della macchina e di una liberazione in generale della
tecnica.
Il che è storico, profondamente storico, quanto
inspiegabile: possiamo dire che fu così, che deve essere stato proprio così,
date certe caratteristiche evolutive dell’epoca moderna; ma non possiamo dire
perché realmente ciò accadde.
Il valore di Cartesio ritengo sia valore prima
di tutto storico: esso, anche nel suo simbolismo, appare imprigionato in certe
caratteristiche dell’ epoca nella quale egli visse. In questo senso, per
l’argomento che qui interessa, io noto come egli mise a punto un sistema tale
per cui, non senza una certa asistematicità, la macchina diveniva oggetto
costruttivo ed immagine, per l’uso del pensiero. Come in certo modo essa
venisse con lui a perdere certa sua esteriorità.
Oggetto costruttivo ed
immagine;
forse si ha motivo di dubitare che ciò accadesse in senso moderno per la prima
volta. E cioè: io penso ad altre epoche, interrogandomi, a proposito del fatto
che Archita da Taranto, per amore dei bambini, avesse costruite una raganella (platagè)
ed una colomba in legno in grado di volare[6], oppure al
fatto che (sempre) nel tempo di Archita vigesse l’analogia,
e si paragonasse l’origine delle cose, il funzionamento della natura, al
funzionamento di oggetti d’uso, familiari; per dire che la modernità, che vedo
in Cartesio, non la si ha nella fatticità del fatto, e che sembra proprio
esserci uno «spirito della storia», che vuole la differenza di un’epoca
rispetto ad altre.
Novità del costrutto e dell’immagine: nel
trattato sull'uomo Cartesio utilizzò l’impressione suscitata
in lui dai vari dispositivi che gli inventori da tempo usavano
esibire, ad esempio i meccanismi ad orologeria sui campanili delle città,
per paragonare la macchina al corpo umano, accostare tematicamente ciò
che egli presumeva fosse stato fatto dalle mani di Dio, a ciò
che era stato fatto certamente dalle mani dell’uomo: «Vediamo - egli
scriveva - orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine siffatte
che, pur essendo opera di uomini, hanno tuttavia la forza di muoversi da
sé in più modi; e in questa macchina [il corpo umano], che suppongo fatta
dalle mani di Dio, non potrei - mi pare - supporre tanta varietà di
movimenti e tanto artifizio da impedirvi di pensare che possano
essergliene attribuiti anche di più»[7]; ovvero egli
osservava: «Come potete aver visto nelle grotte e nelle fontane dei
nostri giardini reali, dove la sola forza con cui l'acqua sgorga basta
a muovere macchine varie, determinandole persino a suonare qualche
strumento o a pronunciare qualche parola, a seconda della diversa
disposizione dei tubi che la conducono [...] »[8].
Rileggendo, anche, alcuni passi del Discorso
sul metodo, si comprende come la maggiore perfezione e complessità del
corpo umano rispetto agli automi fosse, nella sensibilità cartesiana, la
maggiore perfezione di una macchina fatta da Dio, una macchina necessariamente
più complessa, e se non altro composta di molti più pezzi, rispetto a macchine
fatte dall'uomo[9].
Si comprende cioè come non si tratti
semplicemente di trovare in certi brani, nella sua facilità,
l’affermazione del primato dell’uomo rispetto alla macchina; ma altro, e cioè importanti
aperture problematiche ed un certo modo di ripensare il corpo umano e
dunque una libertà del pensiero razionale, oltre che, tengo a sottolinearlo,
del sentimento.
Ciò è ravvisabile proprio nel fatto che il corpo
umano non lo si descrivesse come un astratto apparato di sensi od organi. Ma
come un dispositivo.
Elaborando una filosofia nel cui contesto la
macchina fosse strumento e modalità per lo studio del corpo umano, e cioè
individuando il principio tecnico-scientifico di «uomo-macchina»,
Cartesio aprì la mente filosofica alla problematizzazione di
un rapporto, da cui metodicamente, o forse per uno schema religioso,
l’anima razionale era (non poteva non essere, per definitionem)
immune.
A quel principio fu poi dato sviluppo, con
irriverenza nei riguardi di ogni spiritualismo, dal medico-filosofo Lamettrie
(nel quale qualcuno ha voluto vedere un cibernetico ante litteram),
nello scritto intitolato appunto L’uomo-macchina, ed è questo
il principio che sembra pienamente acquisito nella prima pagina
della Introduzione alla cibernetica di Norbert Wiener.
Cartesio è significativo, quindi, perché diede
alla macchina, constatatane la effettiva autonomia nel funzionamento e
certa complessità e variabilità organizzative, la dignità di oggetto
del pensiero, e dunque dignità morale, quella che ad essa
mancava per lunghissima tradizione, che mancava ad esempio nella
mente di un Archimede, per il quale la tecnica non era una nobile
occupazione, o di quanti concepissero la macchina come atta semplicemente ad
opere servili.
Ma perché si può affermare, oggi, che Cartesio
diede dignità morale alla macchina? Per la stessa ragione,
presumibilmente, per cui egli diede dignità all’ intelletto ed allo
spirito, colti nel duplice aspetto: del soggetto e dell’oggetto. Se inoltre -
io mi dico - il corpo esiste in quanto lo spirito ne dia contezza, se lo
rappresenti, e se il corpo è macchina, allora la macchina in particolare
esisterà in quanto lo spirito ne dia contezza e se la rappresenti.
È da aggiungere a tutto questo, ancora, che come
Cartesio dava dignità alla macchina, così Bacone, nel suo Novum Organum,
ne dava agli strumenti per l’osservazione e la misurazione scientifica. Che
l’importanza delle macchine nella mente di Cartesio corrispondeva al valore di
scoperta del cannocchiale o del microscopio.
La macchina dunque mentre diveniva oggetto,
luogo, modo di argomentazione, diveniva in qualche modo modalità,
per il pensiero, e lo dimostra la rappresentazione cartesiana del cosmo; fatto
di materia, spazi e movimento tali che si potessero ammettere leggi di natura
indipendenti dalla volontà e possibilità d’intervento divine.
Nel trattato sul mondo, si legge
l’affermazione per cui Dio dal punto di vista cosmologico può spiegare, nella
sua immutabilità, il moto rettilineo, non quello irregolare o curvilineo[10]. E gl’interpreti possono ben dire: deserto, niente
più cosmo aristotelico (laddove tutto fosse singolarmente provvidenziale o se
si preferisce idealistico); ovvero: ecco una «macchina universale», che ha un
suo funzionamento, in cui non vi è posto né per Dio né, particolare
significativo, per l’uomo[11].
(Bisognerebbe ripetere però queste affermazioni
rovesciando le cose, per cui se diciamo «macchina universale» dobbiamo sapere
che imponiamo al discorso una immagine.)
Vasta è la personalità teorica cartesiana; il
suo sguardo ispettivo nelle scienze è tale da implicare soluzioni profonde,
apparentemente estranee alle scienze, del tipo: il sapere è come un albero, le
cui radici sono la metafisica, il cui tronco è la fisica, e poi vengono i
rami, che sono le altre scienze[12]; oppure: «niente si
può conoscere prima dell’intelletto»[13]; ma
l’intelletto - mi domando -, bisogna conoscerlo in che senso? Nel senso, può
essere risposto, in cui «non possiamo concepire alcun oggetto senza dimostrare
e scoprire in pari tempo la nostra natura pensante»[14].
Nel senso, anche, per cui l’intelletto si riconosce nelle cose. E cioè, anche:
l’epistemologia in questo modo non potrà non essere sensibile alle nuove
realizzazioni tecniche. Sino a diventare paradossalmente inutilizzabile.
Soluzioni profonde: aspetti teorici che non si
applicano in Cartesio in maniera diretta al discorso sulle
macchine, che anzi sembrano volersene distanziare, ma nate con esso e che vi
hanno, necessariamente, riferimento; che allo stesso tempo preludono ad
un accostamento maggiore, razionale e di sensibilità, fra uomo e macchina.
Noi ci rendiamo conto abbastanza presto del
fatto che parlando di Cartesio abbiamo a che fare con una macchina-corpo ancor
prima che con una macchina pensante - intendiamoci, comunque: con una
macchina-corpo che assume dignità morale perché essa in qualche modo è
naturalmente intelligente; nello stesso tempo sappiamo che con la geometria
analitica si gettarono, secondo alcuni interpreti, le basi razionali della Computer
Graphics. È davvero un fenomeno singolare, questo, cartesiano: per cui la
macchina assume dignità teorica; per cui non si imita, con un dispositivo, il
cervello umano e nello stesso tempo sembra quasi che la conquista di una
dignità teorica voglia una certa distanza dello «spirito» rispetto a ciò cui tale
dignità è conferita...
Ma sono, per così dire, giochi necessari, e
questo lo si può definire qui, convenzionalmente, «dualismo cartesiano», il
porsi delle due sostanze, la sostanza pensante e la sostanza estesa. Non in una
maniera strettamente, astrattamente filosofica, ma profondamente storica. Nel
senso di fondazione di una cultura che verrà emergendo gradualmente, sino a
porsi come presenza forte.
Che cosa avvenne, di storicamente significativo,
nella formulazione del pensiero cartesiano? Avvenne che il mondo
«esterno», il mondo delle cose, crebbe nelle sue riflessioni parallelamente
alla crescita del mondo interiore. Ma nello stesso tempo - fatto singolare -
l'interiorità che veniva così a formarsi, quella enunciata nel motto «penso
dunque sono» («ego cogito, ergo sum, sive existo»), era come fosse un
«soggetto» in qualche modo già costituito, se essa era tanto curiosa
scientificamente e tecnicamente, quanto libera mentalmente, rispetto al mondo
esterno.
Nel pensiero di Cartesio è sempre in piedi quella
che si potrebbe ritenere una singolare presunzione: che l’anima resti fuori dei
giochi del corpo. Era significativa sotto questo aspetto la sorte toccata alle
rappresentazioni, che erano relegate - volendo ricostruire con riferimento a
Cartesio una teoria psicologica - fra ciò che attiene alle cose
materiali.
Ma, a ben riflettere, che l’anima resti fuori
dei giochi del corpo è un presupposto indispensabile per andare avanti, per
produrre, ecc.; ed è una verità che può riconoscersi, a contrario,
nella costruzione delle macchine cibernetiche, nel percorso pratico,
ingegneristico, di una costruzione che si possa ritenere «esteriore», densa
d’insegnamenti che modificano la coscienza, ma limitata, nelle realizzazioni, a
causa della sua «esteriorità». A proposito di tale esteriorità io leggo ad
esempio che «[...]il programma cibernetico di simulazione delle attività
superiori del cervello (pensiero, linguaggio) non presupponeva [...] affatto
l’identificazione conoscitiva di esse, ma, paradossalmente, ne presupponeva
piuttosto la non identificazione»[15].
Fra Cartesio e le macchine cibernetiche è stato
posto il «cartesiano» Lamettrie, il quale polemizzò con il «maestro» opponendo
il corpo e i sensi alla vacuità dell’anima; il materialismo della macchina
all’idealismo dello spirito; sostenendo che la ragione altro non è che un
approccio particolare della sensibilità alle cose.
Tutto questo ha implicazioni interessanti, se
proviamo a considerare in che senso si possa dar torto a Cartesio. Ad
esempio: è vero - per ricondurci all’oggi - che la cosiddetta «interattività» (interaction)
dal punto di vista filosofico, non tecnico, ha in sé la dualità, e la non
perfetta riproducibilità. Anche se il dualismo uomo-macchina non è lo stesso
che il dualismo anima-corpo. Oppure è vero che non si può ridurre totalmente la
«virtualità» alla realtà; la sostanza alla condizione o al fatto, che pure è
indicativo della sostanza.
E ancora: ogni critica a Cartesio, basata
sull’emancipazione dei sensi e della macchina nei confronti dell’anima, o dello
spirito, rischia di sviluppare il discorso delle macchine su una linea che è
opposta alla ragione. Il che per chi ha per obiettivo il progresso della
ragione è una contraddizione in termini. L’anima in certo senso deve essere
sempre salvata: a favorire il progresso tecnico.
