mercoledì 4 settembre 2013

"Omnis machina a Deo" (?): studio preparatorio per uno scritto su “L’anima e la macchina”




SULLA «MODERNITÀ» E LA «MACCHINA»


Chi è?

1.- L’anima, leggo in un testo del settecento,  «non è [...] altro che un termine vago, di cui non possediamo alcuna idea e di cui un buon intelletto deve servirsi per nominare quella parte che pensa in noi»[1]. Dunque è come si discendesse da Dio verso l'uomo in forza dell'anima
Io direi anche questo, inoltre, prendendo spunto da tale brano: che l’anima, se in qualche modo si giunge a sostenere che essa «non esiste», è proprio ciò che l’essere,  razionale e pensante, dovrà costruirsi. Non sic et simpliciter  come ci si costruisce una finzione o come si ha, mentalmente, un’immagine ma, anche, come si «mette su» una casa, per costituirsi in quanto essere razionale e pensante, e per continuare a stare sulla Terra. Stare sulla Terra nei termini di una fondamentale condizione
Io posso immaginare così che fatto saliente e significativo  dell’età moderna sia la nascita ed il formarsi di un’anima razionale produttiva ovvero prodotta-riproduttiva-riproducibile. Un’anima in ciò, anche, circolare
E aggiungo subito, per illustrare i legami che sono alla base di questo scritto, che quest’anima è sorta in quel modo, razionalistico, contenuto nel messaggio lamettriano, per essere poi consegnata in quanto tale all'epoca cosiddetta «post-industriale», ovvero epoca della filosofia e arte cosiddette «postmoderne»; essendo immersi nella quale si crederà invece che la modernità in questo modo sia «superata». (Potremmo però anche risalire molto nel tempo e scomodare Platone: la conoscenza, contrariamente a quanto sosteneva Protàgora, non consiste nella sensazione ma in una attività di elaborazione da parte dell'anima.) 

Nascita di un’anima razionale produttiva non significa, certo, sorgere di qualcosa che è un presupposto delle cose; o sorgere del pensiero che pensa, della capacità di pensare dell’uomo, della sua virtù di astrarre; ma il presentarsi di tutto questo in una chiave produttiva, di un’anima e di un mondo razionale che sono collegabili e collegati alla sensibilità, e potenzialmente rinnovantisi.
Non si tratta dunque dell’anima per come ne parlava anticamente Ecfanto di Siracusa, ad esempio, secondo il quale i corpi sensibili vengono da corpi indivisibili, ma l’anima li muove[2], affermazioni che restano come tali e che appaiono come il frutto dell’accostamento, immediato, fra ciò che è naturale e qualcosa che costituisce vago termine di ricerca o traspositivo di una economia troppo umana.
Ovvero non si tratta di una qualsivoglia anima razionale, di un’anima razionale semplicemente detta, pronunciata come fosse un dato, ad esempio in una delle molte argomentazioni che s’incontrano nella filosofia medievale.
Ma di qualcosa in cui il produrre, od il riprodurre, il costruire ed il poter sempre ricostruire, per avere in sé una dose di materialismo razionale ed un indice di esistenza maggiori rispetto a parole vaghe, si presenta come il primum. In cui cioè il produrre, col trascorrere del tempo - per così dire -, si espande, perde il legame inerente di causalità-linearità, sino ad essere riconosciuto non già come il semplice rapporto di causa ad effetto, ma come l’evoluzione del riprodurre in quanto tale, il poter riprodurre come la nuova fondamentale condizione oppure  come  la possibilità, o anche come l’istituirsi-aprirsi (nel gergo che userebbe una illustre scuola del pensiero contemporaneo) di un qualcosa.
E si deve ammettere dunque che il produrre è, nel suo espandersi, la strada che conduce al dominio dell’astrazione, consistendo l’astrattezza, per il suo carattere di universalità, nel fatto che si producano, che vi sia la possibilità di riprodurre, così corpi come oggetti spirituali, immagini, sensazioni (indifferenza - quasi - dell’animo rispetto alla qualità del prodotto);  che si producano immagini così come si producono un tavolo, una pasta alimentare, una saponetta, un vestito, parole.
Ovvero anche, volendo riprendere il concetto sopra espresso, sul produrre-riprodurre, ma vedendo le cose da un altro punto di osservazione: la riproducibilità, come insegna il progresso nella chimica, riconduce al valore storico della produzione. Infonde maggiore consapevolezza in tal senso.
La riproduzione-riproducibilità ha invaso infatti, per così dire, il campo dell’arte, il tempo, lo spazio; ad esempio: riproducibilità, tecnica, dell’opera d’arte[3], oppure: emulazione, virtualizzazione tecnica, di fronte a cui, come è stato asserito da Philippe Quéau, la spazio-temporalità, rispetto a come essa fu illustrata dalla ragion pura kantiana, perde il suo rango di «categoria», di forma a priori della  ragione[4].
Il nesso, che si può istituire, è fra la nascita della modernità come anima che l’uomo si fabbrica quale essere pensante, come idea di tutto questo; e l’attuale caratterizzazione della produzione, dal punto di vista della potenzialità tecnica. Il nesso cioè viene in mente dal momento che si divenga pensosi dell’età, non solo novecentesca, ma prima ancora ottocentesca, risalente in quanto tale ad epoche che le hanno precedute, e dunque per questo dico «moderna», guardando le cose, la storia, da dentro l’età cosiddetta «della tecnica».
L’astrattezza della produzione, che si manifesta nella riproducibilità in generale, si manifesta negli strumenti che servono alla produzione o riproduzione, la quale alla fine si presenta come produzione o riproduzione di ciò che è astratto. (Se oggigiorno ad esempio si pensa il cosiddetto «virtuale», ciò avviene, credo, perché la riproducibilità di qualcosa è il frutto di un astrarre che si è accumulato nelle sue realizzazioni). 
Ovvero, osservando le cose dal punto di vista dei cosiddetti «strumenti»: l’astrattezza della produzione è l’astrattezza che la macchina ha acquisita in quanto macchina «imitativa», per così dire secondo la possibilità del linguaggio, dell’uomo.  Essa è essenzialmente o forse anche illusoriamente, imitativa, ma ha cominciato ad esserlo di «ciò che l’uomo fa», per divenirlo di «ciò che l’uomo sente, pensa». Di ciò che l’uomo è in quanto essere pensante o senziente. Ulteriormente «interiorizzandosi». Ma allo stesso tempo ulteriormente allontanandosi, come accade che vi sia un doppio.
La macchina «imitativa» in questo modo, dando per buona questa possibile visione delle cose, può essere ripensata, più o meno metaforicamente, come un’anima da dare al corpo. Ritenendo, comunque, di essere nelle approssimazioni e nell'analogia.
«Anima da dare al corpo» significa ad esempio che la macchina è luogo per ospitare interiorità, essendo interiorità realisticamente il fatto che l’uomo pensando calcoli; e sono le idee o gli oggetti osservati come «allocazione» e «registrazione», creazione di memorie.
La dinamica della mente umana, in quanto in essa vi siano ricompresi interiorità, memorizzazione di dati, dinamica dell’immagine, indica caratteristiche vecchie quanto  l’umanità, alcune fra le quali hanno interessato i filosofi dell’antica  Grecia e meglio l’antica cultura egizia; ma tali caratteristiche io noto come a decorrere da una certa epoca divengano riproducibili, e ancora io noto come esse si  materializzino fuori dell’uomo, sganciandosi, essenzial­mente, in ciò, da quella che direi la condizione psicologica dell’unico  (facente capo ad esempio a proposizioni recondite del tipo: l’uomo è l’unico, lo è l’io, valore del , esiste in fondo un unico-vero-Dio, ecc.).
Si tratta di caratteristiche, cioè, che non è più così evidente, oggi, che siano attività spirituali. Interiorità dunque e non interiorità; il che non esclude la mia teoria dell’anima moderna.
Interiorità e non interiorità, per avere l’esteriorità perso il suo stesso principio, di essere esteriore. O  per cui si possa parlare di «essere nell'esteriorità».
(Ovvero: nel mondo della produzione il soggetto tende alla referenzialità. Espressione che va approfondita).

2.- Con la mia tesi, sulla nascita dell’anima - evoluzione della teoria dell'anima - come caratteristica dell’età moderna, io riannodo ulteriormente i legami fra ciò che sembra essere tutt’altro che cartesiano  (ripenso un po' sorridendo al Cartesio che era già vecchio e ridicolo agli occhi di un Voltaire, se confrontato con la cultura newtoniana, e dunque al fatto che in certo senso allora ciò che era newtoniano a proposito del pensiero della fisica cosmologica, non fosse cartesiano) e ciò che è cartesiano.
(Questa posizione mi sembra rafforzata dal fatto ad esempio che il postmoderno riprenda certi passaggi delle Meditationes e vi veda qualcosa che potrebbe essere ritenuto, secondo i modelli consueti della interpretazione,  «non-cartesiano»: si pensi, con J. Derrida, al valore del sogno, in funzione dell’approdo alla verità del cogito ergo sum, considerando beninteso tale approdo non già come qualcosa che nega o supera il sogno; si pensi, anche, alla bidimensionalità, al piano ed agli assi cartesiani, alla bidimensionalità che è vera, naturale, rispetto ai progetti tecnologici del tridimensionale; ecc. O si pensi allo Husserl delle Meditazioni, secondo il quale Cartesio col suo «puro ego cogito» avrebbe inaugurato «una filosofia di specie interamente nuova», consistente in una «svolta radicale dall'oggettivismo ingenuo a un soggettivismo trascendentale». )
In tal senso bisognerebbe invece ripensare. Si potrebbe notare che il deserto che ci comanda, il «nulla» proclamato dall’esistenzialismo, è un po’ il deserto cartesiano, e cioè ad esempio il fatto che il cosmo sia rappresentato in una maniera tale per cui in esso non vi è posto né per Dio né per l’uomo.  Un cosmo che più lo si conosce, più sembra restituirci quel deserto.
Dunque il deserto della tarda modernità è l’erede ed in certo modo la realizzazione di qualcosa che avvenne, che venne in superficie, con Cartesio. Il «negativo» di Cartesio è accostabile al nichilismo di Copernico segnalato da Fr. Nietzsche, ad esempio.
Difficile dunque parlare sic et simpliciter di «superamento».
Il deserto cartesiano è però ancora molto un metodo, è personalità scientifica, non sono sentimenti esistenziali di un declino, non è abbandono, non è la sensazione che non ci resti altro da fare che pensare, costruire in genere prodotti della ragione, per «salvarci», secondo quelle che possono essere ritenute venature sentimentali proprie dell’esistenzialismo (abbandono e salvazione in Heidegger).
Meglio e prima che nella filosofia dell’abbandono o della salvazione, i termini del gioco nell'animo moderno si sarebbero scoperti già in un Voltaire: il generale pessimismo sulla condizione dell’uomo, devastato dai grandi terremoti (il terremoto di Lisbona), microscopica presenza nell'universo (Micromegas), inadatto alla libertà, e la proclamazione della ragione come grande vera essenza dell’uomo. E cioè natura di grande calcolatore o misuratore. Le contraddizioni che contraddistinguono l’uomo, che sta sulla Terra, sono chiaramente tracciate già in Voltaire. In certo senso vi è forse nell'illuminismo una corrispondenza fra la fiducia nel progresso e un generale sostrato pessimistico.
Forse però queste differenze sono limitate: Cartesio infatti non tanto si sfogava, negli esordi così sinceri delle sue opere, ma osservava, rifletteva... Comunque: se non si possono negare i possibili legami fra modernità e postmodernità, non si può negare, a fortiori, che Cartesio fosse metodo.
Descartes è dunque osservazione e metodo; è uno di quei filosofi che  hanno  contribuito al progresso delle scienze e della tecnica.
La sua personalità  teorica è tale per cui cercare di dimensionare l’anima mediante la ragione  è lo stesso che innovare nel campo della geometria (penso alla geometria «analitica») ed è lo stesso che progettare, durante la guerra, macchine belliche. Identica è cioè la dignità assegnata a cose nobili e cose meno nobili. Identità nella quale si può vedere il segnale di una storia che cambia.
(Mi viene in mente, sotto il profilo di legami «insoliti», e di questa - come dirla altrimenti? - circolarità della personalità filosofica cartesiana, un’affermazione di George Bataille, e cioè: «il pensiero nella sua forma sviluppata - e subordinata - che sola preoccupava Descartes non ha il suo punto di partenza in se stesso bensì nella manipolazione dei solidi»[5].)
Ma perché dunque Cartesio? Perché con Cartesio per quello che sostengo fu il significato storico di Cartesio, questa è la mia seconda proposizione, si affacciò alla coscienza, come soggetto, la moderna anima razionale, arte di comando e produttività, o quello che sia; nacque qualcosa per cui non si potesse fare a meno della macchina e di una liberazione in generale della tecnica.
Il che è storico, profondamente storico, quanto inspiegabile: possiamo dire che fu così, che deve essere stato proprio così, date certe caratteristiche evolutive dell’epoca moderna; ma non possiamo dire perché realmente ciò accadde.
Il valore di Cartesio ritengo sia valore prima di tutto storico: esso, anche nel suo simbolismo, appare imprigionato in certe caratteristiche dell’ epoca nella quale egli visse. In questo senso, per l’argomento che qui interessa, io noto come egli mise a punto un sistema tale per cui, non senza una certa asistematicità, la macchina diveniva oggetto costruttivo ed immagine, per l’uso del pensiero. Come in certo modo essa venisse con lui a perdere certa sua esteriorità.
Oggetto costruttivo ed immagine; forse si ha motivo di dubitare che ciò accadesse in senso moderno per la prima volta. E cioè: io penso ad altre epoche, interrogandomi, a proposito del fatto che Archita da Taranto, per amore dei bambini, avesse costruite una raganella (platagè) ed una colomba in legno in grado di volare[6], oppure al fatto che (sempre) nel tempo di  Archita  vigesse l’analogia, e si paragonasse l’origine delle cose, il funzionamento della natura, al funzionamento di oggetti d’uso, familiari; per dire che la modernità, che vedo in Cartesio, non la si ha nella fatticità del fatto, e che sembra proprio esserci uno «spirito della storia», che vuole la differenza di un’epoca rispetto ad altre. 