3.- Al di là delle critiche, venne a
configurarsi, con il dualismo cartesiano, la modernità, e cioè: la
priorità della capacità tipica dell’uomo moderno di astrarre,
o meglio di attribuire in generale valori. A cominciare
dal valore d’essere, il quale può essere riconosciuto, nella teoria del
filosofo francese, solo sorprendendosi a pensare: io che penso né sono morto né
sto sognando, ma «sono quello che sono». In questo modo il cosmo si sarebbe
potuto raccontare nuovamente, come una favola, immaginando che Dio lo potesse
ricreare; e dunque la sua inconoscibilità spiega la matematizzazione del
reale, attribuzione al reale di valori matematici, e può essere spiegata
a sua volta con il fatto che «[...] bisogna cercare Dio non più nel mondo [...]
ma nell’anima»[16]; non avendo la mente nulla in comune
con la materia, con l’estensione[17]. Ovvero: che
cosa la pura materia è in grado di creare?
L’anima, ovvero qualcosa di suo che l’uomo vuole
fabbricare per sé, da una certa epoca in poi, è anima razionale,
che prosegue (si potrebbe dire «platonicamente») nella considerazione dei
sensi quali fonte d’inganno, ai fini della sicurezza del sapere. L’uomo
si costituisce in razionale e pensante nel momento stesso nel quale riconosce i
limiti posti dai sensi e più radicalmente dalla mortalità; in questo modo si
rappresentavano come «macchina», nel seicento, il corpo umano ed il cosmo. Con
la macchina avveniva l’emancipazione dai sensi, si gettavano i presupposti per
una cultura dei modelli e per il pensiero formale ed astratto. Questa cultura è
assegnazione di valori. Se non si fa questo, se non si assegnano valori, se non
si ha in ciò produttività, non si avrà autonomia del pensiero.
Ovvero, a voler cogliere un legame diretto tra
le fontane dei giardini reali, le macchine, ed il cogito
cartesiano come assegnazione di valore all'essere, si può sostenere che se il cogito è
un che di profondamente esistenziale, allora necessariamente l’anima, nel suo
moderno costituirsi, avrà a che fare con modelli, con imitazioni, con forme.
La modernità era data dal fatto: sia che venisse
ad essere teorizzato in questo modo un dualismo invincibile, fra mondo esterno
ed interiorità, sia che nel contesto di tale dualismo lo spirito stesso potesse
ora divenire in generale «oggetto». Che ogni cosa, data l’irriducibilità
dell’anima razionale, potesse divenirlo.
Il risultato era nel cuore del metodo stesso, e
cioè consisteva in un costrutto tale per cui l’esteriorità fosse emarginata in
quanto assoluto, in quanto lì si cercasse Dio, e la conoscibilità fosse
posta in termini relativi. La verità, in altre parole, era nella
problematizzazione scientifica, e nella forma fortemente interiore che ad essa
era conferita.
L’interiorità, nel suo carattere attivo, era la
capacità elaborativa della ragione, la quale si dava un metodo, come s’indossa
un mantello, per riconoscersi e dimensionarsi in rapporto al mondo esterno.
Il soggettivo della ragione sarebbe stato comunque tale, una volta
ammesso quel criterio, relativistico, di problematizzazione.
La macchina, la moderna macchina, sembra molto
congeniale alla nascita cartesiana dell’anima razionale, per chi sappia leggere
al di là di certe proposizioni cartesiane sugli automi; è come se nella moderna
macchina l’anima razionale si costituisse. E la modernità non avrebbe tardato a
fare altro, e cioè: a pensare macchine non esistenti, macchine-progetto (ad
esempio costrutto ed immagine della macchina universale di Turing), in una
corrispondenza profonda con la moderna forza dell’interiorità razionale.
L’epoca di Cartesio, in altre parole, può essere
associata da noi, mentalmente, a quella degli automi e dell’
illuminismo, e anche: all’epoca dei Pascal e dei Leibniz quali artefici
di progetti di macchine da calcolo che sono prodotti dell’interiorità, e che
forniscono statuti all’anima razionale. Ma il problema era proprio
questo: il pensare.
«Penso dunque sono» significa oltre che:
pensando io attribuisco il valore d’essere, anche qualcosa come: nel momento in
cui penso, in cui io attribuisco valori, io sono. Non importa, dal momento che
ho posto le cose in questi termini, che io sappia rispondere alla domanda se io
sia o non sia, o che io trovi risposta alla domanda su che cosa sia l’essere.
Cartesio, se riteneva che mai le macchine
avrebbero potuto eguagliare la mente umana per non «agire per conoscenza ma
solo per una disposizione dei loro organi», evidentemente non si rendeva conto
del fatto che se egli non avesse seguito quel percorso mai sarebbe giunto alla
sua affermazione sull’essere-esistere.
Tutto ciò si combina con il principio,
maturato attraverso le elaborazioni di Hobbes, Locke e Leibniz, per
cui non le cose, ma le rappresentazioni sono l’oggetto della ragione.
E anche: per cui le idee non sono il pensiero, ma il suo oggetto.
Il che, secondo una certa opinione, è
profondamente matematico ed è favorevole in ciò, per il riscontro che vi
ritrova, alla diffusione delle macchine imitative. Ovvero: solo assunta la
coscienza del fatto che la ragione avesse a che fare con rappresentazioni e non
con cose, si poteva pensare a meccanizzare la ragione[18].
Ovvero ancora: è possibile affermare che la
«Dottrina della scienza» del filosofo tedesco Fichte, e la «ragione pura»
kantiana, siano prese di coscienza, sforzi interpretativi, del senso più profondo
della modernità, prima ancora che esagerazioni discutibili. «Filosofare sulla
natura significa creare la natura», avrebbe detto Shelling. È importante
in tutto questo l’indirizzamento, e non l’enfasi, il rifugiarsi nella parola;
il rifiuto di una essenza. La riproducibilità, volontà di riprodurre, il
protendersi a questa, che sarà la nuova condizione, sembra
scorrere nelle vene dell’età moderna, almeno dal seicento in poi.
Se oggi è possibile scindere, sviluppando
tale scissione, i due verbi del motto cartesiano: il verbo «cogitare»
ed il verbo «esse», questo lo si può ricollegare ad una serie di
fatti: alla impostazione data al pensiero dal filosofo francese, per cui di
esso oggi si può sostenere essere pensiero moderno; alle intuizioni di quegli altri
filosofi i quali posero «rappresentazione», «idea», «numero», sul piano
dell’oggetto del pensiero, sviluppando in questo senso le dimensioni soggettive
del cogito.
Alla interpretabilità di quel motto nei termini
di un’attribuzione di valori e di una riproducibilità, ha condotto poi
l’evoluzione del pensiero matematico, l’affermarsi progressivo dell’algebra,
come evoluzione della coscienza e volontà di tradurre tutto in simboli. Ad
iniziare dal matematico italiano Vieta e dallo stesso Cartesio.
La coscienza della traducibilità di tutto in
simboli, l’essere il pensiero, e il dover essere - meglio - il pensiero moderno
in ciò, molto, attribuzione, assegnazione convenzionale, di valori, sono
aspetti che emergono con chiarezza da una connessione leibniziana, per cui: se
noi ammettiamo l’esistenza di una memoria, nell’attività mentale
dell’uomo, allora dobbiamo convenire sul fatto che le idee s’identifichino non
con il pensiero, ma con qualcos’altro, che potremo definire l’oggetto del
pensiero[19].
Oppure ad altre affermazioni, dello stesso
Leibniz, a proposito dell’utilità, e maggiore chiarezza, del numero, rispetto
allo spazio, in termini di conoscenza, laddove egli parla della utilità ai fini
del pensiero dei soli numeri interi, della qualità limitata, del valore
dei simboli grafici al posto dei numeri per semplificare l’attività del
pensiero e della memoria[20].
Il senso storico-obiettivo della traducibilità
di tutto in simboli, della traducibilità di tutto in numeri, può apprezzarsi
ancor meglio qualora si colleghi questo aspetto della cultura moderna
all’intuizione di Thomas Hobbes, secondo cui l’uomo, pensando, calcola. Egli
sottrae ed addiziona, cioè, anche quando non sembra addizionare e sottrarre.
Quando l’uomo ragiona, immagina una somma, «sommando quantità parziali oppure
immagina un resto, sottraendo una somma da un’altra»[21].
La traducibilità di tutto in numeri, questo
poter rappresentare, in fondo è un vecchio postulato; si tramanda,
nellopinione, che lo avesse espresso anticamente Pitagora; allo stesso modo è
certo che lo sostenne Galileo, ma bisognava sganciarsi forse da un sapere
troppo proteso alle cose, poco potente, e dovevano esservi le condizioni
storiche di pensiero perché queste affermazioni potessero entrare a far parte,
attiva, del progresso materiale degli uomini. Dal dire, insomma, al fare.
Ad esempio: i numeri interi di Leibniz,
interi e cioè distinti volutamente dai numeri «sordi», cioè incommensurabili, o
«rotti» cioè frazionari, preconizzano sul piano della rappresentatività il
«digitale», il valore del «discontinuo». Ciò che sta a significare: che la più
bella opera d’arte, fatta di linee e punti, in quanto tale è traducibile in
enti numerici. E tutto questo è già cartesiano, come si diceva.
Oggi di quel postulato dunque si ha la
dimostrazione tecnica, e si ha l’esistenza di qualcosa; dalla conversione di
ciò che è analogico (figurativo, continuo, ...) in ciò che è invece digitale
(razionale, discontinuo, ...) si traggono risultati importanti, e non solo
tecnicamente. Gli effetti di codesta conversione hanno dell’incredibile perché
sono tutt’altra cosa, in termini di comprensione, rispetto al mondo dei sensi;
e dire che oggi siamo nell’epoca tecnica del digitale e dei prodotti sintetici,
ha un significato complesso. In essa infatti il profilo del rapporto di
continuità lineare con ciò che la ha preceduta nella storia della tecnica, cede
il passo al profilo della possibilità e necessità di riesaminare tutto. O in
generale: «complessità della tecnica», enigmaticità di un volto.
Il problema del rapporto fra l’uomo e ciò che
è «macchina» può entrare quindi nella nostra considerazione come uno dei
problemi-chiave dell’età «moderna»; a voler fare iniziare la modernità, per lo
più emblematicamente, con Cartesio. Potrebbe dirsi, anche, che esso è
problema-simbolo per questa età, considerata non nella esatta cronologia
dell’origine, ma negli sviluppi in essa impliciti.
Approfondire tale problema può aiutare me
umanista erede di nozioni tramandate al di fuori di una parte effettiva della
storia del pensiero moderno - quella legata alla matematica -, a capire. Capire
in una maniera non sociologica aspetti non superficiali del rapporto fra l’uomo
dell’umanismo ed il progresso e la tecnica, il senso della tecnica. A
comprendere nuovamente così, e a quantificare, ciò che è modernità, progresso,
ecc.
Con la «modernità» non so se veramente lo
«spirito» trionfi (questo lo ha sostenuto Koyré parlando della riforma
cartesiana del sapere); può darsi forse da un certo punto di vista: come
spirito nascente. Ma è certo, lo dico sulla base dei cenni fatti ai Leibniz,
agli Hobbes, ecc., che con la modernità lo spirito «diviene» oggetto.
La macchina è molto antica (svilupperò questo
aspetto più avanti); si poteva parlare, con l’immaginazione tipica
dell’illuminismo francese, della «gran macchina dell’ universo»
(definizione di Diderot, in carattere con il mondo cartesiano), immagine
comunque significativa, al pari dell’antichità di ciò che è «macchina», nel
trasmettere il senso di una indipendenza rispetto all’uomo.
Ma la macchina e così, penso, l’interrogarsi sul
senso della tecnica, è il moderno, congeniale alla modernità, perché in essa lo
spirito diviene oggetto.
Approfondire tale problema significa accettare
un principio ed un metodo, per cui la macchina altro non è che il rapporto
uomo-macchina, e viceversa. Per poter approfondire quel rapporto non si
dovrebbe più continuare a pensarlo cioè in una maniera astratta, per cui io
immagino la macchina come macchina e l’uomo come uomo, dove l’uno
necessariamente non è l’altro. Per cui, sulla base di questa separazione, io
penso quel rapporto al massimo in chiave comparativa. Ma come un rapporto che viene
a svolgersi.
La cultura dei modelli e quella della
comunicazione, dànno valore alla oggettività, che è, in una delle
sue possibili definizioni, la condizione di tutto ciò che entra nella sfera
d’interesse del pensiero; quelle culture, inoltre, mostrano che il fondamento
delle cose consiste nel loro avere legami attivi. E lo spirito è in queste
problematizzazioni attive, non è “qui piuttosto che là”.