Novità del costrutto e dell’immagine: nel trattato sull'uomo Cartesio utilizzò  l’impressione suscitata in lui dai vari dispositivi che gli  inventori da tempo  usavano esibire, ad esempio i meccanismi  ad orologeria sui campanili delle città, per paragonare la  macchina al corpo umano, accostare tematicamente ciò che  egli presumeva fosse  stato fatto dalle mani di Dio, a ciò che  era stato fatto certamente dalle mani dell’uomo: «Vediamo -  egli scriveva - orologi, fontane artificiali, mulini e altre  macchine siffatte che, pur essendo opera di uomini, hanno  tuttavia la forza di muoversi da sé in più modi; e in questa  macchina [il corpo umano], che suppongo fatta dalle mani di  Dio, non potrei - mi pare - supporre tanta varietà di movimenti  e tanto artifizio da impedirvi di pensare che possano  essergliene attribuiti anche di più»[7]; ovvero egli osservava:  «Come potete aver visto nelle grotte e nelle fontane dei nostri  giardini reali, dove la sola forza con cui l'acqua sgorga basta a  muovere macchine varie, determinandole persino a suonare  qualche strumento o a pronunciare qualche parola, a seconda  della diversa disposizione dei tubi che la conducono [...] »[8].
Rileggendo, anche, alcuni passi del Discorso sul metodo, si comprende come la maggiore perfezione e complessità del corpo umano rispetto agli automi  fosse, nella sensibilità cartesiana, la maggiore perfezione di una macchina fatta da Dio, una macchina necessariamente più complessa, e se non altro composta di molti più pezzi, rispetto a macchine fatte dall'uomo[9].
Si comprende cioè come non si tratti semplicemente di trovare in certi brani, nella sua facilità,  l’affermazione del primato dell’uomo rispetto alla macchina; ma altro, e cioè importanti aperture problematiche ed un certo modo di ripensare il corpo umano e dunque una libertà del pensiero razionale, oltre che, tengo a sottolinearlo, del sentimento.
Ciò è ravvisabile proprio nel fatto che il corpo umano non lo si descrivesse come un astratto apparato di sensi od organi. Ma come un dispositivo.
Elaborando una filosofia nel cui contesto la macchina fosse  strumento e modalità per lo studio del corpo umano, e cioè individuando il  principio  tecnico-scientifico di «uomo-macchina», Cartesio  aprì la mente filosofica  alla  problematizzazione di un rapporto, da cui metodicamente, o forse per uno  schema religioso, l’anima razionale era (non poteva non essere, per definitionem) immune.
A quel principio fu poi  dato sviluppo, con irriverenza nei riguardi di ogni spiritualismo, dal medico-filosofo Lamettrie (nel quale  qualcuno ha voluto vedere un cibernetico ante litteram), nello  scritto intitolato appunto L’uomo-macchina, ed è questo il  principio che sembra pienamente acquisito nella prima pagina  della Introduzione alla cibernetica di Norbert Wiener. 
Cartesio è significativo, quindi, perché diede alla macchina,  constatatane la effettiva autonomia nel funzionamento e certa  complessità  e variabilità organizzative, la dignità di oggetto  del pensiero, e dunque dignità morale, quella che ad essa   mancava per lunghissima tradizione, che mancava ad esempio   nella mente di un Archimede, per il quale la tecnica non era  una nobile occupazione, o di quanti concepissero la macchina come atta semplicemente ad opere servili.
Ma perché si può affermare, oggi, che Cartesio diede dignità  morale alla macchina? Per la stessa ragione, presumibilmente,  per cui egli diede dignità all’ intelletto ed allo spirito, colti nel duplice aspetto: del soggetto e dell’oggetto. Se inoltre - io mi dico - il  corpo esiste in quanto lo spirito ne dia contezza, se lo rappresenti, e se il corpo è  macchina, allora la macchina in particolare esisterà in quanto lo spirito ne dia contezza e se la rappresenti.
È da aggiungere a tutto questo, ancora, che come Cartesio dava dignità alla macchina, così Bacone, nel suo Novum Organum, ne dava agli strumenti per l’osservazione e la misurazione scientifica. Che l’importanza delle macchine nella mente di Cartesio corrispondeva al valore di scoperta del cannocchiale o del microscopio.
La macchina dunque mentre diveniva oggetto, luogo, modo di argomentazione, diveniva in qualche modo modalità, per il pensiero, e lo dimostra la rappresentazione cartesiana del cosmo; fatto di materia, spazi e movimento tali che si potessero ammettere leggi di natura indipendenti dalla volontà e possibilità d’intervento divine.
Nel trattato sul mondo, si legge l’affermazione per cui Dio dal punto di vista cosmologico può spiegare, nella sua immutabilità, il moto rettilineo, non quello irregolare o curvilineo[10]. E gl’interpreti possono ben dire: deserto, niente più cosmo aristotelico (laddove tutto fosse singolarmente provvidenziale o se si preferisce idealistico); ovvero: ecco una «macchina universale», che ha un suo funzionamento, in cui non vi è posto né per Dio né, particolare significativo, per l’uomo[11].
(Bisognerebbe ripetere però queste affermazioni rovesciando le cose, per cui se diciamo «macchina universale» dobbiamo sapere che imponiamo al discorso una immagine.)

Vasta è la personalità teorica cartesiana; il suo sguardo ispettivo nelle scienze è tale da implicare soluzioni profonde, apparentemente estranee alle scienze, del tipo: il sapere è come un albero, le cui  radici sono la metafisica, il cui tronco è la fisica, e poi vengono i rami, che sono le altre scienze[12]; oppure: «niente si può conoscere prima dell’intelletto»[13]; ma  l’intelletto - mi domando -, bisogna conoscerlo in che senso? Nel senso, può essere risposto, in cui «non possiamo concepire alcun oggetto senza dimostrare e scoprire in pari tempo la nostra natura pensante»[14]. Nel senso, anche, per cui l’intelletto si riconosce nelle cose. E cioè, anche: l’epistemologia in questo modo non potrà non essere sensibile alle nuove realizzazioni tecniche. Sino a diventare paradossalmente inutilizzabile.
Soluzioni profonde: aspetti teorici che non si applicano in Cartesio   in maniera diretta al discorso sulle macchine, che anzi sembrano volersene distanziare, ma nate con esso e che vi hanno,  necessariamente, riferimento; che allo stesso tempo preludono ad un accostamento maggiore, razionale e di sensibilità, fra uomo e macchina.
Noi ci rendiamo conto abbastanza presto del fatto che parlando di Cartesio abbiamo a che fare con una macchina-corpo ancor prima che con una macchina pensante - intendiamoci, comunque: con una macchina-corpo che assume dignità morale perché essa in qualche modo è naturalmente intelligente; nello stesso tempo sappiamo che con la geometria analitica si gettarono, secondo alcuni interpreti, le basi razionali della Computer Graphics. È davvero un fenomeno singolare, questo, cartesiano: per cui la macchina assume dignità teorica; per cui non si imita, con un dispositivo, il cervello umano e nello stesso tempo sembra quasi che la conquista di una dignità teorica voglia una certa distanza dello «spirito» rispetto a ciò cui tale dignità è conferita... 
Ma sono, per così dire, giochi necessari, e questo lo si può definire qui, convenzionalmente, «dualismo cartesiano», il porsi delle due sostanze, la sostanza pensante e la sostanza estesa. Non in una maniera strettamente, astrattamente filosofica, ma profondamente storica. Nel senso di fondazione di una cultura che verrà emergendo gradualmente, sino a porsi come presenza forte.
Che cosa avvenne, di storicamente significativo, nella formulazione  del pensiero cartesiano? Avvenne che il mondo «esterno», il mondo delle cose, crebbe nelle sue riflessioni parallelamente alla crescita del mondo interiore. Ma nello stesso tempo - fatto singolare - l'interiorità che veniva così a formarsi, quella enunciata nel motto «penso dunque sono» («ego cogito, ergo sum, sive existo»), era come fosse un «soggetto» in qualche modo già costituito, se essa era tanto curiosa scientificamente e tecnicamente, quanto libera mentalmente, rispetto al mondo esterno.
Nel pensiero di Cartesio è sempre in piedi quella che si potrebbe ritenere una singolare presunzione: che l’anima resti fuori dei giochi del corpo. Era significativa sotto questo aspetto la sorte toccata alle rappresentazioni, che erano relegate - volendo ricostruire con riferimento a Cartesio una teoria psicologica - fra ciò che attiene alle cose materiali. 
Ma, a ben riflettere, che l’anima resti fuori dei giochi del corpo è un presupposto indispensabile per andare avanti, per produrre, ecc.; ed è una verità che può riconoscersi, a contrario, nella costruzione delle macchine cibernetiche, nel percorso pratico, ingegneristico, di una costruzione che si possa ritenere «esteriore», densa d’insegnamenti che modificano la coscienza, ma limitata, nelle realizzazioni, a causa della sua «esteriorità». A proposito di tale esteriorità io leggo ad esempio che «[...]il programma cibernetico di simulazione delle attività superiori del cervello (pensiero, linguaggio) non presupponeva [...] affatto l’identificazione conoscitiva di esse, ma, paradossalmente, ne presupponeva piuttosto la non identificazione»[15].

Fra Cartesio e le macchine cibernetiche è stato posto il «cartesiano» Lamettrie, il quale polemizzò con il «maestro» opponendo il corpo e i sensi alla vacuità dell’anima; il materialismo della macchina all’idealismo dello spirito; sostenendo che la ragione altro non è che un approccio particolare della sensibilità alle cose. 
Tutto questo ha implicazioni interessanti, se proviamo a considerare in che senso si possa dar torto a Cartesio.  Ad esempio: è vero - per ricondurci all’oggi - che la cosiddetta «interattività» (interaction) dal punto di vista  filosofico, non tecnico, ha in sé la dualità, e la non perfetta riproducibilità. Anche se il dualismo uomo-macchina non è lo stesso che il dualismo anima-corpo. Oppure è vero che non si può ridurre totalmente la «virtualità» alla realtà; la sostanza alla condizione o al fatto, che pure è indicativo della sostanza.
E ancora: ogni critica a Cartesio, basata sull’emancipazione dei sensi e della macchina nei confronti dell’anima, o dello spirito, rischia di sviluppare il discorso delle macchine su una linea che è opposta alla ragione. Il che per chi ha per obiettivo il progresso della ragione è una contraddizione in termini. L’anima in certo senso deve essere sempre salvata: a favorire il progresso tecnico.

3.- Al di là delle critiche, venne a configurarsi, con il dualismo cartesiano, la modernità, e cioè: la priorità della capacità tipica dell’uomo moderno di astrarre, o meglio di attribuire in generale valori. A cominciare dal valore d’essere, il quale può essere riconosciuto, nella teoria del filosofo francese, solo sorprendendosi a pensare: io che penso né sono morto né sto sognando, ma «sono quello che sono». In questo modo il cosmo si sarebbe potuto raccontare nuovamente, come una favola, immaginando che Dio lo potesse ricreare; e  dunque la sua inconoscibilità spiega la matematizzazione del  reale, attribuzione al reale di valori matematici, e può essere spiegata a sua volta con il fatto che «[...] bisogna cercare Dio non più nel mondo [...] ma nell’anima»[16]; non avendo la mente nulla in comune con la materia, con l’estensione[17].  Ovvero: che cosa la pura materia è in grado di creare?
L’anima, ovvero qualcosa di suo che l’uomo vuole fabbricare per sé, da una certa epoca in poi, è anima razionale, che prosegue (si potrebbe dire «platonicamente»)  nella considerazione dei sensi  quali fonte d’inganno, ai fini della sicurezza del sapere. L’uomo si costituisce in razionale e pensante nel momento stesso nel quale riconosce i limiti posti dai sensi e più radicalmente dalla mortalità; in questo modo si rappresentavano come «macchina», nel seicento, il corpo umano ed il cosmo. Con la macchina avveniva l’emancipazione dai sensi, si gettavano i presupposti per una cultura dei modelli e per il pensiero formale ed astratto. Questa cultura è assegnazione di valori. Se non si fa questo, se non si assegnano valori, se non si ha in ciò produttività, non si avrà autonomia del pensiero.
Ovvero, a voler cogliere un legame diretto tra le fontane dei giardini reali, le macchine,  ed il cogito  cartesiano come assegnazione di valore all'essere, si può sostenere che se il cogito è un che di profondamente esistenziale, allora necessaria­mente l’anima, nel suo moderno costituirsi, avrà a che fare con modelli, con imitazioni, con forme.
La modernità era data dal fatto: sia che venisse ad essere teorizzato in questo modo un dualismo invincibile, fra mondo esterno ed interiorità, sia che nel contesto di tale dualismo lo spirito stesso potesse ora divenire in generale «oggetto». Che ogni cosa, data l’irriducibilità dell’anima razionale, potesse divenirlo.
Il risultato era nel cuore del metodo stesso, e cioè consisteva in un costrutto tale per cui l’esteriorità fosse emarginata in quanto assoluto, in quanto lì si cercasse Dio, e la conoscibilità fosse posta in termini relativi. La verità, in altre parole, era nella problematizzazione scientifica, e nella forma fortemente interiore che ad essa era conferita.
L’interiorità, nel suo carattere attivo, era la capacità elaborativa della ragione, la quale si dava un metodo, come s’indossa un mantello, per riconoscersi e dimensionarsi in rapporto al mondo esterno. Il  soggettivo della ragione sarebbe stato comunque tale, una volta ammesso quel criterio, relativistico, di problematizzazione. 
La macchina, la moderna macchina, sembra molto congeniale alla nascita cartesiana dell’anima razionale, per chi sappia leggere al di là di certe proposizioni cartesiane sugli automi; è come se nella moderna macchina l’anima razionale si costituisse. E la modernità non avrebbe tardato a fare altro, e cioè: a pensare macchine non esistenti, macchine-progetto (ad esempio costrutto ed immagine della macchina universale di Turing), in una corrispon­denza profonda con la moderna forza dell’interiorità razionale.
L’epoca di Cartesio, in altre parole, può essere associata da noi,   mentalmente, a quella  degli automi e dell’ illuminismo, e anche: all’epoca  dei Pascal e dei Leibniz quali artefici di progetti di macchine da calcolo che sono prodotti dell’interiorità, e che forniscono statuti all’anima  razionale. Ma il problema era proprio questo: il pensare.
«Penso dunque sono» significa oltre che: pensando io attribuisco il valore d’essere, anche qualcosa come: nel momento in cui penso, in cui io attribuisco valori, io sono. Non importa, dal momento che ho posto le cose in questi termini, che io sappia rispondere alla domanda se io sia o non sia, o che io trovi risposta alla domanda su che cosa sia l’essere.
Cartesio, se riteneva che mai le macchine avrebbero potuto eguagliare la mente umana per non «agire per conoscenza ma solo per una disposizione dei loro organi», evidentemente non si rendeva conto del fatto che se egli non avesse seguito quel percorso mai sarebbe giunto alla sua affermazione sull’essere-esistere.

Tutto ciò si combina con il principio, maturato  attraverso le  elaborazioni di Hobbes, Locke e Leibniz, per cui non le cose, ma le rappresentazioni sono l’oggetto della ragione. E anche: per cui le idee non sono il pensiero, ma il suo oggetto.
Il che, secondo una certa opinione, è profondamente matematico ed è favorevole in ciò, per il riscontro che vi ritrova, alla diffusione delle macchine imitative. Ovvero: solo assunta la coscienza del fatto che la ragione avesse a che fare con rappresentazioni e non con cose, si poteva pensare a meccanizzare la ragione[18].
Ovvero ancora: è possibile affermare che la «Dottrina della scienza» del filosofo tedesco Fichte, e la «ragione pura» kantiana, siano prese di coscienza, sforzi interpretativi, del senso più profondo della modernità, prima ancora che esagerazioni discutibili. «Filosofare sulla natura significa  creare la natura», avrebbe detto Shelling. È importante in tutto questo l’indirizzamento, e non l’enfasi, il rifugiarsi nella parola; il rifiuto di una essenza. La riproducibilità, volontà di riprodurre, il protendersi a questa, che sarà la nuova condizione,  sembra scorrere nelle vene dell’età moderna, almeno dal seicento in poi.
Se oggi è possibile scindere, sviluppando tale  scissione, i due verbi del motto cartesiano: il verbo «cogitare» ed il verbo «esse»,  questo lo si può ricollegare ad una serie di fatti: alla impostazione data al pensiero dal filosofo francese, per cui di esso oggi si può sostenere essere pensiero moderno; alle intuizioni di quegli altri filosofi i quali posero «rappresentazione», «idea», «numero», sul piano dell’oggetto del pensiero, sviluppando in questo senso le dimensioni soggettive del cogito.
Alla interpretabilità di quel motto nei termini di un’attribuzione di valori e di una riproducibilità, ha condotto poi l’evoluzione del pensiero matematico, l’affermarsi progressivo dell’algebra, come evoluzione della coscienza e volontà di tradurre tutto in simboli. Ad iniziare dal matematico italiano Vieta e dallo stesso Cartesio.
La coscienza della traducibilità di tutto in simboli, l’essere il pensiero, e il dover essere - meglio - il pensiero moderno in ciò, molto, attribuzione, assegnazione convenzionale, di valori, sono aspetti che emergono con chiarezza da una connessione leibniziana, per cui: se noi ammettiamo l’esistenza di una memoria,  nell’attività mentale dell’uomo, allora dobbiamo convenire sul fatto che le idee s’identifichino non con il pensiero, ma con qualcos’altro, che potremo definire l’oggetto del pensiero[19].
Oppure ad altre affermazioni, dello stesso Leibniz, a proposito dell’utilità, e maggiore chiarezza, del numero, rispetto allo spazio, in termini di conoscenza, laddove egli parla della utilità ai fini del pensiero dei soli numeri interi, della qualità limitata, del valore dei simboli grafici al posto dei numeri per semplificare l’attività del pensiero e della memoria[20].
Il senso storico-obiettivo della traducibilità di tutto in simboli, della traducibilità di tutto in numeri, può apprezzarsi ancor meglio qualora si colleghi questo aspetto della cultura moderna all’intuizione di Thomas Hobbes, secondo cui l’uomo, pensando, calcola. Egli sottrae ed addiziona, cioè, anche quando non sembra addizionare e sottrarre. Quando l’uomo ragiona, immagina una somma, «sommando quantità parziali oppure immagina un resto, sottraendo una somma da un’altra»[21].
La traducibilità di tutto in numeri, questo poter rappresentare, in fondo è un vecchio postulato; si tramanda, nellopinione, che lo avesse espresso anticamente Pitagora; allo stesso modo è certo che lo sostenne Galileo,  ma bisognava sganciarsi forse da un sapere troppo proteso alle cose, poco potente, e dovevano esservi le condizioni storiche di pensiero perché queste affermazioni potessero entrare a far parte, attiva, del progresso materiale degli uomini. Dal dire, insomma, al fare.
Ad esempio: i numeri interi di Leibniz,  interi e cioè distinti volutamente dai numeri «sordi», cioè incommensurabili, o «rotti» cioè frazionari, preconizzano sul piano della rappresentatività il «digitale», il valore del «discontinuo». Ciò che sta a significare: che la più bella opera d’arte, fatta di linee e punti, in quanto tale è traducibile in enti numerici. E tutto questo è già cartesiano, come si diceva.
Oggi di quel postulato dunque si ha la dimostrazione tecnica, e si ha l’esistenza di qualcosa; dalla conversione di ciò che è analogico (figurativo, continuo, ...) in ciò che è invece digitale (razionale, discontinuo, ...) si traggono risultati importanti, e non solo tecnicamente. Gli effetti di codesta conversione hanno dell’incredibile perché sono tutt’altra cosa, in termini di comprensione, rispetto al mondo dei sensi; e dire che oggi siamo nell’epoca tecnica del digitale e dei prodotti sintetici, ha un significato complesso. In essa infatti il profilo del rapporto di continuità lineare con ciò che la ha preceduta nella storia della tecnica, cede il passo al profilo della possibilità e necessità di riesaminare tutto. O in generale: «complessità della tecnica», enigmaticità di un volto.
Il problema del rapporto fra l’uomo e ciò che è  «macchina» può entrare quindi nella nostra considerazione come uno dei problemi-chiave dell’età «moderna»; a voler fare iniziare la modernità, per lo più emblematicamente, con Cartesio.  Potrebbe dirsi, anche, che esso è problema-simbolo per questa età, considerata non nella esatta cronologia dell’origine, ma negli sviluppi in essa impliciti.
Approfondire tale problema può aiutare me umanista erede di nozioni tramandate al di fuori di una parte effettiva della storia del pensiero moderno - quella legata alla matematica -, a capire. Capire in una maniera non sociologica aspetti non superficiali del rapporto fra l’uomo dell’umanismo ed il progresso e la tecnica, il senso della tecnica. A comprendere nuovamente così, e a quantificare, ciò che è modernità, progresso, ecc.

Con la «modernità» non so se veramente lo «spirito» trionfi (questo lo ha sostenuto Koyré parlando della riforma cartesiana del sapere); può darsi forse da un certo punto di vista: come spirito nascente. Ma è certo, lo dico sulla base dei cenni fatti ai Leibniz, agli Hobbes, ecc., che con la modernità lo spirito «diviene» oggetto.
La macchina è molto antica (svilupperò questo aspetto più avanti); si poteva parlare, con l’immaginazione tipica dell’illuminismo francese,  della «gran macchina dell’ universo» (definizione di Diderot, in carattere con il mondo cartesiano), immagine comunque significativa, al pari dell’antichità di ciò che è «macchina», nel trasmettere il senso di una indipendenza rispetto all’uomo.
Ma la macchina e così, penso, l’interrogarsi sul senso della tecnica, è il moderno, congeniale alla modernità, perché in essa lo spirito diviene oggetto.
Approfondire tale problema significa accettare un principio ed un metodo, per cui la macchina altro non è che il rapporto uomo-macchina, e viceversa. Per poter approfondire quel rapporto non si dovrebbe più continuare a pensarlo cioè in una maniera astratta, per cui io immagino la macchina come macchina e l’uomo come uomo, dove l’uno necessariamente non è l’altro. Per cui, sulla base di questa separazione, io penso quel rapporto al massimo in chiave comparativa. Ma come un rapporto che viene a svolgersi.
La cultura dei modelli e quella della comunicazione, dànno valore alla oggettività, che è, in una delle sue possibili definizioni, la condizione di tutto ciò che entra nella sfera d’interesse del pensiero; quelle culture, inoltre, mostrano che il fondamento delle cose consiste nel loro avere legami attivi. E lo spirito è in queste problematizzazioni attive, non è “qui piuttosto che là”.

4.-Il problema del rapporto fra l’uomo e la macchina  oggi si  pone in termini differenziati, rispetto a quelle premesse storiche seicentesche delle quali si è parlato. Quelle premesse non potevano nascondere  l’entusiasmo, non potevano nascondere l’immagine di un umanismo  curioso e progressivo; le prime scoperte, le prime grandi intuizioni, il libero pensiero, un qualche gusto  per l’irriverenza religiosa, che sono come le prime scoperte sessuali nella vita (la curiosità scientifica che secondo Diderot è curiosità sessuale).
Oggi forse, a voler riprendere certi temi, si possono avere, a dissolvere quegli entusiasmi e quell’idealismo, ad esempio le guerre mondiali e un’èra atomica, che hanno avuta la loro importanza nella storia del pensiero, e vi è, collegata alle riflessioni svolte su questi temi, il sentirsi soprattutto orientati ad un Duemila; ma non si dissolve il senso, progressivo, della riflessione.  Se la macchina oggi coinvolge sentimenti morali, storici, aspetti  dell’ontologia, della epistemologia, dell’arte, del futuro come oggetto da elaborare, ciò avviene perché essa, essendosi potenziata la sua autonomia di funzionamento ed elaborativa, è  pervenuta alla condizione di essere «pensante», mostrando con i fatti di esserlo; e cioè alla possibilità effettiva di riprodurre in una forma che non saprei se giudicare diversa, o piuttosto simile, fenomeni ritenuti tipicamente umani, anche, soprattutto, di un uomo molto evoluto che non esiste; possibilità, meglio, di produrre qualcosa di esistente in cui l’uomo può riconoscersi in qualche modo.  Il dignitoso «poter pensare» fa di una macchina non la semplice  imitazione di un originale - quale è in questo caso l’uomo -, come si sente ancora dire che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e simiglianza; ma qualcosa in cui l’uomo si possa riconoscere nel suo fare, certo saper elaborare oggetti ed immagini, certo spiegarsi, le cose, con certo regime di comunicazione. Ma il poter pensare in fondo appartiene sempre a ciò che è macchina, a ciò che alla macchina si addice nei termini della rappresentazione, se è la libertà del pensiero a poter dire: «questo è macchina», oppure: «questo è dispositivo».  Ed ancora, secondo una crescita dell’anima: il poter pensare insito in una macchina cosiddetta «intelligente» non esclude il poter pensare di una macchina ritenuta non intelligente. L’anima razionale occupa un albero, un tavolo, che sempre di più essa immagina, cui sempre di più attribuisce valori, che sempre di più manipola o rappresenta. Molto è legato, evidentemente, al fatto che l’osservazione umana di ciò che avviene in natura conduce alla fine a spacciare per pensiero ciò che avviene. A maggior ragione in quanto lo si possa riprodurre.  Si può sostenere, trovandosi così ad avere una maggiore solidità nelle argomentazioni, che studiare la macchina «pensante» insegna molto sul pensiero dell’uomo e su certe regole che governano il pensare. A cominciare dal fatto che l’attività di pensiero, come si è detto, è attività di calcolo: un sottrarre, un addizionare continui, si ha una netta diversificazione di  prospettiva, una trasformazione rilevante, rispetto alla immagine letteraria ed estetica che l’uomo  ha di sé, nel suo umanismo congenito. Ed in fondo qualcosa che va al di là del senso contrappositivo di una sfida, immaginabile, fra Cartesio ed  i cibernetici, il primo che  affermasse non potere l’automa usare intelligente­mente il linguaggio («valersi di parole o di altri segni, componendoli come noi facciamo per esprimere agli altri i nostri pensieri»[22]) né avere una «capacità d’azione universalmente variabile» (non agendo «per conoscenza, ma solo per una disposizione dei loro organi»[23]), i secondi che sostenessero il contrario, cercando di dimostrarlo con le loro creazioni. Aspetto contrappositivo, questo, per il quale Cartesio avrebbe sviluppata una sorta di «anticibernetica della mente»[24].
Ma entro quali termini si può sostenere tutto ciò? Se io dico: «la macchina insegna all’uomo sull’uomo», io  introduco, a ben riflettere, principi di dissoluzione in una  immagine che è quella dell’uomo il quale fornisce istruzioni  alla macchina, dell’uomo che produce in laboratorio i chips:  dell’homo erectus, oppure dell’homo  faber.
Dissoluzione dell’uomo, probabilmente dell’uomo dell’ autocompiacimento estetico-umanistico. Uomo resistente, comunque,  se si ostina a non riconoscere il deserto ed i suoi doveri.
Realiter quindi io così non ho dissolto più di tanto, rispetto  al carattere che si è attribuito qui alla modernità. Se noi diamo  sviluppo al punto di vista del pensiero, di una ragione per così  dire «cartesiana» che quanto più osserva tanto più riflette su tutto e tanto  più è soggettiva, allora sappiamo che il pensiero è  formulazione del pensiero, ovvero che «Non si può tematizzare “qualcosa in quanto qualcosa”[...] senza accettare, implicitamente, le regola di un linguaggio»[25]; nel senso che nell’ambito della  formulazione del  pensiero l’uomo può essere o non essere  pensato, o meglio nominato, e ancor prima immaginato; può  essere o non essere pensata e cioè nominata e ancor prima immaginata l’intelligenza, e così di séguito. 
L’uomo è tale insomma per cui si pone come oggetto  dell’immaginare, del nominare, del pensare. Ed in quanto  oggetto, in un contesto semantico, egli ha valore. Dunque  l’uomo, come l’amore, l’intelligenza, è una immagine, è  rappresentabile, è quantificabile, è oggetto del pensiero, del linguaggio. Egli si presenta così come un riproducibile, un «mediabile». 
Questo pensiero può essere confermato da quel riflesso parallelo della storia delle macchine che è la storia delle allegorie materiali. La rappresentazione di qualcosa mediante le macchine è un fatto allegorico. Dal punto di vista umanistico in ogni rappresentazione vi è allegoria. Prima fra tutte è l’allegoria uomo. Per cui si può dire che qualcosa assume valore in quanto sia allegorizzabile.