4.-Il problema del rapporto fra l’uomo e la
macchina oggi si pone in termini differenziati, rispetto a quelle
premesse storiche seicentesche delle quali si è parlato. Quelle premesse non
potevano nascondere l’entusiasmo, non potevano nascondere l’immagine di
un umanismo curioso e progressivo; le prime scoperte, le prime grandi
intuizioni, il libero pensiero, un qualche gusto per l’irriverenza
religiosa, che sono come le prime scoperte sessuali nella vita (la curiosità
scientifica che secondo Diderot è curiosità sessuale).
Oggi forse, a voler riprendere certi temi, si
possono avere, a dissolvere quegli entusiasmi e quell’idealismo, ad esempio le
guerre mondiali e un’èra atomica, che hanno avuta la loro importanza nella
storia del pensiero, e vi è, collegata alle riflessioni svolte su questi temi,
il sentirsi soprattutto orientati ad un Duemila; ma non si dissolve
il senso, progressivo, della riflessione. Se la macchina oggi coinvolge
sentimenti morali, storici, aspetti dell’ontologia, della epistemologia,
dell’arte, del futuro come oggetto da elaborare, ciò avviene perché essa,
essendosi potenziata la sua autonomia di funzionamento ed elaborativa, è
pervenuta alla condizione di essere «pensante», mostrando con i
fatti di esserlo; e cioè alla possibilità effettiva di riprodurre in una forma
che non saprei se giudicare diversa, o piuttosto simile, fenomeni ritenuti
tipicamente umani, anche, soprattutto, di un uomo molto evoluto che non esiste;
possibilità, meglio, di produrre qualcosa di esistente in cui l’uomo può
riconoscersi in qualche modo. Il dignitoso «poter pensare» fa di una
macchina non la semplice imitazione di un originale - quale è in questo
caso l’uomo -, come si sente ancora dire che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine
e simiglianza; ma qualcosa in cui l’uomo si possa riconoscere nel suo fare,
certo saper elaborare oggetti ed immagini, certo spiegarsi, le cose, con certo
regime di comunicazione. Ma il poter pensare in fondo appartiene sempre a ciò
che è macchina, a ciò che alla macchina si addice nei termini della
rappresentazione, se è la libertà del pensiero a poter dire: «questo è macchina»,
oppure: «questo è dispositivo». Ed ancora, secondo una crescita
dell’anima: il poter pensare insito in una macchina cosiddetta «intelligente»
non esclude il poter pensare di una macchina ritenuta non intelligente. L’anima
razionale occupa un albero, un tavolo, che sempre di più essa immagina, cui
sempre di più attribuisce valori, che sempre di più manipola o rappresenta.
Molto è legato, evidentemente, al fatto che l’osservazione umana di ciò che
avviene in natura conduce alla fine a spacciare per pensiero ciò che avviene. A
maggior ragione in quanto lo si possa riprodurre. Si può sostenere,
trovandosi così ad avere una maggiore solidità nelle argomentazioni, che
studiare la macchina «pensante» insegna molto sul pensiero dell’uomo e su certe
regole che governano il pensare. A cominciare dal fatto che l’attività di
pensiero, come si è detto, è attività di calcolo: un sottrarre, un addizionare
continui, si ha una netta diversificazione di prospettiva, una
trasformazione rilevante, rispetto alla immagine letteraria ed estetica che
l’uomo ha di sé, nel suo umanismo congenito. Ed in fondo qualcosa che va
al di là del senso contrappositivo di una sfida, immaginabile, fra Cartesio
ed i cibernetici, il primo che affermasse non potere l’automa usare
intelligentemente il linguaggio («valersi di parole o di altri segni,
componendoli come noi facciamo per esprimere agli altri i nostri pensieri»[22]) né avere una «capacità d’azione universalmente
variabile» (non agendo «per conoscenza, ma solo per una disposizione dei loro
organi»[23]), i secondi che sostenessero il contrario,
cercando di dimostrarlo con le loro creazioni. Aspetto contrappositivo, questo,
per il quale Cartesio avrebbe sviluppata una sorta di «anticibernetica della
mente»[24].
Ma entro quali termini si può sostenere tutto
ciò? Se io dico: «la macchina insegna all’uomo sull’uomo», io introduco,
a ben riflettere, principi di dissoluzione in una immagine che è quella
dell’uomo il quale fornisce istruzioni alla macchina, dell’uomo che produce
in laboratorio i chips: dell’homo erectus, oppure
dell’homo faber.
Dissoluzione dell’uomo, probabilmente dell’uomo
dell’ autocompiacimento estetico-umanistico. Uomo resistente, comunque,
se si ostina a non riconoscere il deserto ed i suoi doveri.
Realiter quindi io così non
ho dissolto più di tanto, rispetto al carattere che si è attribuito qui
alla modernità. Se noi diamo sviluppo al punto di vista del pensiero, di
una ragione per così dire «cartesiana» che quanto più osserva tanto più riflette
su tutto e tanto più è soggettiva, allora sappiamo che il pensiero
è formulazione del pensiero, ovvero che «Non si può
tematizzare “qualcosa in quanto qualcosa”[...] senza accettare, implicitamente,
le regola di un linguaggio»[25]; nel senso che
nell’ambito della formulazione del pensiero l’uomo può essere o non
essere pensato, o meglio nominato, e ancor prima immaginato; può
essere o non essere pensata e cioè nominata e ancor prima immaginata
l’intelligenza, e così di séguito.
L’uomo è tale insomma per cui si pone come
oggetto dell’immaginare, del nominare, del pensare. Ed in quanto
oggetto, in un contesto semantico, egli ha valore. Dunque l’uomo, come
l’amore, l’intelligenza, è una immagine, è rappresentabile, è
quantificabile, è oggetto del pensiero, del linguaggio. Egli si presenta così
come un riproducibile, un «mediabile».
Questo pensiero può essere confermato da quel
riflesso parallelo della storia delle macchine che è la storia delle allegorie
materiali. La rappresentazione di qualcosa mediante le macchine è un fatto
allegorico. Dal punto di vista umanistico in ogni rappresentazione vi è
allegoria. Prima fra tutte è l’allegoria uomo. Per cui si può dire che qualcosa
assume valore in quanto sia allegorizzabile.
ASPETTI «UMANI»
DELLE MACCHINE
1.- In base presumibilmente ad un calcolo
morale, Cartesio sostenne che gli animali sono «automi»; ovvero: non si sarebbe
potuto distinguere fra il corpo di un animale ed un automa[26].
Nessuno, insomma, avrebbe potuto imputargli di avere affermato che l’uomo è un
automa.
Ed è certo che mai il filosofo lo avrebbe
potuto sostenere con convinzione, quanto è certo che egli, di fatto, si
mantenne, rispetto alle macchine, nella posizione di osservatore esterno,
colpito sinceramente da quelle realtà, indotto da certe evidenze alla
meditazione, ma venendosi in pari tempo a consolidare in questo
modo il principio d’irriducibilità dell’anima razionale (res cogitans)
al mondo esterno (res extensa).
Può incuriosire, inoltre, il fatto che il corpo
degli animali non fosse ritenuto dotato di una complessità degna di Dio. Ma se
il discorso può fare leva sul principio di «complessità», così come con
Lamettrie si sarebbe basato sul principio di «organizzazione» (dunque
maggiore complessità dell’ organizzazione degli uomini, minore negli
animali) allora trapelerebbe una conclusione ragionevole: che tutto, al di là
delle affermazioni, fatte o non fatte, e al di là di certi aspetti in parte
incomprensibili del pensiero cartesiano, può essere ritenuto significativo di
un nuovo indirizzo storico in cui l’anima razionale conseguiva il primato,
indirizzo distinto ma proprio per ciò non estraneo al fatto che l’uomo moderno
si sarebbe manifestato in una esplosione d’ingegno tecnico.
Ingegno, legato a che cosa? Forse ad
un’autofinzione creazionista, forse a quel deserto cui più volte si è accennato,
certo all’essersi esaurita, nell’occidente, l’epoca dei numeri romani,
risultando inadeguato pur nella sua ripresa l’uso dell’abaco, e risultando che
la gente, nella vita quotidiana, dovesse contare molto più, rispetto al
passato.
Per quella singolarità di percorso che
caratterizza l’evolversi delle macchine, per la complessità appunto della
tecnica, soprattutto con riferimento all’età moderna, la macchina
pensante è il frutto di tante storie differenziate l’una dall’altra, piuttosto
che di una storia ben compatta, lineare. Ora si faceva un passo in avanti nella
matematica, ora nell’elettronica; qui si progrediva nell’algebra, lì,
indipendentemente, nella meccanica, qui nella telegrafia lì nella fisica, là
ancora nella meccanica.
Se viene considerata questa singolarità di
percorso, in Cartesio, oltre che l’inaugurazione della modernità, si
coglie anche una modalità storica tale, per cui il pensiero (attestatosi nella
sfera dell’anima) tiene la distanza rispetto a quella che oggi si definisce
«capacità di pensare» delle macchine. Le fontane, gli orologi e gli automi,
infatti, lo incuriosiscono; lo fanno pensare; ma egli constata i limiti delle
macchine rispetto ad abilità tipiche dell’anima.
Si può dire dunque, unificando la storia dei
progressi materiali e la personalità filosofica: qui si coltiva l’anima
razionale, lì - indipendentemente (?) - si fanno riflessioni sincere sulla
macchina. La storia è comunque unità, la sua unità se non altro fa parte del
suo avere in sé un «ritorno a». O quanto meno il sospetto di ciò.
Perché, dunque, richiamare l’affermazione che
gli animali sono automi? Perché essa va presa per ciò che poteva significare
con riferimento alla cultura con la quale Cartesio si confrontò.
La sua affermazione sugli animali era tutt’altro
che «allineata» al pensiero medievale; il quale per buona parte
riteneva il contrario, sull’essere delle scimmie, delle api e dei cani[27]. Ma il vero problema non era di allineamento o non
con l’opinione prevalente, la quale per essere prevalente ammetteva l’opinione
contraria; non era il rapporto con la soluzione predominante di un problema, ma
con il senso di quel problema. I medievali, e per medievali intendo qui anche
personaggi del cinquecento, si domandavano se gli animali avessero un’anima razionale;
l’importante era che essi si domandassero questo e basta, ovvero che si
ponessero la domanda stante un rapporto fra scienza e fede analogo a quello fra
paganesimo e cristianesimo oppure fra Impero e Papato. Non che si domandassero
invece come potessero, delle «pure e semplici macchine [...] fare quello
che fanno gli animali», e che cosa ciò potesse implicare[28].
Il cristianesimo c’entrava e non c’entrava;
c’entrava l’uomo, ed una certa immagine di sé; ovvero: ciò che, nella coscienza
occidentale e certo nell’appello alla cristianità, è «umano».
Cartesio con quell’affermazione, che avrebbe
fatto molto discutere fino al settecento, proponeva un po’, in termini di
ricognizione, di riconoscimento dell’immagine di sé, di sostituire il cane con
lo specchio; infrangere, come già detto, il cosmo aristotelico con il suo
naturalismo.
«Animale è uguale automa» toccava l’animo umano,
indirettamente, perché l’animale era uno status di coscienza,
per l’uomo: tradizionale compagno, termine di raffronto, modo di dimensionamento,
oggetto privilegiato, assai proiettivo, di pensiero.
Di fatto, in quel modo si giungeva a toccare una
verità: che la macchina, se può definire l’animale, ciò significa che essa è
più interiore che non l’animale, che ha una potestà che all’animale non
compete, nel mondo dell’uomo. Ed inoltre: se l’animale può e non può avere
un’anima razionale, allora la macchina può venire a trovarsi, sul piano
teorico, nella medesima condizione.
Si apprezza il valore dell’affermazione
cartesiana, se si pone mente al fatto che più dell’animale, la macchina, nata
per esigenze umane e dall’ingegno umano, manifesta un legame di «prossimità»
all’uomo.
E se essa può definire l’animale, può definire
anche l’uomo, se tutto apertamente si pose, con Lamettrie, nei termini del
principio della cosiddetta organizzazione. Anche se allora, nel
settecento, questo concetto forse era più semplice in quanto concetto, di
quanto non lo fosse la sua applicazione negli automi.
I termini del ragionamento di Lamettrie erano
più o meno i seguenti: io non mi sorprendo di una a me
incomprensibile meraviglia della natura, e cioè del fatto che quello che
una volta era un mucchio di fango, abbia, ben acquisiti, una sensibilità
ed un pensiero; io comprendo solo che questo essere, l’uomo, è il più
perfettamente organizzato dell’universo; la sua diversità rispetto
all’animale è semplicemente in una diversità di organizzazione; da
questo punto di vista l’arte imitativa di un ideatore di automi, come
Vaucanson, dovrà affinarsi ancora, per poter realizzare dopo un automa flautista un
automa parlante, così come maggiore è stata l’arte richiesta
per realizzare, dopo l’automa canarino, l’automa flautista[29].
Dal che si desume: una macchina, compresa quindi
quella umana, è una organizzazione, che si può imitare.
Dire che l'uomo è una macchina, a causa anche della portata che un tale assunto
viene ad assumere necessariamente, all'epoca di Cartesio sarebbe stato
blasfemo.
Pure era l'inizio di un percorso che col tempo ci avrebbe fatto
dubitare: non perché l'uomo ha ideato e realizzato la macchina, questa è a lui
dissimile nella sostanza? E anzi sarebbe stato siffatto legame del produttore col
prodotto, per come esso si sarebbe evoluto e affermato, che vale il
rafforzamento del dubbio (e certo sarebbe comunque da stabilire per convenzione
che cosa è macchina).
E poi magari sarebbero stati i vessilliferi della scienza a
scandalizzarsi a fronte di chi avrebbe potuto titolare il suo testo macchine come noi...
Prossimità della macchina
all’uomo: è la possibile definizione (certo bisogna lavorarci) di un
rapporto. O meglio: una possibile impostazione di un rapporto, o di un
legame. Confesso che questa parola-immagine, della prossimità, mi
è stata suggerita da un pensiero di Martin Heidegger. Egli parla della
prossimità dell’uomo rispetto al Dio, ovunque l’uomo si trovi, anche nei luoghi
più umili[30]. E cioè: senza pensare al fatto che quel
Dio sia realmente tale, che il luogo cioè si addica a un Dio, che quell’uomo si
addica a un Dio.
Vi è senza dubbio una carica di suggestione in
questo, ma il vocabolo («prossimità») è utile perché viene dopo il pieno
consolidamento dell’età moderna, in cui il nulla emergendo spinge ancor più
verso l’anima e le macchine, allo stesso tempo; il termine è utile perché
consente, dovendosi parlare di macchine, una qualche profondità in più, nella
osservazione.
La macchina è come seguisse l’uomo dovunque,
come ne richiamasse alcune proprietà fondamentali, certo essa è come immersa
nella storia dell’uomo.
Come il Dio è umile più della nostra comune
rappresentazione di Dio, così la macchina è antica più della nostra
rappresentazione della macchina. La macchina, ciò «che è macchina», nasce prima
di quanto non si creda comunemente, prima di Cartesio, prima di Erone,
prima di Archimede; essa in questo è più storica, umanamente parlando, di
quanto non si sia disposti a credere; la considerazione della sua antichità non
è molto probabilmente riducibile all’ammissione della sua antichità. Essa,
se pensiamo alla storia, non è priva di una certa oscurità. Confesso che di
fronte alle tavole della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert,
illustrative delle macchine, di fronte a tutte quelle forme, ho avuta immediata
l’impressione di un mondo sommerso e dimenticato.
La profondità storica ha a che fare con il fatto
che la macchina è un qualcosa che nasce non compiuto, che ha una forza
anche nel fatto di restare lì, come dimenticata, che è sempre aperta, ovvero:
che sembra avere bisogno, nutrirsi di storia, di evoluzione della sensibilità
umana, di sempre nuovi parti, di progressi materiali, per essere sempre
più uguale a sé stessa, essere quello che è. In questo senso si è tentati di
riparlare di vera natura umana, oppure di destino, aspetti che richiamino la «prossimità».
Ciò che è «macchina» fa parte della storia
dell’uomo come della storia umana fa parte il calcolo. Oggi si sa
che questo non è un accostamento casuale ma che ha una sua organicità. Un libro
sulla storia del calcolo dimostra agevolmente come l’uomo sia sempre
stato più ingegnoso calcolatore, in quanto uomo, di quanto non si pensi.
L’immagine è nuovamente quella: di un mondo sommerso. Uno dei primi
dispositivi, tipicamente umani, legati cioè al corpo, e cioè le mani, le dita,
servono indifferentemente alla soluzione di problemi tecnici (prendere il cibo
per portarlo alla bocca, brandire un’arma per difendersi, ecc.) quanto alla
soluzione di problemi di calcolo.
Il calcolo è umano quanto le macchine, ovvero:
al pari della creazione di macchine, esso fa parte della generale attitudine
umana - la si dica libertà, o bisogno - ad elaborare oggetti.
Allo stesso modo, e potendo ritenere la cosa
utile per i suoi legami dimostrativi: si può sostenere che ciò che è calcolo è
parte della storia umana quanto che l’esistenza è riducibile ad una incessante
elaborazione di dati, connettendo ciò che avviene quotidianamente con ciò che
è, da sempre, nella costituzione mentale dell’uomo.
Complessi legami fra l’uomo e la tecnica. In
certo senso la macchina è più umana di quanto non si sia disposti a concedere.
Di quanto non si sia disposti cioè a fare concessioni alle macchine;
concessioni morali: questo spiega una certa quale predilezione
accordata qui a Cartesio. E può spiegare il fatto che Goethe, andando nei primi
dell’ottocento dalla Germania in Francia per visitare gli automi, li trovasse
accantonati e arrugginiti, come oggetti dimenticati dopo la fine di una festa.
Fare concessioni morali: a questo proposito
ricordo che l’illuminismo, due millenni dopo Platone, rimise a nudo il valore
morale insito nel pensiero; dico concessioni morali in un senso
illuministico, ed aggiungo che quel dato mi consente di dire che se
l’umanità non è concessa alle macchine, allora non si riconosce ad esse la
capacità di pensare.
A questo proposito, a proposito di una non
concessione di umanità, mi ricollego, per provare a spiegare le cose, ad una
espressione che mi è capitato recentemente di leggere più volte. Questa
espressione è «paura delle apparenze». Se la macchina è più umana di quanto non
si sia disposti a concedere alle macchine, questo fatto, della non concessione,
può essere ricondotto alla paura delle apparenze. La paura ha grande influsso
sulla condotta umana, si sa; ma la vera paura non ha oggetto. Questa è una
prima interpretazione della cosa...
Penso inoltre, come seconda cosa, che concedere
umanità alle macchine ha il senso che ha: significa in qualche modo aprirsi,
cercare di capire ed approfondire, essere umili e ricettivi; dal quale senso si
salta direttamente in una problematica positiva, nel tentativo di comprendere
quello che per certi versi è un mondo sommerso. Richiamo ancora l’approccio
cartesiano, in cui il dire qualcosa come «l’uomo non è macchina» equivale a
concedere umanità alla macchina.
Complessi legami fra l’uomo e la tecnica, o
anche: fra l’uomo e la natura. Sembra che non si possa negare
l’impressione che la storia delle macchine rientri in una immagine della storia
come umanizzazione, un processo generale di umanizzazione, degli oggetti,
della storia stessa... Da una parte l’attitudine a rendersi
domestico, più familiare, un oggetto, oppure il fatto di per sé
stesso dell’interpretare o del misurare (il fatto che crescano le
conoscenze astronomiche, che si scoprano nuove galassie, che si conosca
con certezza l’età del Sole, significa umanizzazione del cosmo).
Dall’altra che l’uomo imprima uno stile, un
marchio, alle cose, colonizzi, utilizzi, e così via, facendo questo per
un bene; oppure che le macchine confermino una qualche essenza
irriducibile dell’uomo. L’umanizzazione sembra quasi che faccia
parte del destino delle macchine perché fa parte della loro stretta
destinazione, della razionalità storica che è racchiusa nella loro nascita
materiale.
Più la macchina evolve,
e si affina, si potrebbe dire, più essa si umanizza. Più essa si
umanizza, meglio serve l’essere umano.
Il che vale a confermare il principio che essa è
al servizio dell’uomo. Il passaggio nel nostro secolo da ENIAC, Electronic
Numerical Integrator and Calculator (che occupava una grande sala,
contava 18.000 valvole termoioniche; che quando era in funzione consumava 150
chilowatt) ai desk-top ed ai palm-top (qualcosa
che sta su una scrivania, qualcosa che sta sul palmo della mano); la caduta
della intermediarietà del tecnico e dell’operatore, il subentrare
dell’utilizzatore, sarebbero fatti significativamente provvidenziali.
Forse perché dal punto di vista umano,
umanistico, umanitario, tutto questo è ovvio, esso quando appare è
necessariamente, anche, già avvolto nel rituale. E allora si può fare ricorso a
strumenti interpretativi come i segni. Sono possibili letture
psico-sociologiche o semiologiche le quali avallino questo punto di vista: che
l’ovvio sia una faccia del rituale. Ma in questo modo nulla, sostanzialmente,
verrebbe ad essere cambiato, rispetto all’epoca di Erone, famoso
inventore del primo secolo dopo Cristo; saremmo come immersi ancora in un
rilassante bagno aristotelico e Cartesio, o Galilei, dovrebbe ancora nascere.
Il significato che l’umanismo può attribuire
all’umanizzazione delle macchine, il modo come l’uomo dell’umanismo amministri
quasi sempre il suo rapporto con la tecnica, s’illustra nel fatto che il
discorso sulla comunicazione, e così il discorso pubblicitario, o l’immagine in
quanto tale, hanno tutti un’impronta fortemente umanistica ed idealizzante.
Dell’umanismo, commerciale, tecnico oggi, si può dire che esso è un arrotondare
con l’occhio le cose. Che esso è fermo a quel colpo d’occhio sul giardino di
piante, d’erbe, di fiori, di Leopardi. Visto dall’esterno, prima di entrarvi,
esso sembra «un soggiorno di gioia», felice ed armonioso, ma entrandovi si
scopre, ovunque, souffrance. Rose offese e seccate dal Sole, gigli
succhiati da api, un albero infestato da un formicaio, un altro con foglie
secche[31]. Che vi è non minore cultura pubblicitaria
nell’uomo di quanto non possa rivelare ex novo l’attuale
pubblicità commerciale.
L’umanizzazione è in questo; ma questo non
riesce ad annullare il nulla, e cioè i meri dati di tecnologia, di tecnica, di
scienza, di ragione, che vi sono.
Ciò che qui interessa è altro, per quanto mi
riguarda, rispetto ad impressioni rassicuranti, e cioè: introduzione dal punto
di vista tecnico di una capacità di pensare nelle macchine,
riconoscimento ad esse di una capacità di pensare, considerazione di tutto
questo come fatto della tecnica. In questo senso io parlo di concessione di
umanità alle macchine.
2.- La moderna storia delle macchine «pensanti»
si presta alla rilevazione di una regola che rovescia quella sopra
esposta, per cui più la macchina evolve, e si affina, più
essa si umanizza. Si può asserire invece che la macchina è tale
per cui dire «più la tecnica si umanizza» equivale a dire solamente «più
essa evolve e si affina». Laddove il soggetto storico è la tecnica e dove
«umanizzazione» sta evidentemente per «progresso».
Nella macchina vi sono aspetti che
inducono immediatamente l’uomo a pensare all’uomo, ovvero che evocano
l’uomo, un po’ come avviene, di fronte ad una immagine, che ci si ricordi di
averla già veduta non si sa dove. S’intende in questo senso per umanizzazione
qualcosa come oggettivi antropomorfismi: la traduzione della macchina in
aspetti, prestazioni, che facciano pensare all’homo faber, all’homo
sapiens, ecc. Questo non sorprende: la macchina ha una stretta destinazione
umana. È utile, è l’utilità, è l’uso della cosa; e/o la verifica, la
materializzazione di un pensiero, di un’ipotesi. Senso, questo, nel quale essa
s’inserisce nel percorso storico della creazione dell’anima razionale.
«Umanizzazione» sta per «progresso», oppure per
formulazione di pensiero in cui rientri l’uomo, o per allegoria, come già
accennato precedentemente.