ASPETTI «UMANI» DELLE MACCHINE


1.- In base presumibilmente ad un calcolo morale, Cartesio sostenne che gli animali sono «automi»; ovvero: non si sarebbe potuto distinguere fra il corpo di un animale ed un automa[26]. Nessuno, insomma, avrebbe potuto imputargli di avere affermato che l’uomo è un automa.
Ed  è certo che mai il filosofo lo avrebbe potuto sostenere con convinzione, quanto è certo  che egli, di fatto, si mantenne, rispetto alle macchine, nella posizione di  osservatore esterno, colpito sinceramente da quelle realtà, indotto  da certe evidenze alla meditazione,  ma venendosi in pari tempo a consolidare in  questo modo il principio d’irriducibilità dell’anima razionale (res  cogitans) al mondo esterno (res extensa). 
Può incuriosire, inoltre, il fatto che il corpo degli animali non fosse ritenuto dotato di una complessità degna di Dio. Ma se il discorso può fare leva sul principio di «complessità», così come con Lamettrie si sarebbe basato sul principio di «organizzazione»  (dunque maggiore complessità dell’ organizzazi­one degli  uomini, minore negli animali) allora trapelerebbe una conclusione ragionevole: che tutto, al di là delle affermazioni, fatte o non fatte, e al di là di certi aspetti in parte incomprensibili del pensiero cartesiano, può essere ritenuto significativo di un nuovo indirizzo storico in cui l’anima razionale conseguiva il primato, indirizzo distinto ma proprio per ciò non estraneo al fatto che l’uomo moderno si sarebbe manifestato in una esplosione d’ingegno tecnico.
Ingegno, legato a che cosa? Forse ad un’autofinzione creazionista, forse a quel deserto cui più volte si è accennato, certo all’essersi esaurita, nell’occidente,  l’epoca dei numeri romani, risultando inadeguato pur nella sua ripresa l’uso dell’abaco, e risultando che la gente, nella vita quotidiana, dovesse contare molto più, rispetto al passato.
Per quella singolarità di percorso che caratterizza l’evolversi delle  macchine, per la complessità appunto della tecnica, soprattutto con riferimento all’età moderna, la macchina   pensante è il  frutto di tante storie differenziate l’una dall’altra, piuttosto che di una storia ben compatta, lineare. Ora si faceva un passo in avanti nella matematica, ora nell’elettronica; qui si progrediva nell’algebra, lì, indipendentemente, nella meccanica, qui nella telegrafia lì nella fisica, là ancora nella meccanica.
Se viene considerata questa singolarità di percorso,  in Cartesio, oltre che l’inaugurazione della modernità, si coglie anche una modalità storica tale, per cui il pensiero (attestatosi nella sfera dell’anima) tiene la distanza rispetto a quella che oggi si definisce «capacità di pensare» delle macchine. Le fontane, gli orologi e gli automi, infatti, lo incuriosiscono; lo fanno pensare; ma egli constata i limiti delle macchine rispetto ad abilità tipiche dell’anima.
Si può dire dunque, unificando la storia dei progressi materiali e la personalità filosofica: qui si coltiva l’anima razionale, lì - indipendentemente (?) - si fanno riflessioni sincere sulla macchina. La storia è comunque unità, la sua unità se non altro fa parte del suo avere in sé un «ritorno a». O quanto meno il sospetto di ciò.
Perché, dunque, richiamare l’affermazione che gli animali sono automi? Perché essa va presa per ciò che poteva significare con riferimento alla cultura con la quale Cartesio si confrontò.
La sua affermazione sugli animali era tutt’altro che «allineata»  al  pensiero medievale; il quale per buona parte riteneva il contrario,  sull’essere delle scimmie, delle api e dei cani[27]. Ma il vero problema non era di allineamento o non con l’opinione prevalente, la quale per essere prevalente ammetteva l’opinione contraria; non era il rapporto con la soluzione predominante di un problema, ma con il senso di quel problema. I medievali, e per medievali intendo qui anche personaggi del cinquecento, si domandavano se gli animali avessero un’anima razionale; l’importante era che essi si domandassero questo e basta, ovvero che si ponessero la domanda stante un rapporto fra scienza e fede analogo a quello fra paganesimo e cristianesimo oppure fra Impero e Papato. Non che si domandassero invece come potessero, delle «pure e semplici macchine  [...] fare quello che fanno gli animali», e che cosa ciò potesse implicare[28].
Il cristianesimo c’entrava e non c’entrava; c’entrava l’uomo, ed una certa immagine di sé; ovvero: ciò che, nella coscienza occidentale e certo nell’appello alla cristianità, è «umano».
Cartesio con quell’affermazione, che avrebbe fatto molto discutere fino al settecento, proponeva un po’, in termini di ricognizione, di riconoscimento dell’immagine di sé, di sostituire il cane con lo specchio; infrangere, come già detto, il cosmo aristotelico con il suo naturalismo.
«Animale è uguale automa» toccava l’animo umano, indirettamente, perché l’animale era uno status di coscienza, per l’uomo: tradizionale compagno,  termine di raffronto, modo di dimensionamento, oggetto privilegiato, assai proiettivo, di pensiero.
Di fatto, in quel modo si giungeva a toccare una verità: che la macchina, se può definire l’animale, ciò significa che essa è più interiore che non l’animale, che ha una potestà che all’animale non compete, nel mondo dell’uomo. Ed inoltre: se l’animale può e non può avere un’anima razionale, allora la macchina può venire a trovarsi, sul piano teorico, nella medesima condizione.
Si apprezza il valore dell’affermazione cartesiana, se si pone mente al fatto che più dell’animale, la macchina, nata per esigenze umane e dall’ingegno umano, manifesta un legame di «prossimità» all’uomo.
E se essa può definire l’animale, può definire anche l’uomo, se tutto apertamente si pose, con Lamettrie, nei termini del principio della cosiddetta organizzazione. Anche se allora, nel settecento, questo concetto forse era più semplice in quanto concetto, di quanto non lo fosse la sua applicazione negli automi.
I termini del ragionamento di Lamettrie erano più o meno i  seguenti: io non mi  sorprendo di una a me incomprensibile meraviglia della  natura, e cioè del fatto che quello che una volta era un  mucchio di fango, abbia, ben acquisiti, una sensibilità ed un pensiero; io comprendo solo che questo  essere, l’uomo, è il più perfettamente organizzato dell’universo; la sua  diversità rispetto all’animale è semplicemente in una diversità  di  organizzazione; da questo punto di vista l’arte imitativa di  un ideatore di automi, come Vaucanson, dovrà affinarsi  ancora, per poter realizzare dopo un automa flautista un  automa parlante, così come maggiore è stata l’arte richiesta  per realizzare, dopo l’automa canarino, l’automa flautista[29]
Dal che si desume: una macchina, compresa quindi quella umana, è una organizzazione, che si può imitare. 

Dire che l'uomo è una macchina, a causa anche della portata che un tale assunto viene ad assumere necessariamente, all'epoca di Cartesio sarebbe stato blasfemo. 
Pure era l'inizio di un percorso che col tempo ci avrebbe fatto dubitare: non perché l'uomo ha ideato e realizzato la macchina, questa è a lui dissimile nella sostanza? E anzi sarebbe stato siffatto legame del produttore col prodotto, per come esso si sarebbe evoluto e affermato, che vale il rafforzamento del dubbio (e certo sarebbe comunque da stabilire per convenzione che cosa è macchina).
E poi magari sarebbero stati i vessilliferi della scienza a scandalizzarsi a fronte di chi avrebbe potuto titolare il suo testo macchine come noi... 

Prossimità della macchina all’uomo: è la possibile definizione (certo bisogna lavorarci) di un rapporto.  O meglio: una possibile impostazione di un rapporto, o di un legame. Confesso che questa parola-immagine, della prossimità, mi è stata suggerita da un pensiero di Martin Heidegger. Egli parla della prossimità dell’uomo rispetto al Dio, ovunque l’uomo si trovi, anche nei luoghi più umili[30]. E cioè: senza pensare al fatto che quel Dio sia realmente tale, che il luogo cioè si addica a un Dio, che quell’uomo si addica a un Dio.
Vi è senza dubbio una carica di suggestione in questo, ma il vocabolo  («prossimità») è utile perché viene dopo il pieno consolidamento dell’età moderna, in cui il nulla emergendo spinge ancor più verso l’anima e le macchine, allo stesso tempo; il termine è utile perché consente, dovendosi parlare di macchine, una qualche profondità in più, nella osservazione.
La macchina è come seguisse l’uomo dovunque, come ne richiamasse alcune proprietà fondamentali, certo essa è come immersa nella storia dell’uomo.
Come il Dio è umile più della nostra comune rappresentazione di Dio, così la macchina è  antica più della nostra rappresentazione della macchina. La macchina, ciò «che è macchina», nasce prima di quanto non si creda comunemente,  prima di Cartesio, prima di Erone, prima di Archimede;  essa in questo è più storica, umanamente parlando, di quanto non si sia disposti a credere; la considerazione della sua antichità non è molto probabilmente riducibile all’ammissione della sua antichità.  Essa, se pensiamo alla storia, non è priva di una certa oscurità. Confesso che di fronte alle tavole della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, illustrative delle macchine, di fronte a tutte quelle forme, ho avuta immediata l’impressione di un mondo sommerso e dimenticato.
La profondità storica ha a che fare con il fatto che la macchina  è un qualcosa che nasce non compiuto, che ha una forza anche nel fatto di restare lì, come dimenticata, che è sempre aperta, ovvero: che sembra avere bisogno, nutrirsi di storia, di evoluzione della sensibilità umana, di sempre nuovi parti, di  progressi materiali, per essere sempre più uguale a sé stessa, essere quello che è. In questo senso si è tentati di riparlare di vera natura umana, oppure di destino, aspetti che richiamino la «prossimità».
Ciò che è «macchina» fa parte della storia dell’uomo come della  storia  umana fa parte il calcolo. Oggi si sa che questo non è un accostamento casuale ma che ha una sua organicità. Un libro sulla storia del calcolo  dimostra agevolmente come l’uomo sia sempre stato più ingegnoso calcolatore, in quanto  uomo, di quanto non si pensi. L’immagine è nuovamente quella: di un mondo sommerso. Uno dei primi dispositivi, tipicamente umani, legati cioè al corpo, e cioè le mani, le dita, servono indifferentemente alla soluzione di problemi tecnici (prendere il cibo per portarlo alla bocca, brandire un’arma per difendersi, ecc.) quanto alla soluzione di problemi di calcolo.
Il calcolo è umano quanto le macchine, ovvero: al pari della creazione di macchine, esso fa parte della generale attitudine umana - la si dica libertà, o bisogno - ad elaborare oggetti.
Allo stesso modo, e potendo ritenere la cosa utile per i suoi legami dimostrativi: si può sostenere che ciò che è calcolo è parte della storia umana quanto che l’esistenza è riducibile ad una incessante elaborazione di dati, connettendo ciò che avviene quotidianamente con ciò che è, da sempre, nella costituzione mentale dell’uomo.

Complessi legami fra l’uomo e la tecnica. In certo senso la macchina è più umana di quanto non si sia disposti a concedere. Di quanto non si sia disposti cioè a fare concessioni alle macchine; concessioni morali: questo spiega una certa quale predilezione accordata qui a Cartesio. E può spiegare il fatto che Goethe, andando nei primi dell’ottocento dalla Germania in Francia per visitare gli automi, li trovasse accantonati e arrugginiti, come oggetti dimenticati dopo la fine di una festa.
Fare concessioni morali: a questo proposito ricordo che l’illuminismo, due millenni dopo Platone, rimise a nudo il valore morale insito nel  pensiero; dico concessioni morali in un senso illuministico, ed aggiungo  che quel dato mi consente di dire che se l’umanità non è concessa alle macchine, allora non si riconosce ad esse la capacità di pensare.
A questo proposito, a proposito di una non concessione di umanità, mi ricollego, per provare a spiegare le cose, ad una espressione che mi è capitato recentemente di leggere più volte. Questa espressione è «paura delle apparenze». Se la macchina è più umana di quanto non si sia disposti a concedere alle macchine, questo fatto, della non concessione, può essere ricondotto alla paura delle apparenze. La paura ha grande influsso sulla condotta umana, si sa;  ma la vera paura non ha oggetto. Questa è una prima interpretazione della cosa...
Penso inoltre, come seconda cosa, che concedere umanità alle macchine ha il senso che ha: significa in qualche modo aprirsi, cercare di capire ed approfondire, essere umili e ricettivi; dal quale senso si salta direttamente in una problematica positiva, nel tentativo di comprendere quello che per certi versi è un mondo sommerso. Richiamo ancora l’approccio cartesiano, in cui il dire qualcosa come «l’uomo non è macchina» equivale a concedere umanità alla macchina.