I primi tentativi moderni di dare istruzioni,
capacità di eseguire una sequenza di operazioni, ai meccanismi, non sono
rappresentati dagli automi; più ingegnosi erano, nel seicento, i coevi mulini
inglesi. Ma è nell’automa, sostanzialmente in quello settecentesco, che si
addensano significati.
Esso ha un fine dimostrativo, o celebrativo, e
si offre alla nostra attenzione, realiter, come un saggio di
umanismo, e cioè un saggio di che cosa sia «umanismo»; ma qui, appunto, si
offre il confronto diretto, fra uomo e meccanismo. Nell’automa del settecento
si ricorre al trucco, alla creazione di un’apparenza, per mostrare la
capacità di pensare, i poteri dell’anima razionale.
Nel «turco che gioca agli scacchi», l’uomo
d’ingegno, nel settecento, pone con un trucco l’uomo, fisicamente (di
fatto nell’automa di von Kempelen si nascondeva un nano), ma più
realisticamente vi pone il cervello umano. Egli in cambio delle apparenze
sembra disposto a concedere umanità. Si ricorre al trucco, all’inganno
ingegnoso, ma se questo accade, allora ciò significa che solo con l’inganno si
può far credere alla superiorità dell’uomo sulla macchina.
Qui le cose sembrano avvolte ancora nel mondo
dei riti, forse gli automi sono fortemente un linguaggio rituale (essi al
loro primo comparire, nel duecento, erano allegorie), rispetto al
meccanismo, alla vera macchina (in grado di eseguire da sola un procedimento
finalizzato), il preconizzare una introduzione di qualcosa di essenzialmente
umano, d’importante, nel meccanismo delle macchine, fatto nei termini di un
volere-non volere.
In un contesto di antropomorfizzazione, il
primato in realtà resta, storicamente, ai meccanismi ad orologeria; gli
automi del pieno e tardo settecento i quali costituiscono un tentativo di
animazione, rispetto alle sagome umane degli orologi dei campanili, messe lì,
fatte muovere per accompagnare la scansione del tempo, come una presenza visiva
dell’uomo inventore, sono anche un saggio dimostrativo della libertà umana.
«Illusioni del progresso», in un certo senso, non nel senso vitalistico con cui
poi questa espressione è stata usata.
In tutto questo vi è il rituale ma proprio per
questo vi è anche la sostanza... che umanisticamente si vuole negare.
Gli automi allegorici non ci parlano solo di
ritualità; essi rimandano, per il loro rapporto effettivo con i meccanismi che
li governavano, ad un giudizio tecnico su tali meccanismi. I quali non erano né
sensibili né comunicativi.
L’esempio che calza è quello delle figurine che
danzano sulla sommità di un carillon, che Wiener descriveva per
tracciare la distinzione fra le vecchie macchine ad orologeria, non predisposte
alla comunicazione, e le «nuove», dotate di organi sensori, dunque «sensibili».
Wiener a proposito delle figurine concludeva dicendo: «Esse sono cieche, sorde
e mute e non possono in nulla modificare la loro attività dallo schema
predisposto nel modello convenzionale»[32].
Nonostante le dichiarazioni di Wiener a favore
di macchine sensibili, l’automatismo, nella cibernetica, si sarebbe
perpetuato, trasformatosi. L’automatismo, nel suo evolvere, si presenta
come uno schema mentale che ben ritrae il mito della ragione, uno schema
che in questi termini governi il nostro approccio alla realtà, che è
da razionalizzare, in un certo qual modo. È un approccio che in
modo rudimentale si può dire strumentale o umanistico. Schema ed
approccio che si sono ripresentati con la cibernetica, la quale non a
caso si presenta come arte, essenzialmente, di governo.
Se, qualora staccati dai meccanismi degli
orologi, che essi subivano passivamente, gli automi avrebbero dovuto animarsi
per proprio conto, acquisire propri principi meccanici, e se ciò non fu
sempre possibile, il problema dal punto di vista storico era quello: di
tradurre l’atto di presenza umana dalla condizione di mero sembiante, di
figura, alla condizione di essere animato. Dare dunque interiorità effettiva
alla macchina e cioè interiorità operativa.
Sarebbero state macchine da calcolo ad
ospitare per prime reali contenuti tecnici di umanizzazione, ad avere
interiorità e cioè «capacità di pensare». In cui è necessario il nesso
fra la capacità di pensare e la eseguibilità di un calcolo, e cioè
l’ottenimento di un risultato.
Nell’addizionatrice di Pascal, nei progetti
leibniziani di macchina per le moltiplicazioni, in questi meccanismi nati
per calcolare, basati su rotazioni concatenate di ruote dentate, o di ruote
e pulegge o di tamburi differenziati, la cosiddetta «capacità di pensare»
avrebbe avuta, subito, una qualche evidenza. Ed il passaggio, non facile,
dall’eseguibilità meccanica dell’addizione a quella della
moltiplicazione, può essere ritenuto il segno del trasferimento, nella
macchina, di una più forte dose d’interiorità.
La capacità di pensare di una macchina si
profila in questo modo. Inoltre storicamente si afferma il principio per cui pensare
è sempre più elaborare. Ovvero: per Leibniz non si trattava di sostituire
l’addizionatrice di Pascal (meccanicamente irrinunciabile, anche in progetti
successivi); ma piuttosto di cambiare la sua condizione operativa,
facendo precedere la sua azione da un procedimento tale per cui tale
azione desse risultati necessariamente di moltiplicazione.
La capacità di pensare, per continuare con la
storia delle macchine da calcolo, si fa pienamente manifesta quando viene a
riflettersi in una struttura più sistematica oltre che sequenziale della
macchina: ciò accade, nell’«epoca Babbage-Jacquard», con il progetto di una
«macchina analitica».
In questa epoca un thema specifico,
già ritenuto dai filosofi costitutivo dell’intelletto umano, la «memoria», si
trasferisce in termini applicativi in un meccanismo tale per cui si abbia il
riutilizzo, nell’ambito di uno stesso procedimento, di risultati di
elaborazioni precedenti.
Viene pensato un processore centrale di dati (la
«macina»), nel senso che con la macina il procedimento da fatto diviene
capacità di processare; le ruote con su segnati i numeri dallo zero al nove
sono ripensate come dischi di registrazione dei dati, e cioè le ruote è
come se avessero solo la forma di ruote (uno stravolgimento di valori rispetto
alle macchine che erano venute prima); e si pensa, traendo spunto dal telaio di
Jacquard, alle schede perforate come istruzioni, cioè non è più l’uomo a
controllare la sequenza delle operazioni.
Sostenendo che la macchina è tale per cui dire
«più la tecnica si umanizza» equivale a dire «più essa evolve e si affina»,
penso di esprimermi mediante una contraddizione in termini: dico che più la
tecnica si potenzia, più teoricamente (secondo certa sensibilità) essa dovrebbe
divenire dunque disumana, più invece si umanizza. È una macchina sempre più
ingentilita, più domestica, e dunque non una macchina mastodontica, ostile
nell’aspetto, oppure poco comunicativa, a parlare la lingua della potenza della
tecnica. Nella tasca della giacca, oppure nel palmo della mano, possiamo
trovare qualcosa che è dotato di memoria, di un microprocessore; insomma di una
interiorità ben definita, di una qualche personalità.
Ma, se vi fosse inoltre contraddizione in
termini, allora il rapporto fra automa e meccanismo ad orologeria, che cosa
potrebbe significare?
In realtà però tutto dipende da quale angolo
visuale considero le cose: vi sarebbe dunque contraddizione in termini qualora
dovessi ritenere la macchina prima un fatto umano che un fatto della tecnica,
ricorrendo ad una petizione di principio.
Penso quindi che tale contraddizione sia tale
nel linguaggio, perché in realtà io vengo a distinguere due aspetti. Io
dico «si umanizza», e potrei, forse dovrei dire: «sembra umanizzarsi», a non
voler dimenticare, nel quadro di certe trasformazioni, il rapporto fra ciò che
si sa, si vede, si sente, su cui si pensa, ciò che è matematizzabile, e ciò che
è, come predeterminazione di un corso naturale delle cose, o se si preferisce,
della storia.
In altre parole: l’«umanizzazione», accompagnata
dal credo umanistico è pur sempre antropomorfizzazione; quando si parla di umanizzazione
a proposito delle macchine è come se ancora si fingesse mediante gli automi e
le figurine del carillon di Wiener.
L’umanizzazione rivela il suo aspetto di
sembiante, se io mi soffermo sul fatto che la macchina possa eseguire in
frazioni di secondo calcoli che l’uomo impiegherebbe giorni, mesi e più per
eseguire; se considero il problema e l’obiettivo dell’azzeramento dell’errore,
e cioè la tipicità umana dell’errore cui le macchine da calcolo avrebbero
dovuto porre rimedio ad esempio nel celebre progetto dei rivoluzionari francesi
per la compilazione generale di tabelle matematiche. Penso anche, con
riferimento al nostro tempo, al numero di colori riproducibili mediante l’«alta
definizione».
Umanisticamente, e con il sentimento legalistico
del «falso», si può ritenere che l’imitazione di un prodotto nulla aggiunga al
prodotto, e che solo possa danneggiare qualcosa; oppure che il problema della
copia sia quello di imitare l’originale sapendo di non poterlo eguagliare; che
se la macchina prende dall’uomo allora per definizione essa non sarà né più
interessante né più creativa dell’uomo.
Ma neanche il mondo platonico delle idee può
significare semplicemente questo, e lo dimostra il pensiero neoplatonico
sull’opera d’arte, ritenuta attributiva, meglio aggiuntiva di «essere» in
termini d’immagine. Dimostrano il contrario sia l’iconicità della nostra
cultura occidentale, che poi diviene la nostra contemporanea società
«dell’immagine»; sia l’importanza, per l’individuazione del tramonto del
medioevo, della fine del «ciceronianismo» all’epoca di Erasmo da Rotterdam: il
medioevo finisce allorquando alcuni uomini ritengono che non si debbano imitare
i classici, nel nostro caso Cicerone. Analogamente: l’essere umano che in
qualche modo conversa o dialoga con la macchina pensante riconosce in sé, in un
riflesso, la possibilità di svolgere prestazioni che hanno la stessa natura di
quelle che la macchina è in grado di eseguire: «la macchina fa questo?, dunque
- ecco il riflesso - questo non ha nulla di inumano».
Accade cioè che si ritengano umane, nella
macchina, quelle caratteristiche che l’uomo è capace di riconoscere in essa. Il
che dimostra però che la definizione di umano è, anche, un modo per dire «penso
che questo sia umano», ovvero: è certo che io mi trovo al cospetto di un fatto
di ricognizione. Se questo ha un suo fondo di verità, può non aiutare a
riconoscere la macchina e la tecnica in ciò che avviene. Non dare autonomia al
saper fare della macchina. A ciò si può contrapporre il bisogno umano di
conoscere la macchina oltre che di riconoscersi nella macchina. In fondo, se
questo non fosse accaduto, non si sarebbe avuto alcun dialogo con il computer.
Tanto l’umanizzazione è sembiante, ed in parte inganno, quanto essa posso dire
che è un aspetto della macchina e della tecnica. Se ogni discorso
sull’umanizzazione tende a conservare margini di ambivalenza, questo lo si
dovrà attribuire al legame di prossimità fra l’uomo e la macchina. Realiter avviene
che la macchina rivela nel suo funzionamento certe corrispondenze con
qualità umane che non si sapevano, e se questo avviene, ciò significa che non
erano qualità umane. Non è importante che cosa certe cose sono, ma come esse
nascono.
ASPETTI DELLA CRESCITA
DELLA INTERIORITÀ DELLE MACCHINE
1.- Ho caratterizzato la «modernità» come
l’epoca storica «dell’anima», intendendo per anima, in generale, qualcosa di
suo che l’uomo vuole fabbricare per sé. Epoca storica dell’anima, ed epoca
dell’attribuzione di valori. Minore divenendo in certo senso la paternità del
sacro, in termini di rappresentazione, o d’immagine. Ed è di questa epoca, ad
iniziare dal seicento, l’inaugurazione di un vero discorso umano sulle macchine
che oggi diciamo «pensanti». Ma ho detto anche: la macchina è congeniale alla
modernità, perché da una certa epoca in poi lo spirito diviene oggetto.