Complessi legami fra l’uomo e la tecnica, o anche: fra l’uomo e  la natura. Sembra che non si possa negare l’impressione che la storia delle  macchine rientri in una immagine della storia come umanizzazione, un  processo generale di umanizzazione, degli oggetti, della storia stessa...  Da  una parte l’attitudine a rendersi domestico, più familiare, un oggetto,   oppure il fatto di per sé stesso dell’interpretare o del misurare (il fatto  che  crescano le conoscenze astronomiche, che si scoprano nuove galassie, che  si conosca con certezza l’età del Sole, significa umanizzazione del cosmo).
Dall’altra che l’uomo imprima uno stile, un marchio, alle cose,  colonizzi, utilizzi, e così via, facendo questo per un bene; oppure che le  macchine confermino una qualche essenza irriducibile  dell’uomo.  L’umanizzazione sembra quasi che faccia parte del destino delle macchine  perché fa parte della loro stretta destinazione, della razionalità storica che è racchiusa nella loro nascita materiale.
Più la macchina evolve, e si affina, si potrebbe dire, più essa si umanizza. Più essa si umanizza, meglio serve l’essere umano.
Il che vale a confermare il principio che essa è al servizio dell’uomo. Il passaggio nel nostro secolo da ENIAC, Electronic Numerical Integrator and Calculator (che occupava una grande sala, contava 18.000 valvole termoioniche; che quando era in funzione consumava 150 chilowatt)  ai desk-top ed ai palm-top (qualcosa che sta su una scrivania, qualcosa che sta sul palmo della mano); la caduta della intermediarietà del  tecnico e dell’operatore, il subentrare dell’utilizzatore, sarebbero fatti significativamente provvidenziali.
Forse perché dal punto di vista umano, umanistico, umanitario, tutto questo è ovvio, esso quando appare è necessariamente, anche, già avvolto nel rituale. E allora si può fare ricorso a strumenti interpretativi come i segni. Sono possibili letture psico-sociologiche o semiologiche le quali avallino questo punto di vista: che l’ovvio sia una faccia del rituale. Ma in questo modo nulla, sostanzialmente, verrebbe ad essere  cambiato, rispetto all’epoca di Erone, famoso inventore del primo secolo dopo Cristo; saremmo come immersi ancora in un rilassante bagno aristotelico e Cartesio, o Galilei, dovrebbe ancora nascere.

Il significato che l’umanismo può attribuire all’umanizzazione delle macchine, il modo come l’uomo dell’umanismo amministri quasi sempre il suo rapporto con la tecnica, s’illustra nel fatto che il discorso sulla comunicazione, e così il discorso pubblicitario, o l’immagine in quanto tale, hanno tutti un’impronta fortemente umanistica ed idealizzante. Dell’umanismo, commerciale, tecnico oggi, si può dire che esso è un arrotondare con l’occhio le cose. Che esso è fermo a quel colpo d’occhio sul giardino di piante, d’erbe, di fiori, di Leopardi. Visto dall’esterno, prima di entrarvi, esso sembra «un soggiorno di gioia», felice ed armonioso, ma entrandovi si scopre, ovunque, souffrance. Rose offese e seccate dal Sole, gigli succhiati da api, un albero infestato da un formicaio, un altro con foglie secche[31]. Che vi è non minore cultura pubblicitaria nell’uomo di quanto non possa rivelare ex novo l’attuale pubblicità commerciale.
L’umanizzazione è in questo; ma questo non riesce ad annullare il nulla, e cioè i meri dati di tecnologia, di tecnica, di scienza, di ragione, che vi sono.
Ciò che qui interessa è altro, per quanto mi riguarda, rispetto ad impressioni rassicuranti, e cioè: introduzione dal punto di vista tecnico di una capacità di pensare nelle macchine,  riconoscimento ad esse di una capacità di pensare, considerazione di tutto questo come fatto della tecnica. In questo senso io parlo di concessione di umanità alle macchine.  

2.- La moderna storia delle macchine «pensanti» si presta alla  rilevazione di una  regola che rovescia quella sopra esposta, per cui più la  macchina evolve, e si affinapiù essa si umanizza. Si può asserire invece  che la macchina è tale per  cui dire «più la tecnica si umanizza» equivale a dire solamente «più essa evolve e si affina». Laddove il soggetto storico è la  tecnica e dove «umanizzazione» sta evidentemente per «progresso».
Nella  macchina vi sono aspetti che inducono immediatamente l’uomo a pensare  all’uomo, ovvero che evocano l’uomo, un po’ come avviene, di fronte ad una immagine, che ci si ricordi di averla già veduta non si sa dove. S’intende in questo senso per umanizzazione qualcosa come oggettivi antropomorfismi: la traduzione della macchina in aspetti, prestazioni, che facciano pensare all’homo faber, all’homo sapiens, ecc. Questo non sorprende: la macchina ha una stretta destinazione umana. È utile, è l’utilità, è l’uso della cosa; e/o la verifica, la materializzazione di un pensiero, di un’ipotesi. Senso, questo, nel quale essa s’inserisce nel percorso storico della creazione dell’anima razionale.
«Umanizzazione» sta per «progresso», oppure per formulazione di pensiero in cui rientri l’uomo, o per allegoria, come già accennato precedentemente.
I primi tentativi moderni di dare istruzioni, capacità di eseguire una sequenza di operazioni, ai meccanismi, non sono rappresentati dagli automi; più ingegnosi erano, nel seicento, i coevi mulini inglesi. Ma è nell’automa, sostanzialmente in quello settecentesco, che si addensano significati.
Esso ha un fine dimostrativo, o celebrativo, e si offre alla nostra attenzione,  realiter, come un saggio di umanismo, e cioè un saggio di che cosa sia «umanismo»; ma qui, appunto, si offre il confronto diretto, fra uomo e meccanismo. Nell’automa del settecento si ricorre al trucco, alla creazione di un’apparenza,  per mostrare la capacità di pensare, i poteri dell’anima razionale.
Nel «turco che gioca agli scacchi», l’uomo  d’ingegno, nel settecento, pone con un trucco l’uomo, fisicamente (di  fatto nell’automa di von Kempelen si nascondeva un nano), ma più realisticamente vi pone il cervello umano. Egli in cambio delle apparenze sembra disposto a concedere umanità. Si ricorre al trucco, all’inganno ingegnoso, ma se questo accade, allora ciò significa che solo con l’inganno si può far credere alla superiorità dell’uomo sulla macchina. 
Qui le cose sembrano avvolte ancora nel mondo dei riti,  forse gli automi sono fortemente un linguaggio rituale (essi al loro primo comparire, nel duecento, erano allegorie), rispetto al  meccanismo, alla vera macchina (in grado di eseguire da sola un procedimento finalizzato), il preconizzare una introduzione di qualcosa di essenzialmente umano, d’importante, nel meccanismo delle macchine, fatto nei termini di un volere-non volere.
In un contesto di antropomorfizzazione, il primato in realtà resta, storicamente, ai meccanismi ad orologeria;  gli automi del pieno e tardo settecento i quali costituiscono un tentativo di animazione, rispetto alle sagome umane degli orologi dei campanili, messe lì, fatte muovere per accompagnare la scansione del tempo, come una presenza visiva dell’uomo inventore, sono anche un saggio dimostrativo della libertà umana. «Illusioni del progresso», in un certo senso, non nel senso vitalistico con cui poi questa espressione è stata usata.
In tutto questo vi è il rituale ma proprio per questo vi è anche la sostanza... che umanisticamente si vuole negare.
Gli automi allegorici non ci parlano solo di ritualità; essi rimandano, per il loro rapporto effettivo con i meccanismi che li governavano, ad un giudizio tecnico su tali meccanismi. I quali non erano né sensibili né comunicativi.
L’esempio che calza è quello delle figurine che danzano sulla sommità di un carillon, che Wiener descriveva per tracciare la distinzione fra le vecchie macchine ad orologeria, non predisposte alla comunicazione, e le «nuove», dotate di organi sensori, dunque «sensibili». Wiener a proposito delle figurine concludeva dicendo: «Esse sono cieche, sorde e mute e non possono in nulla modificare la loro attività dallo schema predisposto nel modello convenzionale»[32].

Nonostante le dichiarazioni di Wiener a favore di macchine  sensibili, l’automatismo, nella cibernetica, si sarebbe perpetuato,  trasformatosi. L’automatismo, nel suo evolvere, si presenta come uno  schema mentale che ben ritrae il mito della ragione, uno schema che in  questi termini governi il nostro approccio alla realtà, che è da  razionalizzare, in un certo qual modo. È un approccio che in modo rudimentale si può dire strumentale o umanistico. Schema ed approccio  che si sono ripresentati con la cibernetica, la quale non a caso si presenta  come arte, essenzialmente, di governo.
Se, qualora staccati dai meccanismi degli orologi, che essi subivano passivamente, gli automi avrebbero dovuto animarsi per  proprio conto, acquisire propri principi meccanici, e se ciò non fu sempre possibile, il problema dal punto di vista storico era quello: di tradurre l’atto di presenza umana dalla condizione di mero sembiante, di figura, alla condizione di essere animato. Dare dunque interiorità effettiva alla macchina e cioè interiorità operativa.
Sarebbero state macchine da calcolo ad ospitare per prime reali contenuti tecnici di umanizzazione, ad avere interiorità e cioè «capacità di pensare». In cui  è necessario il nesso fra la capacità di pensare e la eseguibilità di un calcolo, e cioè l’ottenimento di un risultato.
Nell’addizionatrice di Pascal, nei progetti leibniziani di  macchina per le moltiplicazioni, in questi meccanismi nati per calcolare, basati su rotazioni concatenate di ruote dentate, o di ruote e  pulegge o di tamburi differenziati, la cosiddetta «capacità di pensare» avrebbe avuta, subito, una qualche evidenza. Ed il passaggio, non facile, dall’eseguibilità meccanica  dell’addizione a quella della moltiplicazione, può essere ritenuto il segno  del trasferimento, nella macchina, di una più forte dose d’interiorità.
La capacità di pensare di una macchina si profila in questo modo. Inoltre storicamente si afferma il principio per cui pensare è sempre più elaborare. Ovvero: per Leibniz non si trattava di sostituire l’addizionatrice di Pascal (meccanicamente irrinunciabile, anche in progetti successivi); ma piuttosto di cambiare la sua condizione operativa, facendo  precedere la sua azione da un procedimento tale per cui tale azione desse risultati necessariamente di moltiplicazione.
La capacità di pensare, per continuare con la storia delle macchine da calcolo, si fa pienamente manifesta quando viene a riflettersi in una struttura più sistematica oltre che sequenziale della macchina: ciò accade, nell’«epoca Babbage-Jacquard», con il progetto di una «macchina analitica».
In questa epoca un thema specifico, già ritenuto dai filosofi costitutivo dell’intelletto umano, la «memoria», si trasferisce in termini applicativi in un meccanismo tale per cui si abbia il riutilizzo, nell’ambito di uno stesso procedimento, di risultati di elaborazioni precedenti.
Viene pensato un processore centrale di dati (la «macina»), nel senso che con la macina il procedimento da fatto diviene capacità di processare; le ruote con su segnati i numeri dallo zero al nove sono ripensate come dischi di  registrazione dei dati, e cioè le ruote è come se avessero solo la forma di ruote (uno stravolgimento di valori rispetto alle macchine che erano venute prima); e si pensa, traendo spunto dal telaio di Jacquard, alle schede perforate come istruzioni, cioè non è più l’uomo a controllare la sequenza delle operazioni.
Sostenendo che la macchina è tale per cui dire «più la tecnica si umanizza» equivale a dire «più essa evolve e si affina», penso di esprimermi mediante una contraddizione in termini: dico che più la tecnica si potenzia, più teoricamente (secondo certa sensibilità) essa dovrebbe divenire dunque disumana, più invece si umanizza. È una macchina sempre più ingentilita, più domestica, e dunque non una macchina mastodontica, ostile nell’aspetto, oppure poco comunicativa, a parlare la lingua della potenza della tecnica. Nella tasca della giacca, oppure nel palmo della mano, possiamo trovare qualcosa che è dotato di memoria, di un microprocessore; insomma di una interiorità ben definita, di una qualche personalità.
Ma, se vi fosse inoltre contraddizione in termini, allora il rapporto fra automa e meccanismo ad orologeria, che cosa potrebbe significare?
In realtà però tutto dipende da quale angolo visuale considero le cose: vi sarebbe dunque contraddizione in termini qualora dovessi ritenere la macchina prima un fatto umano che un fatto della tecnica, ricorrendo ad una petizione di principio.
Penso quindi che tale contraddizione sia tale nel linguaggio, perché  in realtà io vengo a distinguere due aspetti. Io dico «si umanizza», e potrei, forse dovrei dire: «sembra umanizzarsi», a non voler dimenticare, nel quadro di certe trasformazioni, il rapporto fra ciò che si sa, si vede, si sente, su cui si pensa, ciò che è matematizzabile, e ciò che è, come predeterminazione di un corso naturale delle cose, o se si preferisce, della storia.
In altre parole: l’«umanizzazione», accompagnata dal credo umanistico è pur sempre antropomorfizzazione; quando si parla di umanizzazione a proposito delle macchine è come se ancora si fingesse mediante gli automi e le figurine del carillon di Wiener.