È caratteristica dell’epoca moderna
l’inaugurazione di un vero discorso così sulle macchine pensanti come
sull’intelletto umano: il legame non è diretto, pure esso emerge. Questo io
vedo nel fatto ad esempio che John Locke avesse scritto un trattato nel quale
un’epoca potesse riconoscersi, e nel fatto che in questo trattato egli fosse
partito dalla confutazione della teoria delle idee innate; che dunque avesse
scritto, in un modo profondamente innovativo, sulla capacità del cervello umano
di elaborare idee, o dati (: nulla di preesistente). Su questo aspetto, della
possibilità di elaborare idee muovendo da una tabula rasa, è stata
richiamata l’attenzione dei cibernetici.
Lo spirito diviene oggetto; dunque ora l’uomo si
osserva molto di più; ovvero la riflessione e la scienza sono piuttosto
speculari, antropologiche. Prendiamo la prima metà del settecento: è crollato
il sistema geocentrico, passi giganteschi sono stati fatti nei vari campi delle
scienze con la cosiddetta «rivoluzione scientifica», da Copernico a Newton; ma
l’uomo si fa molto più antropocentrico. Accade che l’umanismo, inteso come
pensiero che ha l’uomo come sempre necessario riferimento a ciò che avviene o
si sa, è forte e cresce, quando le scoperte scientifiche dimostrano quanto
l’uomo sia piccolo, estendendosi la dimensione dell’universo calcolabile. Ma si
è estesa la dimensione dell’universo calcolabile, e vi è e non vi è
contraddizione, se si considerano le motivazioni dello scopritore, ovvero del
calcolatore. Questa non può essere ritenuta una regola sempre valida, ma
probabilmente questo è quanto è accaduto, in una determinata epoca storica.
2.- Prendiamo inoltre un aspetto del settecento
francese, celebrativo della ragione, espresso teoricamente nei primi
dell’ottocento e ancora impigliato, per così dire, nelle metafore
dell’idealismo: l’autoconoscenza, o l’autocoscienza, attribuita in
tali metafore allo spirito, e che è un altro modo di dire che nella modernità
lo spirito è divenuto oggetto.
Che cosa significa ad esempio «subentrare
dell’autoconoscenza»? Significa che da una certa epoca in poi l’uomo divenne
consapevole della distinzione fra producente e prodotto. Che
l’attività del pensiero era attività produttiva; aspetto che secondo certa
interpretazione venne esposto filosoficamente dal giovane Hegel nella sua Fenomenologia
dello spirito. E l’autoconoscenza, dal momento che essa viene esposta,
indica una crescita storica della facoltà astrattiva dell’uomo. Ora, rispensando
per contrasto a Platone io posso dire: in quel tempo forse vi era davvero una
certa quale metafisica dell’oggetto (le cose erano cose), rispetto al tempo
moderno, in cui si scopre la metafisica nel sapere, in cui cioè il
sapere non sembra disposto a rimettersi alle cose.
Ancora, in parallelo: che cos’è l’autoconoscenza
nella sua modernità? È che il rapporto fra uomo e macchina è antico; ma il
pensiero, nell’antichità, e con essa l’uomo non si rimetteva alla
macchina.
3.- Con l’epoca moderna la crescita dell’anima è
tale per cui il pensiero produce, e la produzione viene pensata, si
spiritualizza; l’uomo è in grado di attribuire un’anima. Una cosa esiste dal
momento che è pensata dallo spirito, il quale in questo modo viene a
costituirsi ed è l’oggetto. Ovvero per cui, ancora, se lo spirito è oggetto,
allora l’oggetto si spiritualizza.
Ed è di questa epoca, in relazione con questa
caratteristica, che si ha una evoluzione delle macchine che non ha precedenti
nella storia.
Il rapporto fra uomo e macchina è antico; ma,
osservando le cose dal punto di vista dell’autoconoscenza, si nota come sia
avvenuta nel seicento la nascita di un rapporto specifico con il calcolatore.
Non a caso, si potrebbe aggiungere con il senno di poi; perché il calcolo è
un’operazione molto più umana di quanto non si creda, e perché è un’operazione
molto personale. Non è sic et simpliciter un insieme di
operazioni ripetitive.
Io, personalmente, crederò ad esempio nella
ripetitività del calcolo quanto nella sua ritualità e nei suoi aspetti di
gioco. E cioè sarò disposto a ritenere che nel calcolo vi sia qualcosa di
magico, quanto ve ne è nel fatto dell’intelligenza, e non solo quindi qualcosa
di ripetitivo.
4.- L’evoluzione della tecnica, nell’età
moderna, avviene dunque, in un modo singolare, negli strumenti per il calcolo;
avviene con inerenza ad una evoluzione oggettiva e sociale nell’attività
di calcolo, e cioè con riferimento a ciò che bisognava effettivamente
calcolare, all’oggetto, in relazione ai caratteri che assumeva la storia
sociale, economica e politica. Non nel fatto di per sé stesso, cioè, che si
calcoli e si misuri - si può ricordare con simpatia come nel medioevo il
ragioniere fosse chiamato rationalis -, ma nel fatto che
nell’età moderna si calcoli molto di più che in qualsiasi altra epoca.
Che il calcolo in tale età non sia il calcolo
delle età precedenti, è il frutto della evoluzione di ciò che ci si trova a
dover calcolare. Si devono calcolare costantemente ad esempio, cosa che
nel passato non accadeva, la rotta di una nave oppure il saggio d’interesse del
denaro; laddove una società deve poter calcolare tutto.
In una società che presenta una maggiore
complessità inoltre, cresce l’autoconoscenza, ed il calcolo diviene esso stesso
oggetto del pensiero. Alla cercata universalità, per così dire, degli
strumenti per il calcolo, succedono le teorie in cui il calcolo è oggetto.
Sempre più il ragionamento matematico così si formalizza.
L’idea di calcolo, se osserviamo le cose con
profondità, scopriamo che è insita negli strumenti stessi,
valorizzati da Bacone in quanto strumenti essenziali per il progresso delle
scienze; ed il cannocchiale di Galileo, proprio nella sua qualità di strumento,
fa parte di una cultura generale del calcolo. L’umanismo, in tutto questo, si
può anche dire consistesse, e possa consistere tuttora, nell’attribuzione di
caratteristiche umane, razionali e morali, ai dispositivi. Non interessa però,
qui, parlare dell’umanismo per così dire «storiografico»; ma del fatto
che l’uomo possa introdurre, rendendola attiva, qualcosa di suo nella macchina.
Io penso, con riferimento ai meccanismi per il
calcolo ed alla loro evoluzione nell’età moderna, al significato delle ruote ed
alla differenza tra la macchina di Pascal ed il regolo. C’è un iato, un salto,
fra questi due dispositivi. C’è forse dell’altro; ma a me questo basta, e
ricollego questo salto ad un’idea, moderna, di anima.
L’anima, e l’anima razionale per ciò che in essa
vi è di non razionale, è l’interiorità; ma interiorità mondana,
effettiva, operante, autonomia operativa; e prima ancora, da un punto di vista
fisico elementare, essa può essere resa come movimento. Il greco AnemoV significa
soffio di vita, meglio: vitalità evidente, respiro. Che sono tanto evidenti
quanto inspiegabili nella loro essenza. Evidenti sostanzialmente in quanto
all’effetto, ad una essenza tecnica. Tutto questo in che cosa è traducibile,
tecnicamente - mi domando-, se non nel movimento, nella sua
trasmissione, ed in una cultura tecnica dell’effetto? Il vocabolo Autòmata
significa: «che si sono istruiti da sé», «che si muovono da sé».
Tutto questo ci riconduce a quanto detto a
proposito di Cartesio, e cioè che attraverso il principio del movimento e
meglio ancora attraverso il moto curvilineo, il cosmo si emancipò da Dio.
Io isolo dunque mentalmente due aspetti, con
riferimento al passaggio dal regolo calcolatore alla macchina di Pascal: la
ruota e il movimento. Quel percorso caratteristico, che s’inizia con il matematico
e mistico francese del seicento, consiste nella introduzione, nella
macchina da calcolo, del principio di movimento, corpi che si muovono in forza
della trasmissione del movimento, di un’animazione; le ruote che girano
sono movimento. Idea non nuova, idea che era ben presente ad esempio, sotto il
profilo della trasmissione del movimento, nel duecentesco «teatrino di
Erone», in cui si aveva un rullo «programmatore», che faceva alzare ed
abbassare, in modo alternato, una serie di automi, e bisognerebbe aggiungere,
vista l’etimologia, finti automi.
Ma idea che ora assume una inerenza diretta e
quasi contenuta all’imitazione di operazioni specifiche del cervello
umano, con una meccanica che è quella che può essere, che non è cioè
quella del cervello umano. Per dire con questo: idea di una interiorità,
dare alla macchina una sua interiorità. In un regime,
essenzialmente, di autoconoscenza. Ma anche in un regime di gioco, o
parzialmente tale: il movimento di ruote, a causa della forma singolare che
esse hanno, entra nel gioco matematico, e così accade al gioco del movimento,
dei corpi, dello spazio, che sono tali per cui si producono operazioni
somiglianti al calcolo umano.
5.- Cultura dell’effetto: nel dare
interiorità alla macchina e nella sua animazione, sembra inscritta già
dall’inizio, oltre che l’idea di movimento, la razionalità di un
funzionamento, razionalizzazione di un qualcosa, intensificazione della
razionalità umana. Se il movimento non fosse stato in qualche modo razionalizzabile,
e se non fosse stata funzionale la razionalità di una ruota che gira, non vi
sarebbero stati i successivi progetti leibniziani.
Per cui per dare ad una macchina un’anima si
dovranno cogliere ed applicare i principi razionali di un possibile
funzionamento in relazione ad uno scopo. Si svilupperà in questo modo il
discorso sulla programmabilità, sulla sequenzialità delle operazioni che la
macchina dovrà eseguire, accrescendosi così in essa l’autonomia e profilandosi
la capacità di pensare; discorso sulla localizzazione in una macchina di
un’anima razionale, rispetto ad un’anima esecutiva di ordini, rispetto ad
un’anima conservativa di memoria.
6.- La ruota dunque, il movimento, il gioco, la
razionalità; direi di più: il gioco della razionalità e la razionalità del
gioco.
Ma nella natura, e nel senso originario di
questo percorso, che attraverso scoperte importanti nel campo della tecnica
delle comunicazioni (Baudot, ad esempio) e nell’elettronica conduce poi al
fenomeno computer, avviene qualcosa. Qualcosa di analogo al fatto
che l’autoconoscenza della speculazione filosofica sia un rendere
irriconoscibili gli oggetti, ovvero una forte manipolazione. Saltare, non
semplicemente regredire, accedere, in un mondo nuovo.
Secondo quanto si è già accennato, nell’andare
da una meccanica esteriore, per così dire, in cui l’uomo è
esterno, per lo più allegorico, raffigurabile nell’automa, in cui cioè
l’esteriorità di ciò che è meccanismo è ben rappresentata nel fatto che l’uomo
sia allegorizzato nell’automa, ad una macchina sempre più interiore, in
cui qualcosa che è evocativo dell’umano si localizza, come un’anima, dentro la
macchina, avviene qualcosa che è istintivo definire «rivoluzionario».
Il computer, come fenomeno e per il
suo valore di scoperta, è stato considerato qualcosa di rivoluzionario,
ed è stato accostato per importanza alla scoperta del fuoco. Si è parlato anche
di mutazione, nel senso biologico del vocabolo.
7.- Furono gli illuministi nel loro umanismo a
ritenere che i fatti che avevano caratterizzato la storia delle scoperte
scientifiche da Copernico a Newton avessero costituito una «rivoluzione
scientifica». Furono essi cioè ad introdurre la parola ed il valore
«rivoluzione»; alludendo probabilmente al fatto che fosse cambiato
moltissimo nella rappresentazione umana del cosmo e della natura delle cose, in
relazione ai progressi nel campo delle scienze della natura.
La storia delle scienze, secondo Diderot e
D’Alembert, era segnata da una serie di rivoluzioni; scrivendo la storia del
progresso scientifico si poteva attribuire carattere rivoluzionario anche ad
alcune fasi dell’antichità; Bailly, nella sua Storia dell’astronomia
moderna dopo la fondazione della Scuola di Alessandria, «introdusse
rivoluzioni di molte specie e grandezze»[33].