L’umanizzazione rivela il suo aspetto di sembiante, se io mi soffermo sul fatto che la macchina possa eseguire in  frazioni di secondo calcoli che l’uomo impiegherebbe giorni, mesi e più per eseguire; se considero il problema e l’obiettivo dell’azzeramento dell’errore, e cioè la tipicità umana dell’errore cui le macchine da calcolo avrebbero dovuto porre rimedio ad esempio nel celebre progetto dei rivoluzionari francesi per la compilazione generale di tabelle matematiche. Penso anche, con riferimento al nostro tempo, al numero di colori riproducibili mediante l’«alta definizione».
Umanisticamente, e con il sentimento legalistico del «falso», si può ritenere che l’imitazione di un prodotto nulla aggiunga al prodotto, e che solo possa danneggiare qualcosa; oppure che il problema della copia sia quello di imitare l’originale sapendo di non poterlo eguagliare; che se la macchina prende dall’uomo allora per definizione essa non sarà né più interessante né più creativa dell’uomo.
Ma neanche il mondo platonico delle idee può significare semplicemente questo, e lo dimostra il pensiero neoplatonico sull’opera d’arte, ritenuta attributiva, meglio aggiuntiva di «essere» in termini d’immagine. Dimostrano il contrario sia l’iconicità della nostra cultura occidentale, che poi diviene la nostra contemporanea società «dell’immagine»; sia l’importanza, per l’individuazione del tramonto del medioevo, della fine del «ciceronianismo» all’epoca di Erasmo da Rotterdam: il medioevo finisce allorquando alcuni uomini ritengono che non si debbano imitare i classici, nel nostro caso Cicerone.  Analogamente: l’essere umano che in qualche modo conversa o dialoga con la macchina pensante riconosce in sé, in un riflesso, la possibilità di svolgere prestazioni che hanno la stessa natura di quelle che la macchina è in grado di eseguire: «la macchina fa questo?, dunque - ecco il riflesso - questo non ha nulla di inumano».  
Accade cioè che si ritengano umane, nella macchina, quelle caratteristiche che l’uomo è capace di riconoscere in essa. Il che dimostra però che la definizione di umano è, anche, un modo per dire «penso che questo sia umano», ovvero: è certo che io mi trovo al cospetto di un fatto di ricognizione.  Se questo ha un suo fondo di verità, può non aiutare a riconoscere la macchina e la tecnica in ciò che avviene. Non dare autonomia al saper fare della macchina.  A ciò si può contrapporre il bisogno umano di conoscere la macchina oltre che di riconoscersi nella macchina. In fondo, se questo non fosse accaduto, non si sarebbe avuto alcun dialogo con il computer. Tanto l’umanizzazione è sembiante, ed in parte inganno, quanto essa posso dire che è  un aspetto della macchina e della tecnica. Se ogni discorso sull’umanizzazione tende a conservare margini di ambivalenza, questo lo si dovrà attribuire al legame di prossimità fra l’uomo e la macchina.  Realiter avviene che  la macchina rivela nel suo funzionamento certe corrispondenze con qualità umane che non si sapevano, e se questo avviene, ciò significa che non erano qualità umane. Non è importante che cosa certe cose sono, ma come esse nascono.



ASPETTI DELLA CRESCITA DELLA INTERIORITÀ DELLE MACCHINE


1.- Ho caratterizzato la «modernità» come l’epoca storica «dell’anima», intendendo per anima, in generale, qualcosa di suo che l’uomo vuole fabbricare per sé. Epoca storica dell’anima, ed epoca dell’attribuzione di valori. Minore divenendo in certo senso la paternità del sacro, in termini di rappresentazione, o d’immagine. Ed è di questa epoca, ad iniziare dal seicento, l’inaugurazione di un vero discorso umano sulle macchine che oggi diciamo «pensanti». Ma ho detto anche: la macchina è congeniale alla modernità, perché da una certa epoca in poi lo spirito diviene oggetto.
È caratteristica dell’epoca moderna l’inaugurazione di un vero discorso così sulle macchine pensanti come sull’intelletto umano: il legame non è diretto, pure esso emerge. Questo io vedo nel fatto ad esempio che John Locke avesse scritto un trattato nel quale un’epoca potesse riconoscersi, e nel fatto che in questo trattato egli fosse partito dalla confutazione della teoria delle idee innate; che dunque avesse scritto, in un modo profondamente innovativo, sulla capacità del cervello umano di elaborare idee, o dati (: nulla di preesistente). Su questo aspetto, della possibilità di elaborare idee muovendo da una tabula rasa, è stata richiamata l’attenzione dei cibernetici. 
Lo spirito diviene oggetto; dunque ora l’uomo si osserva molto di più; ovvero la riflessione e la scienza sono  piuttosto speculari, antropologiche. Prendiamo la prima metà del settecento: è crollato il sistema geocentrico, passi giganteschi sono stati fatti nei vari campi delle scienze con la cosiddetta «rivoluzione scientifica», da Copernico a Newton; ma l’uomo si fa molto più antropocentrico. Accade che l’umanismo, inteso come pensiero che ha l’uomo come sempre necessario riferimento a ciò che avviene o si sa, è forte e cresce, quando le scoperte scientifiche dimostrano quanto l’uomo sia piccolo, estendendosi la dimensione dell’universo calcolabile. Ma si è estesa la dimensione dell’universo calcolabile, e vi è e non vi è contraddizione, se si considerano le motivazioni dello scopritore, ovvero del calcolatore. Questa non può essere ritenuta una regola sempre valida, ma probabilmente questo è quanto è accaduto, in una determinata epoca storica.

2.- Prendiamo inoltre un aspetto del settecento francese, celebrativo della ragione, espresso  teoricamente nei primi dell’ottocento e ancora impigliato, per così dire, nelle metafore dell’idealismo: l’autoconoscenza, o l’autocoscienza, attribuita in tali metafore allo spirito, e che è un altro modo di dire che nella modernità lo spirito è divenuto oggetto.
Che cosa significa ad esempio «subentrare dell’autoconoscenza»? Significa che da una certa epoca in poi l’uomo divenne consapevole della distinzione fra producente e prodotto. Che l’attività del pensiero era attività produttiva; aspetto che secondo certa interpretazione venne esposto filosoficamente dal giovane Hegel nella sua Fenomenologia dello spirito. E l’autoconoscenza, dal momento che essa viene esposta, indica una crescita storica della facoltà astrattiva dell’uomo. Ora, rispensando per contrasto a Platone io posso dire: in quel tempo forse vi era davvero una certa quale metafisica dell’oggetto (le cose erano cose), rispetto al tempo moderno, in cui si scopre la metafisica nel sapere, in cui cioè il sapere non sembra disposto a rimettersi alle cose. 
Ancora, in parallelo: che cos’è l’autoconoscenza nella sua modernità? È che il rapporto fra uomo e macchina è antico; ma il pensiero, nell’antichità, e con essa l’uomo non si rimetteva alla macchina. 

3.- Con l’epoca moderna la crescita dell’anima è tale per cui il pensiero produce, e la produzione viene pensata, si spiritualizza; l’uomo è in grado di attribuire un’anima. Una cosa esiste dal momento che è pensata dallo spirito, il quale in questo modo viene a costituirsi ed è l’oggetto. Ovvero per cui, ancora, se lo spirito è oggetto, allora l’oggetto si spiritualizza.
Ed è di questa epoca, in relazione con questa caratteristica, che si ha una evoluzione delle macchine che non ha precedenti nella storia.
Il rapporto fra uomo e macchina è antico; ma, osservando le cose dal punto di vista dell’autoconoscenza, si nota come sia avvenuta nel seicento la nascita di un rapporto specifico con il calcolatore. Non a caso, si potrebbe aggiungere con il senno di poi; perché il calcolo è un’operazione molto più umana di quanto non si creda, e perché è un’operazione molto personale. Non è sic et simpliciter un insieme di operazioni ripetitive.
Io, personalmente, crederò ad esempio nella ripetitività del calcolo quanto nella sua ritualità e nei suoi aspetti di gioco. E cioè sarò disposto a ritenere che nel calcolo vi sia qualcosa di magico, quanto ve ne è nel fatto dell’intelligenza, e non solo quindi qualcosa di ripetitivo.

4.- L’evoluzione della tecnica, nell’età moderna, avviene dunque, in un modo singolare, negli strumenti per il calcolo; avviene con inerenza ad una  evoluzione oggettiva e sociale nell’attività di calcolo, e cioè con riferimento a ciò che bisognava effettivamente calcolare, all’oggetto, in relazione ai caratteri che assumeva la storia sociale, economica e politica. Non nel fatto di per sé stesso, cioè, che si calcoli e si misuri - si può ricordare con simpatia come nel medioevo il ragioniere fosse chiamato rationalis -, ma nel fatto che nell’età moderna si calcoli molto di più che in qualsiasi altra epoca.
Che il calcolo in tale età non sia il calcolo delle età precedenti, è il frutto della evoluzione di ciò che ci si trova a dover calcolare. Si devono  calcolare costantemente ad esempio, cosa che nel passato non accadeva, la rotta di una nave oppure il saggio d’interesse del denaro; laddove una società deve poter calcolare tutto.
In una società che presenta una maggiore complessità inoltre, cresce l’autoconoscenza, ed il calcolo diviene esso stesso oggetto del pensiero. Alla cercata  universalità, per così dire, degli strumenti per il calcolo, succedono le teorie in cui il calcolo è oggetto. Sempre più il ragionamento matematico così si formalizza.
L’idea di calcolo, se osserviamo le cose con profondità, scopriamo che è insita negli strumenti stessi, valorizzati da Bacone in quanto strumenti essenziali per il progresso delle scienze; ed il cannocchiale di Galileo, proprio nella sua qualità di strumento, fa parte di una cultura generale del calcolo. L’umanismo, in tutto questo, si può anche dire consistesse, e possa consistere tuttora, nell’attribuzione di caratteristiche umane, razionali e morali, ai dispositivi. Non interessa però, qui, parlare dell’umanismo per così dire  «storiografico»; ma del fatto che l’uomo possa introdurre, rendendola attiva, qualcosa di suo nella macchina.
Io penso, con riferimento ai meccanismi per il calcolo ed alla loro evoluzione nell’età moderna, al significato delle ruote ed alla differenza tra la macchina di Pascal ed il regolo. C’è un iato, un salto, fra questi due dispositivi.  C’è forse dell’altro; ma a me questo basta, e ricollego questo salto ad un’idea, moderna, di anima.
L’anima, e l’anima razionale per ciò che in essa vi è di non razionale, è l’interiorità; ma interiorità mondana,  effettiva, operante, autonomia operativa; e prima ancora, da un punto di vista fisico elementare, essa può essere resa come movimento. Il greco AnemoV significa soffio di vita, meglio: vitalità evidente, respiro. Che sono tanto evidenti quanto inspiegabili nella loro essenza. Evidenti sostanzialmente in quanto all’effetto, ad una essenza tecnica. Tutto questo in che cosa è traducibile, tecnicamente - mi domando-, se non nel movimento, nella sua trasmissione, ed in una cultura tecnica dell’effetto? Il vocabolo Autòmata  significa: «che si sono istruiti da sé», «che si muovono da sé».
Tutto questo ci riconduce a quanto detto a proposito di Cartesio, e cioè che attraverso il principio del movimento e meglio ancora attraverso il moto curvilineo, il cosmo si emancipò da Dio.
Io isolo dunque mentalmente due aspetti, con riferimento al passaggio dal regolo calcolatore alla macchina di Pascal: la ruota e il movimento. Quel percorso caratteristico, che s’inizia con il matematico e mistico francese del seicento, consiste nella  introduzione, nella macchina da calcolo, del principio di movimento, corpi che si muovono in forza della trasmissione del movimento, di un’animazione; le ruote che girano sono movimento. Idea non nuova, idea che era ben presente ad esempio, sotto il profilo della trasmissione del movimento, nel duecentesco  «teatrino di Erone», in cui si aveva un rullo «programmatore», che faceva alzare ed abbassare, in modo alternato, una serie di automi, e bisognerebbe aggiungere, vista l’etimologia, finti automi.
Ma idea che ora assume una inerenza diretta e quasi contenuta  all’imitazione di operazioni specifiche del cervello umano, con una  meccanica che è quella che può essere, che non è cioè quella del cervello  umano. Per dire con questo: idea di una interiorità, dare alla macchina una  sua interiorità. In un regime, essenzialmente, di autoconoscenza. Ma anche in un regime di gioco, o parzialmente tale: il movimento di ruote, a causa della forma singolare che  esse hanno, entra nel gioco matematico, e così accade al gioco del movimento, dei corpi, dello spazio, che sono tali per cui si producono operazioni somiglianti al calcolo umano.

5.- Cultura dell’effetto: nel dare interiorità alla macchina e nella sua animazione, sembra inscritta già dall’inizio, oltre che l’idea  di movimento, la razionalità di un funzionamento, razionalizzazione di un qualcosa, intensificazione della razionalità umana. Se il movimento non fosse stato in qualche modo razionalizzabile, e se non fosse stata funzionale la razionalità di una ruota che gira, non vi sarebbero stati i successivi progetti leibniziani.
Per cui per dare ad una macchina un’anima si dovranno cogliere ed applicare i principi razionali di un possibile funzionamento in relazione ad uno scopo. Si svilupperà in questo modo il discorso sulla programmabilità, sulla sequenzialità delle operazioni che la macchina dovrà eseguire, accrescendosi così in essa l’autonomia e profilandosi la capacità di pensare; discorso sulla localizzazione in una macchina di un’anima razionale, rispetto ad un’anima esecutiva di ordini, rispetto ad un’anima conservativa di memoria.

6.- La ruota dunque, il movimento, il gioco, la razionalità; direi di più: il gioco della razionalità e la razionalità del gioco.
Ma nella natura, e nel senso originario di questo percorso, che attraverso scoperte importanti nel campo della tecnica delle comunicazioni (Baudot, ad esempio) e nell’elettronica conduce poi al fenomeno computer, avviene qualcosa. Qualcosa di analogo al fatto che l’autoconoscenza della speculazione filosofica sia un rendere irriconoscibili gli oggetti, ovvero una forte manipolazione. Saltare, non semplicemente regredire, accedere, in un mondo nuovo.
Secondo quanto si è già accennato, nell’andare da una meccanica  esteriore, per così dire, in cui l’uomo è esterno, per lo più allegorico, raffigurabile  nell’automa, in cui cioè l’esteriorità di ciò che è meccanismo è ben rappresentata nel fatto che l’uomo sia allegorizzato nell’automa, ad una macchina  sempre più interiore, in cui qualcosa che è evocativo dell’umano si localizza, come un’anima, dentro la macchina, avviene qualcosa che è istintivo definire «rivoluzionario».
Il computer, come fenomeno e per il suo valore di scoperta,  è stato considerato qualcosa di rivoluzionario, ed è stato accostato per importanza alla scoperta del fuoco. Si è parlato anche di mutazione, nel senso biologico del vocabolo.

7.- Furono gli illuministi nel loro umanismo a ritenere che i fatti che avevano caratterizzato la storia delle scoperte scientifiche da Copernico a Newton avessero costituito una «rivoluzione scientifica». Furono essi cioè ad introdurre la parola ed il valore «rivoluzione»;  alludendo probabilmente al fatto che fosse cambiato moltissimo nella rappresentazione umana del cosmo e della natura delle cose, in relazione ai progressi nel campo delle scienze della natura. 
La storia delle scienze, secondo Diderot e D’Alembert, era segnata da una serie di rivoluzioni; scrivendo la storia del progresso scientifico si poteva attribuire carattere rivoluzionario anche ad alcune fasi dell’antichità; Bailly, nella sua Storia dell’astronomia moderna dopo la fondazione della Scuola di Alessandria, «introdusse rivoluzioni di molte specie e grandezze»[33].
Progressi avvenuti nel campo delle scienze della natura, certo, ma io direi: in generale nei fatti mentali di quantificazione. Newton che quantifica il cosmo, e poiché quantifica, rappresenta, relega d’improvviso nei musei antropologici le vecchie carte e mappe: questa è la novità.
Se rivoluzione vi era stata, essa aveva riguardato la rappresentazione del mondo quale calcolo del mondo. Se si dice che un fatto è rivoluzionario si quantifica quel fatto in termini di rappresentazione[34].
Rivoluzione dunque nella rappresentazione, ed installazione della rappresentazione della rivoluzione. Qui è come se si facesse largo, come se acquisisse i suoi primi spazi, una moderna anima sensibile. Con l’anima razionale produttiva si ha anche necessariamente il venire a galla di un’anima sensibile.

8.- A proposito di potenzialità rivoluzionaria, o se si preferisce di ciò che non è in atto, io mi domando che cosa sia il software. È il materialismo insito nel principio di ragione, ciò per cui la ragione è materia. Ciò che è tanto più evidente quanto maggiore è il livello raggiunto dalla tecnologia.
Il software sono sì semplici istruzioni date alla macchina, ma è un modo di far sì, ad esempio, che un oggetto ci appaia irriconoscibile, o che si abbia l’impressione di non averlo mai conosciuto.
Nella natura del software si annida una quasi infinita possibilità di manipolazione degli oggetti, delle immagini, delle sensazioni. La quasi infinita possibilità consiste nella cosiddetta virtualità. La comunicazione fra uomo e macchina, fra uomo ed oggetto è tale in essa, per cui l’uomo è  colui che «crede di», crede ad esempio che guerra non vi sia stata pur essendovi state morte e distruzione - come è accaduto -, al di là di qualcosa che accade.
Il mondo degli effetti è  tale per cui avviene la reale produzione di un mondo percettivo  generale. Ed in questo mondo chi sta nell’abitacolo o nella  cabina di comando, rispetto all’effetto, tende ad essere un ente  minore. O quanto meno: parte di un tutto.

9.- Nel cosiddetto postmoderno, maggiore è l’interiorità dell’oggetto-macchina, maggiore la comunicazione, che s’impone, maggiore il senso ora del terminale, ora dell’anonimato dell’ utilizzatore.
A questo punto, ci si domanda, che cosa è successo? Ovvero che cosa è ciò che si dice rivoluzione? La sensazione generale è che vi sia stato un vero travaso: di bellezza, di capacità di pensare, di calcolo. Nella interiorità, prodottasi, dell’oggetto, dell’oggetto-macchina, nella razionalità di questa presenza, vi è una esistenza nuova, dotata di anima.
Quell’umanismo che è concresciuto con l’assurgere la macchina ad oggetto del pensiero, quel tentativo di sistemazione sempre più intenso delle strutture o riflessi del cervello umano, ora vede nell’uomo artefice, costruttore e programmatore una figura terminale. Profondità d’animo di un fatto.
L’interiorità della macchina, ripensando ai progenitori  Pascal e Leibniz, è divenuta un sistema universale, il cui fondamento è la comunicazione.

10.- Nella natura del software è come racchiusa la possibilità di mutare la nostra rappresentazione del mondo e degli oggetti. È la prassi, degli idealisti, la storia degli storicisti, che prende altre forme.
È in ballo l’epistemologia, s’intuisce perché possa apparire traballante o non molto convincente l’epistemologia scientifica, avvolta in un sostanziale logocentrismo, ed è parimenti in ballo l’uomo  sensibile. Tutto ciò lo si deve alla interattività ed alla  comunicazione. Al fatto, meglio, che l’oggetto materiale non è tutto ciò che ci è dato dall’oggetto; e che l’oggetto più significativo è la macchina.

11.- Noi possiamo esprimere, rilevando il fatto che gli oggetti siano mutati, un cambiamento avvenuto nella nostra sfera della rappresentazione.
Che cosa è un oggetto reale inerte nel quale sia stato immesso un software, una memoria, ed un microprocessore? Esso non è più lo stesso oggetto. Sembra, per chi muova da un mondo tradizionale di sensazioni e di concetti, un oggetto stravolto, impazzito. È divenuta discutibile, nella sua configurazione, la categoria mentale di oggetto, e bisognerebbe riscrivere un Trattato sulle sensazioni, o una Critica della ragion pura.

12.- La mutazione, che interessa la sfera oggettiva, corrisponde probabilmente ad una crisi del principio di evidenza, ovvero di quei segni per cui qualcosa ci era familiare. Quell’oggetto era reale a causa della sua inerzia e mera esteriorità. Se esso (mettiamo una forma rettangolare in plastica) è tuttora tale, lo è solo secondo l’evidenza (viene spontaneo dire: la cattiva evidenza): in realtà ha una sua potenzialità autonoma, una sua personalità, un’anima. Ha memoria, ha capacità di elaborazione di dati. Che lo si possa comodamente tenere in una tasca della giacca non ha alcun significato, dal punto di vista razionale.

13.- La domanda, sul che cosa stia accadendo nel rapporto fra l’uomo e l’oggetto, può anche essere la seguente: una volta quali erano i luoghi della ragione, e quali sono oggi?
Il mondo oggi è tale, per cui l’oggetto può essere ritenuto serbatoio di sapere[35], si legge. Ora vorrei ampliare questa espressione: serbatotio di sapere. Ed intenderla nel senso che se in un prodotto vi sono arte, industria, scienza e tecnica accumulate, allora esso può trasmettere quel sapere che una volta gli oggetti non potevano trasmettere. Non so se le cose siano semplificabili in questo modo; ma noto come sia mutato, nel pensiero di filosofi rappresentativi del nostro secolo (penso essenzialmente alla «Scuola heideggeriana»), l’approccio sensibile e contemplativo con la «cosa della tecnica», l’opera d’arte, gli oggetti, le parole del linguaggio. Tutto questo è in fondo sintomatologia, e significa: è mutato l’oggetto, in generale, nelle sue proprietà, ed è mutato, sta mutando, il mondo delle rappresentazioni umane. 

14.- L’oggetto meccanico diviene elettronico. Leggo in un libro, a proposito dei criteri di classificazione degli oggetti elettronici, una espressione significativa e cioè: «nuove tipologie di oggetti». Ovvero: ci si domanda come classificarli, tali oggetti, secondo la sostanza, rilevate le insufficienze della classificazione merceologica[36]. È forte, l’esigenza di riclassificare tutto il mondo degli oggetti elettronici, perché oggi è come se tali oggetti si staccassero dal referente: il word processor dalla progenitrice macchina da scrivere, la macchina  fotografica dalle sue versioni meccaniche. Ma il discorso può essere ampliato, considerandolo vero non per tutti gli oggetti, ma per tutte lo forme di oggetto. 
A proposito degli oggetti elettronici, ed a volere un po’ riassumere le cose, si può avere un riscontro sui legami di necessità storica fra l’anima razionale di Cartesio e la moderna storia delle macchine da un approdo cui questa storia giunge, e cioè dal fatto che - come si dice - l’oggetto «reale», l’oggetto «materiale», oggi, ha una sua «esteriorità» ed una sua «interiorità»[37]. L’interiorità è ciò che realmente accade nell’oggetto,  l’esteriorità è ciò che noi affermiamo accadere a quell’oggetto, o anche  ciò che si vuol fare credere accada. Mentre l’interiorità sempre più si distacca, si allontana,  dalla esteriorità, l’uomo utilizzatore è con l’esteriorità che ha a che fare e crede che quel rapporto sia il suo vero rapporto con l’oggetto. E dunque che quello sia l’oggetto. Ma non è così.

15.- Si può avere un profilo sintomatologico di ciò con riferimento  al rapporto fra due storie: quella dell’oggetto, in modo particolare l’oggetto-macchina, e quella del giocattolo. L’oggetto, con il suo sapere, è il giocattolo, il quale ha una sua meccanica ingegnosa, la quale è tanto più  ingegnosa quanto maggiore è l’effetto di sorpresa. Il giocattolo è simbolico, esso emula la realtà, ha una sua autonomia o «personalità», ma si sa che è un giocattolo, e cioè vige la differenza, nelle immagini o nelle rappresentazioni, tra un giocattolo e la macchina. Nella macchina, dotata di un’anima razionale, non si sa dove sia il giocattolo, ma s’intuisce la presenza di un quid come un gioco. E di più: anche se si sa che cosa la macchina potrà fare, ci si sorprende di ciò che essa fa. Detto altrimenti: l’interiorità dell’oggetto, essendo qualcosa che non appare dall’esterno, si può sprigionare, da un momento all’altro, come accadeva alla lampada di Aladino: basta sfregare un po’ e di lì si sprigiona una potenzialità insospettata. Chi crederebbe che una vecchia lampada, simile in tutto alle altre che si possono trovare sulla bancarella di un mercatino domenicale, sia tutt’altra cosa?
Ma ora non è semplicemente così, e di più si può dire: chi crederebbe di potersi sorprendere, come l’ingenuo selvaggio, delle prestazioni del genio di Aladino, pur sapendo quello che il genio può fare?
L’interiorità si può spiegare in questo modo. Essa fa capo direttamente al fatto. Non a parole, non a concetti. Ovvero: il tecnico sa, ma solo dopo aver provato.

16.- L’interiorità e l’esteriorità delle macchine richiamano l’evoluzione nel campo dell’interfacing, e così il fenomeno di per sé dell’interfaccia grafica che scaccia il buio e rende la macchina più familiare, meno estranea, evocando oggetti familiari mediante una iconografia, fa riflettere.
L’interfacciamento fra uomo ed oggetto-macchina è un fatto di  strumentazione importante perché si possa dialogare con la macchina; ma esso in realtà è un inganno utile e necessario; e cioè è comunque un inganno, dovuto all’interiorità della macchina; esso è inganno ed è tale per cui nella sostanza l’interattività avviene con  qualcosa che non risponde all’apparenza creatasi con l’interfacciamento.

17.- La distinzione: fra una interiorità ed una esteriorità dell’oggetto materiale la cui distanza vieppiù si accresce scavalcando le nostre capacità rappresentative, suggerisce un’altra riflessione di ordine generale.
E cioè: sulla iconografia molto s’insiste quando ci si occupa di prestazioni delle macchine pensanti o di raffigurazione artistica; ma il nostro mondo degli oggetti quale mondo di rappresentazioni non è semplicemente iconografico; il nostro umanismo di occidentali è anche meccanicistico. Noi versiamo in una cultura meccanicistica.
Prendiamo tre cose della tecnica, tre oggetti: il  personal computer, il  frullatore, e la bicicletta. Al di là della nostra cultura iconografica noi ce li rappresentiamo allo stesso modo, secondo l’esteriorità, in quanto oggetti meccanici. Noi abbiamo una rappresentazione meccanicistica di quegli oggetti. 
Ma sappiamo, possiamo giungere a capire, che non è così, se non per un senso di comodità e per l’utile della rappresentazione. Se l’interfacciamento è umano, l’interiorità è una immagine. Nulla meglio della interiorità attribuita ad una macchina o in generale ad un oggetto esprime qualcosa che avviene perché non poteva non accadere, date certe condizioni.

18.- Il distacco crescente fra interiorità ed esteriorità di oggetti materiali può essere interpretato come uno stravolgimento dell’oggetto rispetto alla sua immagine. Esso è tale per cui non è più lo stesso.
L’oggetto non si può più identificare per la sua forma, rispetto alla quale esso appare come stravolto. Ciò che nel moderno è attribuzione di valori, di fronte alla crisi dell’anima nel «postmoderno» può presentarsi come trasfigurazione di valori.
L’interiorità degli oggetti, nel suo distanziarsi sempre più dalla loro esteriorità, è essenzialmente elettronica; questo significa che oggetto e macchina tendono a confondersi, e che lo stravolgimento riguarda il nostro rapporto con gli oggetti in quanto macchine.