Progressi avvenuti nel campo delle scienze della
natura, certo, ma io direi: in generale nei fatti mentali di quantificazione.
Newton che quantifica il cosmo, e poiché quantifica, rappresenta,
relega d’improvviso nei musei antropologici le vecchie carte e mappe: questa è
la novità.
Se rivoluzione vi era stata, essa aveva
riguardato la rappresentazione del mondo quale calcolo del mondo. Se si dice
che un fatto è rivoluzionario si quantifica quel fatto in termini di
rappresentazione[34].
Rivoluzione dunque nella rappresentazione, ed
installazione della rappresentazione della rivoluzione. Qui è come se si
facesse largo, come se acquisisse i suoi primi spazi, una moderna anima
sensibile. Con l’anima razionale produttiva si ha anche necessariamente il
venire a galla di un’anima sensibile.
8.- A proposito di potenzialità rivoluzionaria,
o se si preferisce di ciò che non è in atto, io mi domando che cosa
sia il software. È il materialismo insito nel principio di ragione,
ciò per cui la ragione è materia. Ciò che è tanto più evidente quanto maggiore
è il livello raggiunto dalla tecnologia.
Il software sono sì semplici
istruzioni date alla macchina, ma è un modo di far sì, ad esempio, che un
oggetto ci appaia irriconoscibile, o che si abbia l’impressione di non averlo
mai conosciuto.
Nella natura del software si
annida una quasi infinita possibilità di manipolazione degli oggetti, delle
immagini, delle sensazioni. La quasi infinita possibilità consiste nella
cosiddetta virtualità. La comunicazione fra uomo e macchina, fra
uomo ed oggetto è tale in essa, per cui l’uomo è colui che «crede di»,
crede ad esempio che guerra non vi sia stata pur essendovi state morte e
distruzione - come è accaduto -, al di là di qualcosa che accade.
Il mondo degli effetti è tale per cui
avviene la reale produzione di un mondo percettivo generale. Ed in questo
mondo chi sta nell’abitacolo o nella cabina di comando, rispetto
all’effetto, tende ad essere un ente minore. O quanto meno: parte di un
tutto.
9.- Nel cosiddetto postmoderno, maggiore è
l’interiorità dell’oggetto-macchina, maggiore la comunicazione, che s’impone,
maggiore il senso ora del terminale, ora dell’anonimato dell’ utilizzatore.
A questo punto, ci si domanda, che cosa è
successo? Ovvero che cosa è ciò che si dice rivoluzione? La
sensazione generale è che vi sia stato un vero travaso: di bellezza, di
capacità di pensare, di calcolo. Nella interiorità, prodottasi, dell’oggetto,
dell’oggetto-macchina, nella razionalità di questa presenza, vi è una esistenza
nuova, dotata di anima.
Quell’umanismo che è concresciuto con
l’assurgere la macchina ad oggetto del pensiero, quel tentativo di sistemazione
sempre più intenso delle strutture o riflessi del cervello umano, ora vede
nell’uomo artefice, costruttore e programmatore una figura terminale.
Profondità d’animo di un fatto.
L’interiorità della macchina, ripensando ai
progenitori Pascal e Leibniz, è divenuta un sistema universale, il cui
fondamento è la comunicazione.
10.- Nella natura del software è
come racchiusa la possibilità di mutare la nostra rappresentazione del mondo e
degli oggetti. È la prassi, degli idealisti, la storia degli
storicisti, che prende altre forme.
È in ballo l’epistemologia, s’intuisce perché
possa apparire traballante o non molto convincente l’epistemologia scientifica,
avvolta in un sostanziale logocentrismo, ed è parimenti in ballo l’uomo
sensibile. Tutto ciò lo si deve alla interattività ed alla comunicazione.
Al fatto, meglio, che l’oggetto materiale non è tutto ciò che ci è dato
dall’oggetto; e che l’oggetto più significativo è la macchina.
11.- Noi possiamo esprimere, rilevando il fatto
che gli oggetti siano mutati, un cambiamento avvenuto nella nostra sfera della
rappresentazione.
Che cosa è un oggetto reale inerte nel quale sia
stato immesso un software, una memoria, ed un microprocessore? Esso
non è più lo stesso oggetto. Sembra, per chi muova da un mondo tradizionale di
sensazioni e di concetti, un oggetto stravolto, impazzito. È divenuta
discutibile, nella sua configurazione, la categoria mentale di oggetto, e
bisognerebbe riscrivere un Trattato sulle sensazioni, o una Critica della
ragion pura.
12.- La mutazione, che interessa la sfera
oggettiva, corrisponde probabilmente ad una crisi del principio di evidenza,
ovvero di quei segni per cui qualcosa ci era familiare. Quell’oggetto era reale
a causa della sua inerzia e mera esteriorità. Se esso (mettiamo una forma
rettangolare in plastica) è tuttora tale, lo è solo secondo l’evidenza (viene
spontaneo dire: la cattiva evidenza): in realtà ha una sua potenzialità
autonoma, una sua personalità, un’anima. Ha memoria, ha capacità di
elaborazione di dati. Che lo si possa comodamente tenere in una tasca della
giacca non ha alcun significato, dal punto di vista razionale.
13.- La domanda, sul che cosa stia accadendo nel
rapporto fra l’uomo e l’oggetto, può anche essere la seguente: una volta quali
erano i luoghi della ragione, e quali sono oggi?
Il mondo oggi è tale, per cui l’oggetto può
essere ritenuto serbatoio di sapere[35], si legge. Ora
vorrei ampliare questa espressione: serbatotio di sapere. Ed intenderla nel
senso che se in un prodotto vi sono arte, industria, scienza e tecnica
accumulate, allora esso può trasmettere quel sapere che una volta gli oggetti
non potevano trasmettere. Non so se le cose siano semplificabili in questo
modo; ma noto come sia mutato, nel pensiero di filosofi rappresentativi del
nostro secolo (penso essenzialmente alla «Scuola heideggeriana»), l’approccio
sensibile e contemplativo con la «cosa della tecnica», l’opera d’arte, gli
oggetti, le parole del linguaggio. Tutto questo è in fondo sintomatologia, e
significa: è mutato l’oggetto, in generale, nelle sue proprietà, ed è mutato,
sta mutando, il mondo delle rappresentazioni umane.
14.- L’oggetto meccanico diviene elettronico.
Leggo in un libro, a proposito dei criteri di classificazione degli oggetti
elettronici, una espressione significativa e cioè: «nuove tipologie di
oggetti». Ovvero: ci si domanda come classificarli, tali oggetti, secondo la
sostanza, rilevate le insufficienze della classificazione merceologica[36]. È forte, l’esigenza di riclassificare tutto il mondo
degli oggetti elettronici, perché oggi è come se tali oggetti si staccassero
dal referente: il word processor dalla progenitrice macchina
da scrivere, la macchina fotografica dalle sue versioni meccaniche. Ma il
discorso può essere ampliato, considerandolo vero non per tutti gli oggetti, ma
per tutte lo forme di oggetto.
A proposito degli oggetti elettronici, ed a
volere un po’ riassumere le cose, si può avere un riscontro sui legami di
necessità storica fra l’anima razionale di Cartesio e la moderna
storia delle macchine da un approdo cui questa storia giunge, e cioè dal fatto
che - come si dice - l’oggetto «reale», l’oggetto «materiale», oggi, ha una sua
«esteriorità» ed una sua «interiorità»[37].
L’interiorità è ciò che realmente accade nell’oggetto, l’esteriorità è
ciò che noi affermiamo accadere a quell’oggetto, o anche ciò che si vuol
fare credere accada. Mentre l’interiorità sempre più si distacca, si
allontana, dalla esteriorità, l’uomo utilizzatore è con l’esteriorità che
ha a che fare e crede che quel rapporto sia il suo vero rapporto con l’oggetto.
E dunque che quello sia l’oggetto. Ma non è così.
15.- Si può avere un profilo sintomatologico di
ciò con riferimento al rapporto fra due storie: quella dell’oggetto,
in modo particolare l’oggetto-macchina, e quella del giocattolo.
L’oggetto, con il suo sapere, è il giocattolo, il quale ha una sua meccanica
ingegnosa, la quale è tanto più ingegnosa quanto maggiore è l’effetto di
sorpresa. Il giocattolo è simbolico, esso emula la realtà, ha una sua autonomia
o «personalità», ma si sa che è un giocattolo, e cioè vige la differenza, nelle
immagini o nelle rappresentazioni, tra un giocattolo e la macchina. Nella
macchina, dotata di un’anima razionale, non si sa dove sia il giocattolo, ma
s’intuisce la presenza di un quid come un gioco. E di più:
anche se si sa che cosa la macchina potrà fare, ci si sorprende di ciò che essa
fa. Detto altrimenti: l’interiorità dell’oggetto, essendo qualcosa che non
appare dall’esterno, si può sprigionare, da un momento all’altro, come accadeva
alla lampada di Aladino: basta sfregare un po’ e di lì si sprigiona una
potenzialità insospettata. Chi crederebbe che una vecchia lampada, simile in
tutto alle altre che si possono trovare sulla bancarella di un mercatino
domenicale, sia tutt’altra cosa?
Ma ora non è semplicemente così, e di più si può
dire: chi crederebbe di potersi sorprendere, come l’ingenuo selvaggio, delle
prestazioni del genio di Aladino, pur sapendo quello che il genio può fare?
L’interiorità si può spiegare in questo modo.
Essa fa capo direttamente al fatto. Non a parole, non a concetti. Ovvero: il
tecnico sa, ma solo dopo aver provato.
16.- L’interiorità e l’esteriorità delle
macchine richiamano l’evoluzione nel campo dell’interfacing, e così il
fenomeno di per sé dell’interfaccia grafica che scaccia il buio e rende la
macchina più familiare, meno estranea, evocando oggetti familiari mediante una
iconografia, fa riflettere.
L’interfacciamento fra uomo ed oggetto-macchina
è un fatto di strumentazione importante perché si possa dialogare con la
macchina; ma esso in realtà è un inganno utile e necessario; e cioè è comunque
un inganno, dovuto all’interiorità della macchina; esso è inganno ed è tale per
cui nella sostanza l’interattività avviene con qualcosa che non risponde
all’apparenza creatasi con l’interfacciamento.
17.- La distinzione: fra una interiorità ed una
esteriorità dell’oggetto materiale la cui distanza vieppiù si accresce
scavalcando le nostre capacità rappresentative, suggerisce un’altra riflessione
di ordine generale.
E cioè: sulla iconografia molto s’insiste quando
ci si occupa di prestazioni delle macchine pensanti o di raffigurazione
artistica; ma il nostro mondo degli oggetti quale mondo di rappresentazioni non
è semplicemente iconografico; il nostro umanismo di occidentali è anche
meccanicistico. Noi versiamo in una cultura meccanicistica.
Prendiamo tre cose della tecnica, tre oggetti:
il personal computer, il frullatore, e la bicicletta.
Al di là della nostra cultura iconografica noi ce li rappresentiamo allo stesso
modo, secondo l’esteriorità, in quanto oggetti meccanici. Noi abbiamo una
rappresentazione meccanicistica di quegli oggetti.
Ma sappiamo, possiamo giungere a capire, che non
è così, se non per un senso di comodità e per l’utile della rappresentazione.
Se l’interfacciamento è umano, l’interiorità è una immagine. Nulla meglio della
interiorità attribuita ad una macchina o in generale ad un oggetto esprime
qualcosa che avviene perché non poteva non accadere, date certe condizioni.
18.- Il distacco crescente fra interiorità ed
esteriorità di oggetti materiali può essere interpretato come uno
stravolgimento dell’oggetto rispetto alla sua immagine. Esso è tale per cui non
è più lo stesso.
L’oggetto non si può più identificare per la sua
forma, rispetto alla quale esso appare come stravolto. Ciò che nel moderno è
attribuzione di valori, di fronte alla crisi dell’anima nel «postmoderno» può
presentarsi come trasfigurazione di valori.
L’interiorità degli oggetti, nel suo
distanziarsi sempre più dalla loro esteriorità, è essenzialmente elettronica;
questo significa che oggetto e macchina tendono a confondersi, e che lo
stravolgimento riguarda il nostro rapporto con gli oggetti in quanto macchine.