19.- Questa impressione di uno stravolgimento in fondo può dirsi corrispondere ad una sorta di trasfigurazione che caratterizza l’evoluzione delle macchine-progetto. Nella «macchina analitica» di Babbage, come si è visto, le ruote numerate divenivano (come) dischi, impilati, per la  registrazione. Lo stravolgimento avveniva a causa della interiorità.
Analoga considerazione può essere svolta a proposito della «macchina universale» di  Turing. Mi domando: che cosa è la macchina universale rispetto ai miei livelli di rappresentazione? Nell’apparenza,  per come essa è descritta, è una macchina da scrivere; in realtà però  le cose non stanno così.
Essa e cioè l’interiorità, è una metamorfosi, una fantasizzazione, della macchina da scrivere, un suo impazzimento o un divenire irriconoscibile, per cui all’improvviso la sua testina è anche un occhio, il quale è in grado di leggere, riconoscere, oltre che scrivere; leggere e scrivere su una striscia di carta teoricamente infinita, suddivisa in tantissimi quadratini, altra esteriorità, ognuno con su raffigurato, dunque consistente in, un suo simbolo; infinita, ovviamente, non la striscia di carta in quanto tale, la quale invece sarà sempre necessariamente finita, ma le sue possibili combinazioni, la possibilità che ha la testina di andare avanti e indietro (non essere dunque unidirezionale e lineare) leggendo i simboli e venendosi a riconfigurare, ogni volta, alla lettura di ogni nuovo simbolo, la macchina. Un quadratino che riconfigura una macchina... Questo regime lo possiamo considerare d’irriconoscibilità.
L’idea è anche quella dell’omeostato progettato dal neurologo Ashby, sotto il profilo della autoregolazione dei quattro sottosistemi, e della eguale possibilità, in qualunque momento, di ognuna delle quasi quattrocentomila configurazioni[38]; e quindi quella della cosiddetta randomness.

20.- Quella di rendere irriconoscibili le cose una volta era l’accusa mossa alla metafisica della filosofia moderna; Feuerbach a proposito del pensiero hegeliano sosteneva, criticandolo, che esso presentava-pensava le cose  in maniera tale da renderle irriconoscibili; che esso tradiva la sensibilità; che esso stravolgeva l’evidenza sensibile.
Difficile dire dove vi fosse più verità: se nella critica feuerbachiana o nel sistema hegeliano. Probabile che l’invito, ad un nuovo bagno nella esteriorità sensibile indicasse che l’oggetto, pur descritto com eterno o naturale, dal punto di vista del pensiero e della rappresentazione, stava cambiando, o era cambiato.
È certo poi che il principio di evidenza sembra essersi indebolito. O comunque esso presenta maggiori debolezze, rispetto alle potenzialità dell’astrazione razionale, secondo il principio del cogito ergo sum, per cui la falsificazione appare in generale come un prodotto dell’ingegno; nel mondo dell’intelligenza delle macchine come un contenuto positivo. Ovvero, se io dico «questo oggetto è stato falsificato», io esprimo in modo generico una regola generale, non un disvalore.

21.- L’evidenza si è trasformata, perché la crisi ha colpito da tempo il vecchio principio di non contraddizione. A causa essenzialmente di una maggiore profondità nella produzione, questo principio si è come indebolito, e meglio, bisognerebbe dire, l’evidenza si è dualizzata; nel senso che essa costituisce ora lo strumento, sia per progredire (il «questo se non è così, il risultato non sarà questo», del procedimento tecnico), sia per ingannare (il «se questo appare come risultato, allora questo è vero in sé», prodotto tecnico).
La tecnica si è potenziata attraverso l’inganno tecnico; il poter far credere qualcosa da parte della tecnica si è accresciuto. Tipici sono in questo l’interfacing e la realtà virtuale.
Arte dell’inganno, contraffazione, come potenziale tecnico, consiste oggi nel fatto che si possa ingannare sia con il vero sia con il falso.  Quello che viene considerato qui come «stravolgimento» consiste in generale nell’inganno procurato dall’evidenza dell’oggetto rispetto alla realtà ed alla sostanza, il che si ha nel verismo rappresentativo, per cui ciò che appare è, come accade nella cosiddetta «realtà virtuale».

22.- Stravolgimento e magia sono parole che servono a definire la possibilità. «Detto fatto», può essere il motto nel rapporto che si stabilisce fra ciò che vogliamo che sia fatto e ciò che viene fatto in men che non si dica. Limitativo dunque in generale parlare della possibilità, questa profonda categoria della mente, al di fuori del mondo delle macchine.

23.- Si può dire: ciò che avviene realmente, ciò che avviene di progressivo, è ciò che si può ritenere imbroglio, trucco, creazione di apparenze, falsificazione. Il falso è il reale in quanto sia riprodotto veristicamente. Il vero è tale in quanto possa essere falsificato, ciò che il profondo della produzione, che si attua.
Ci si può interrogare nuovamente su quale sia l’essenza della tecnica, ritenendo ora che nessuno possa mettersi a confutare, pena una perdita di tempo, il principio per cui la tecnica è manipolazione ed inganno dell’oggetto ed è il significato di quella manipolazione. Il fatto che un oggetto diventi irriconoscibile, è legato alla natura ideativa della tecnica, quanto il fatto che un oggetto sia vero, tangibile...
Ma che cos’è l’inganno, riferito alla tecnica? Si chiama inganno, o trucco, in relazione ad un oggetto, ciò che avviene in esso raggiunto un notevole potenziale della tecnica. Una interiorità, come si diceva, che sappiamo quello che può fare, ma che in questo suo fare purtuttavia è sorprendente. Il sorprendente di ciò che non dovrebbe sorprendere.
Io non accentuerei l’aspetto dell’inganno, in un senso simile a quello della morale sociale comune. Lo vedrei meglio nel senso ad esempio, della virtualità. Il desk-top è ambiente virtualizzato.
L’interfacing non è il semplice inganno, o il semplice trucco, ma è il «come se». Il «come se» corrisponde al fatto che è lo spirito sia divenuto oggetto; ciò in cui consiste la realtà dell’anima. L’anima, cioè, è il come se. In questo sostanzialmente il produrre può essere identificato, spacciato, per l’accadere. In ciò gli effetti, i risultati percettivi, da un punto di vista realistico, e cioè vinta la prima impressione, sono di un viaggio nel come se dell’anima. La casa elettronica, dentro cui si passeggia, è un viaggio in una dimensione dell’anima.

24.- Il problema è sempre quello che si ha nel rapporto fra l’uomo e la macchina. Questo rapporto è un rapporto diretto, per l’uomo, un rapporto terrestre, un avere a che fare essenzialmente con l’uomo. Ovvero: i problemi attinenti alle macchine pensanti riguardano l’uomo, il quale è come fosse chiamato sempre di più a fare i conti  con la sua  mente, la sua sensibilità, ecc.
Riguardano qualcosa di terreno, a differenza di quanto accade nella fisica, soprattutto astronomica. Lo spazio e tempo della macchina sono lo spazio e tempo della macchina.  La tecnica è in questo suo carattere terrestre che viene ad incidere sull’umanismo dell’uomo. Ad invadere il campo.
Vi è l’umanismo pre-galileiano, l’umanismo dell’usuraio medievale, e quello post-galileiano. L’umanismo delle humanae litterae ... Ma umanismo dal punto di vista formale è l’uomo che sa di avere quella essenza che ad esso è data dal suo essere «terrestre»[39], terrestrità alla quale sempre ritornerà, nella sua cultura materiale, nel suo comportamento.

25.- Colpisce, la terrestrità della macchina... Più che antropomorfica o antropomorfizzabile, la macchina è terrestre: essa appartiene alla storia della terra e alla terra, ecc. è terrestre forse proprio perché vuole liberare dalla terra… E questo mi fa riflettere su una serie di cose, non ultima la parziale artificiosità del conflitto fra tecnologia e umanismo. ..

(scritto nel 1995)




[1] Julien Offroy de LamettrieL’uomo-macchina, trad. it. in  Opere  filosofiche, Bari 1978, p. 215.
[2] Cfr. Ecfanto, frg. n. 1, in I presocratici, a cura di h. Diels-w. Kranz, trad. it., Milano 1991, p. 525.
[3] L’espressione è di Walter Benjamin. Sull’«uscita dell’arte dai suoi confini istituzionali», si veda il libro di G. VattimoLa fine della modernità, Milano 1985, soprattutto la Sezione Seconda («La verità dell’arte»).
[4] Cfr. GarassiniGaspariniop. cit., p. 108. Il parere di Ph. Queau è contenuto nel suo Noeuds virtuels, intervento al convegno tenutosi presso il Politecnico di Milano, sui «Labirinti virtuali», nel 1992.
[5] George BatailleMetodo di meditazione, trad. it., Milano 1994, p. 68 e s.
[6] Cfr. Archita, ne I presocratici, cit., p. 505 nt.
[7] René DescartesL’homme, trad. it. in Opere filosofiche, trad. it., Bari 1986, I, pp. 205-206. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[8]Ivi, p. 213.
[9] DescartesDiscours sur la methode, trad. it. in Opere, I, Bari 1967, p. 168. 
[10] DescartesLe monde, trad. it., in Opere filosofiche, cit., p. 153.
[11] Alexandre KoyrèLezioni su Cartesio, trad. it., Milano 1990, p. 69.
[12] Da una lettera di Descartes a Picot, riferita all'inizio del Ritorno al fondamento della metafisica, in heideggerChe cos'è la metafisica?, trad. it., Firenze 1984, p. 63.
[13] DescartesRegole per la guida dell’intelligenza, in Opere, I, trad. it., Bari 1967, p. 33 («Regola VI»).
[14] Ernst CassirerStoria della filosofia moderna, I. «Dall’umanesimo alla scuola cartesiana», III, trad. it., Torino 1978, p. 535.
[15] Gennar Luigi Linguiti,  Macchine e pensiero, Milano 1980, p. 97.
[16] Con parole agostiniane: «Deum et animam scire cupio». Cfr. KoyrèLezioni su Cartesio, cit., p. 76.
[17] Koyrè, op. cit., rispettivamente alle pp. 69 e 86.
[18] Vernon PrattMacchine pensantiL'evoluzione dell'intelligenza artificiale, trad. it., Bologna 1990, p. 91.
[19] Gottfried Wilhelm LeibnizNuovi saggi sull’intelletto umano, trad. it., Bari 1988, pp. 103 e ss., 128 e ss.
[20] Leibniz, Nuovi saggi, cit., pp.  128 e s. (lb. II, cap. XVI).
[21] Dal cap. V del Leviatano; cit. in PrattMacchine pensanti, cit., p. 92.
Un riscontro, puntuale, di tale asserto, lo si può avere nel libro di Francisco J. varela, Evan thompson, Eleanor Rosch, La via di mezzo della conoscenza (trad. it., Milano 1992). Si veda ad esempio nel primo capitolo.
[22] DescartesDiscorso sul metodo, in Opere filosofiche, cit., p. 169.
[23]Ivi.
[24] LinguitiMacchine e pensiero, cit., p. 84; ma si vedano più in generale le pp. 83 e ss.
[25] VattimoAl di là del soggetto, cit., p. 106.
[26] Cfr. DescartesDiscorso sul metodo, cit., pp. 168 s.
[27] Si veda a questo proposito la «panoramica» sull’argomento offerta nella voce Rorario da Pierre Bayle, nel suo Dictionnaire.
[28] BayleDictionnaire, nella trad. it. barese del 1976, vol. II: nota «C», p. 151.
[29] LamettrieL’uomo-macchina, cit., p. 226 e s.
[30] M. HeideggerLettera sull’umanismo, in relazione ad un episodio della vita di Eraclito, tramandato da Aristotele; traduzione di un frammento eracliteo: «l’uomo abita in prossimità del dio». Cfr.: Pier Aldo Rovatti  Alessandro Dal LagoElogio del pudore, Milano 1989, p. 39.
[31] Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Milano 1983, II, p. 1096
[32] Norbert WienerIntroduzione alla cibernetica, trad. it di The Human Use of Human Beengs, Torino 1982, p. 24.
[33] Si veda un po’ tutto lo scritto di I. Bernard CohenLe origini settecentesche del concetto di rivoluzione scientifica, in aa.vv., Interpretazioni dell’Illuminismo, Bologna 1979.
[34] È probabile che le rappresentazioni della nostra mente siano comunque fondate su operazioni di quantificazione. E’ quanto meno probabile che nel settecento la scienza umanistica della rivoluzione fosse più volutamente o decisamente dipendente dal calcolo, più di quanto non possa far ritenere la romantica psicologia del «genio», che non tardò a prendere piede. Una rivoluzione dunque cambia in una maniera quantitativamente notevole il nostro apparato rappresentativo delle cose, del tempo, dell’oggetto. E nel giudizio è come se si saltasse dalla quantità nella qualità.
Darei risalto, personalmente, al rapporto stretto  che vi è fra la parola «rivoluzione» ed il nostro modo di rappresentare cose e fatti. È il mondo delle rappresentazioni infatti a essere la sede del mondo degli oggetti, del nostro rapporto con l’oggetto.
[35] Marco SusaniDialoghi con gli oggetti, in aa.vv., Il progetto delle interfacce, Milano 1993, pp. 212.
[36] Susaniop. cit., pp. 213 e s.
[37] Ivi, p. 196.
[38] Paul Watzlawick, Janet h. Beavin, Don d. JacksonPragmatica della comunicazione umana, trad. it., Roma 1971, p. 26 e s. (1.4).
[39] Immagine che traggo dal saggio di Werner SombartTecnica e cultura, in aa.vv., Tecnica e cultura, trad. it., Milano 1987, p. 152. 

1 commento:

  1. più che da Dio, la macchina proviene per diventare protagonista dall'allontanamento da Dio come fonte

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