19.- Questa impressione di uno stravolgimento in
fondo può dirsi corrispondere ad una sorta di trasfigurazione che caratterizza
l’evoluzione delle macchine-progetto. Nella «macchina analitica» di Babbage,
come si è visto, le ruote numerate divenivano (come) dischi, impilati, per
la registrazione. Lo stravolgimento avveniva a causa della interiorità.
Analoga considerazione può essere svolta a
proposito della «macchina universale» di Turing. Mi domando: che cosa è
la macchina universale rispetto ai miei livelli di rappresentazione?
Nell’apparenza, per come essa è descritta, è una macchina da scrivere; in
realtà però le cose non stanno così.
Essa e cioè l’interiorità, è una metamorfosi,
una fantasizzazione, della macchina da scrivere, un suo impazzimento o un
divenire irriconoscibile, per cui all’improvviso la sua testina è anche un
occhio, il quale è in grado di leggere, riconoscere, oltre che scrivere;
leggere e scrivere su una striscia di carta teoricamente infinita, suddivisa in
tantissimi quadratini, altra esteriorità, ognuno con su raffigurato, dunque
consistente in, un suo simbolo; infinita, ovviamente, non la striscia di carta
in quanto tale, la quale invece sarà sempre necessariamente finita, ma le sue possibili
combinazioni, la possibilità che ha la testina di andare avanti e indietro (non
essere dunque unidirezionale e lineare) leggendo i simboli e venendosi a
riconfigurare, ogni volta, alla lettura di ogni nuovo simbolo, la macchina. Un
quadratino che riconfigura una macchina... Questo regime lo possiamo
considerare d’irriconoscibilità.
L’idea è anche quella dell’omeostato progettato
dal neurologo Ashby, sotto il profilo della autoregolazione dei quattro
sottosistemi, e della eguale possibilità, in qualunque momento, di ognuna delle
quasi quattrocentomila configurazioni[38]; e quindi
quella della cosiddetta randomness.
20.- Quella di rendere irriconoscibili le cose
una volta era l’accusa mossa alla metafisica della filosofia moderna; Feuerbach
a proposito del pensiero hegeliano sosteneva, criticandolo, che esso
presentava-pensava le cose in maniera tale da renderle irriconoscibili;
che esso tradiva la sensibilità; che esso stravolgeva l’evidenza sensibile.
Difficile dire dove vi fosse più verità: se
nella critica feuerbachiana o nel sistema hegeliano. Probabile che l’invito, ad
un nuovo bagno nella esteriorità sensibile indicasse che l’oggetto, pur
descritto com eterno o naturale, dal punto di vista del pensiero e della
rappresentazione, stava cambiando, o era cambiato.
È certo poi che il principio di evidenza sembra
essersi indebolito. O comunque esso presenta maggiori debolezze, rispetto alle
potenzialità dell’astrazione razionale, secondo il principio del cogito
ergo sum, per cui la falsificazione appare in generale come un prodotto
dell’ingegno; nel mondo dell’intelligenza delle macchine come un contenuto
positivo. Ovvero, se io dico «questo oggetto è stato falsificato», io esprimo
in modo generico una regola generale, non un disvalore.
21.- L’evidenza si è trasformata, perché la
crisi ha colpito da tempo il vecchio principio di non contraddizione. A causa
essenzialmente di una maggiore profondità nella produzione, questo principio si
è come indebolito, e meglio, bisognerebbe dire, l’evidenza si è dualizzata; nel
senso che essa costituisce ora lo strumento, sia per progredire (il «questo se
non è così, il risultato non sarà questo», del procedimento tecnico), sia per
ingannare (il «se questo appare come risultato, allora questo è vero in sé»,
prodotto tecnico).
La tecnica si è potenziata attraverso l’inganno
tecnico; il poter far credere qualcosa da parte della tecnica si è accresciuto.
Tipici sono in questo l’interfacing e la realtà virtuale.
Arte dell’inganno, contraffazione, come
potenziale tecnico, consiste oggi nel fatto che si possa ingannare sia con il
vero sia con il falso. Quello che viene considerato qui come
«stravolgimento» consiste in generale nell’inganno procurato dall’evidenza
dell’oggetto rispetto alla realtà ed alla sostanza, il che si ha nel verismo
rappresentativo, per cui ciò che appare è, come accade nella cosiddetta «realtà
virtuale».
22.- Stravolgimento e magia sono parole che
servono a definire la possibilità. «Detto fatto», può essere il
motto nel rapporto che si stabilisce fra ciò che vogliamo che sia fatto e ciò
che viene fatto in men che non si dica. Limitativo dunque in generale parlare
della possibilità, questa profonda categoria della mente, al di fuori del mondo
delle macchine.
23.- Si può dire: ciò che avviene realmente, ciò
che avviene di progressivo, è ciò che si può ritenere imbroglio, trucco, creazione
di apparenze, falsificazione. Il falso è il reale in quanto sia riprodotto
veristicamente. Il vero è tale in quanto possa essere falsificato, ciò che il
profondo della produzione, che si attua.
Ci si può interrogare nuovamente su quale sia
l’essenza della tecnica, ritenendo ora che nessuno possa mettersi a confutare,
pena una perdita di tempo, il principio per cui la tecnica è manipolazione ed
inganno dell’oggetto ed è il significato di quella manipolazione. Il fatto che
un oggetto diventi irriconoscibile, è legato alla natura ideativa della
tecnica, quanto il fatto che un oggetto sia vero, tangibile...
Ma che cos’è l’inganno, riferito alla tecnica?
Si chiama inganno, o trucco, in relazione ad un oggetto, ciò che avviene in
esso raggiunto un notevole potenziale della tecnica. Una interiorità, come si
diceva, che sappiamo quello che può fare, ma che in questo suo fare purtuttavia
è sorprendente. Il sorprendente di ciò che non dovrebbe sorprendere.
Io non accentuerei l’aspetto dell’inganno, in un
senso simile a quello della morale sociale comune. Lo vedrei meglio nel senso
ad esempio, della virtualità. Il desk-top è
ambiente virtualizzato.
L’interfacing non è il semplice
inganno, o il semplice trucco, ma è il «come se». Il «come se»
corrisponde al fatto che è lo spirito sia divenuto oggetto; ciò in cui consiste
la realtà dell’anima. L’anima, cioè, è il come se. In questo sostanzialmente il
produrre può essere identificato, spacciato, per l’accadere. In ciò gli
effetti, i risultati percettivi, da un punto di vista realistico, e cioè vinta
la prima impressione, sono di un viaggio nel come se dell’anima. La casa
elettronica, dentro cui si passeggia, è un viaggio in una dimensione
dell’anima.
24.- Il problema è sempre quello che si ha nel
rapporto fra l’uomo e la macchina. Questo rapporto è un rapporto diretto, per
l’uomo, un rapporto terrestre, un avere a che fare essenzialmente con l’uomo.
Ovvero: i problemi attinenti alle macchine pensanti riguardano l’uomo, il quale
è come fosse chiamato sempre di più a fare i conti con la sua
mente, la sua sensibilità, ecc.
Riguardano qualcosa di terreno, a differenza di
quanto accade nella fisica, soprattutto astronomica. Lo spazio e tempo della
macchina sono lo spazio e tempo della macchina. La tecnica è in questo
suo carattere terrestre che viene ad incidere sull’umanismo dell’uomo. Ad
invadere il campo.
Vi è l’umanismo pre-galileiano, l’umanismo
dell’usuraio medievale, e quello post-galileiano. L’umanismo delle humanae
litterae ... Ma umanismo dal punto di vista formale è l’uomo che sa di
avere quella essenza che ad esso è data dal suo essere «terrestre»[39], terrestrità alla quale sempre ritornerà, nella sua
cultura materiale, nel suo comportamento.
25.- Colpisce, la terrestrità della
macchina... Più che antropomorfica o antropomorfizzabile, la macchina è
terrestre: essa appartiene alla storia della terra e alla terra, ecc. è
terrestre forse proprio perché vuole liberare dalla terra… E questo mi fa
riflettere su una serie di cose, non ultima la parziale artificiosità del conflitto
fra tecnologia e umanismo. ..
(scritto nel 1995)
[2] Cfr. Ecfanto,
frg. n. 1, in I presocratici, a cura di h. Diels-w. Kranz, trad. it., Milano
1991, p. 525.
[3] L’espressione è di Walter Benjamin. Sull’«uscita dell’arte dai
suoi confini istituzionali», si veda il libro di G. Vattimo, La fine della modernità,
Milano 1985, soprattutto la Sezione Seconda («La verità dell’arte»).
[4] Cfr. Garassini, Gasparini, op. cit., p. 108.
Il parere di Ph. Queau è
contenuto nel suo Noeuds virtuels, intervento al convegno tenutosi
presso il Politecnico di Milano, sui «Labirinti virtuali», nel 1992.
[7] René Descartes, L’homme,
trad. it. in Opere filosofiche, trad. it., Bari 1986, I, pp.
205-206. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[12] Da una lettera di Descartes a Picot, riferita all'inizio del Ritorno
al fondamento della metafisica, in heidegger, Che
cos'è la metafisica?, trad. it., Firenze 1984, p. 63.
[13] Descartes, Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere,
I, trad. it., Bari 1967, p. 33 («Regola VI»).
[14] Ernst Cassirer, Storia
della filosofia moderna, I. «Dall’umanesimo alla scuola cartesiana», III,
trad. it., Torino 1978, p. 535.
[16] Con parole agostiniane: «Deum et animam scire cupio». Cfr. Koyrè, Lezioni su Cartesio,
cit., p. 76.
[18] Vernon Pratt, Macchine
pensanti, L'evoluzione dell'intelligenza artificiale, trad.
it., Bologna 1990, p. 91.
[19] Gottfried Wilhelm Leibniz, Nuovi
saggi sull’intelletto umano, trad. it., Bari 1988, pp. 103 e ss., 128 e ss.
Un riscontro, puntuale, di tale asserto, lo si
può avere nel libro di Francisco J. varela, Evan thompson, Eleanor Rosch, La via di mezzo della
conoscenza (trad. it., Milano 1992). Si veda ad esempio nel primo
capitolo.
[27] Si veda a questo proposito la «panoramica» sull’argomento offerta
nella voce Rorario da Pierre Bayle, nel suo Dictionnaire.
[30] M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in
relazione ad un episodio della vita di Eraclito, tramandato da Aristotele;
traduzione di un frammento eracliteo: «l’uomo abita in prossimità del
dio». Cfr.: Pier Aldo Rovatti
Alessandro Dal Lago, Elogio
del pudore, Milano 1989, p. 39.
[32] Norbert Wiener, Introduzione alla
cibernetica, trad. it di The Human Use of Human Beengs, Torino
1982, p. 24.
[33] Si veda un po’ tutto lo scritto di I. Bernard Cohen, Le origini settecentesche
del concetto di rivoluzione scientifica, in aa.vv., Interpretazioni dell’Illuminismo,
Bologna 1979.
[34] È probabile che le rappresentazioni della nostra mente siano
comunque fondate su operazioni di quantificazione. E’ quanto meno probabile che
nel settecento la scienza umanistica della rivoluzione fosse più volutamente o
decisamente dipendente dal calcolo, più di quanto non possa far ritenere la
romantica psicologia del «genio», che non tardò a prendere piede. Una
rivoluzione dunque cambia in una maniera quantitativamente notevole il nostro
apparato rappresentativo delle cose, del tempo, dell’oggetto. E nel giudizio è
come se si saltasse dalla quantità nella qualità.
Darei risalto, personalmente, al rapporto
stretto che vi è fra la parola «rivoluzione» ed il nostro modo di
rappresentare cose e fatti. È il mondo delle rappresentazioni infatti a essere
la sede del mondo degli oggetti, del nostro rapporto con l’oggetto.
[35] Marco Susani, Dialoghi
con gli oggetti, in aa.vv., Il
progetto delle interfacce, Milano 1993, pp. 212.
[38] Paul Watzlawick,
Janet h. Beavin, Don d. Jackson, Pragmatica della
comunicazione umana, trad. it., Roma 1971, p. 26 e s. (1.4).
[39] Immagine che traggo dal saggio di Werner Sombart, Tecnica e cultura,
in aa.vv., Tecnica e
cultura, trad. it., Milano 1987, p. 152.
più che da Dio, la macchina proviene per diventare protagonista dall'allontanamento da Dio come fonte
RispondiElimina