sabato 13 luglio 2013

MEZZI E FINI (La tecnica e il denaro) (Primo abbozzo)




Il sentimento, la tecnica e la storia.

In G. Simmel, il discorso sulla tecnica è il discorso del senti­mento, umanistico, o della paura, che si contrappone alla storia. 
L’essenza, cioè, per ciò che quel sentimento è, non s’identifica con la storia e la tecnica.
L’essenza è come qualcosa di pesante e «morale», resistente, che si oppone a qualcosa di leggero e immorale; essa è essenza propria, minacciata e da custodire: così è fatto il sentimento.
Esso, ciò che si trova davanti e che lo nutre, è qualcosa come una rivoluzione tecnica, progressi sensibili, che investono la società e la sensi­bilità dell’io sociale.
Rivoluzione, dal canto suo, è qualcosa di fronte a cui il sentimento, come sentimento dell’uomo, non si riconosce. 

Georg Simmel
Che cos’è, per questo sentimento umano, che si presenta, l’epoca nella quale si scrive? L’epoca nella quale si scrive, meglio: che si ha davanti agli occhi e si vuole descrivere, dato questo sentimento, non è l’epoca che segna un balzo in avanti nella potenzialità tecnica dell’uomo (quella stessa che dà la possibilità all’uomo di farsi forte del lusso di sentimenti di ritrosia), laddove l’una e l’altro appaiono vicini; ma l’epoca del «dominio della tecnica» sull’uomo.
Detto in altri termini, l’affermazione: nell’epoca del dominio della tecnica «... l’uomo è allontanato, per così dire, da sé stesso», che si legge in Simmel, non è tale, ma è altra, ed assume cioè il carattere della definizione, e quindi: per «epoca del dominio della tecnica» s’intende quella nella quale l’uomo è allontanato, per così dire, da sé stesso. L’una e l’altro appaiono quasi inconciliabili. I fini vengono contrapposti ai mezzi come l’interiorità si contrappone alla esteri­o­rità.



Esteriorità e interiorità

Che cosa è la storia, e che cosa la tecnica, meglio ancor prima: che cosa è il progresso o l’evoluzione della tecnica, che sono accaduti, che accadono, se un sentimento, umanistico, vi si contrappone? Sono qualcosa di «esteriore», rispetto ad una «interiorità».
La tecnica, assunta quale oggetto del pensiero, è valsa, ha ot­te­nuto quale risultato, in certo pensiero che sotto l’agire del senti­mento ha voluto ricondursi ad una essenza umana non tecnica, l'esteriorizzarsi della storia. Non deve sorprendere pertanto se in un’epoca caratterizzata dalla tecnica la storia sia ritenuta esteriore.
Questo vale ad accostare, in generale, tecnica e storia.
Le quali sono questo corrispondere alla esteriorità.
Essendo, ciò che è esteriore, come qualcosa che segue, rispetto ad un sentimento, un che di aggiunto rispetto ad una essenza umana, che lo precede.
Ma esteriorità è necessariamente questo?
Che cosa è, anche, esteriorità? Scrivere sull’altro, ad esempio, è scrivere sulla esteriorità, se si può ammettere che l’alterità non la si trova perfettamente in noi; scrivere sulla relatività come su ciò che accade, è scrivere sulla esteriorità. Scrivere una formula con espres­sione matematica è scrivere sulla esteriorità. Scrivere è scrivere sulla esteriorità, scrivere esteriorità, ecc.
Senza l’esteriorità non vi saranno mai né approcci, né cono­scenza, né vita. La storia nei suoi presupposti, il «fatto» nel suo ri­f­erirsi all’umano dell’uomo, non può pensarsi senza una esteriorità.
L’esteriorità della tecnica in fondo però non si può negare sia di­venuta tale; si può supporre in altre parole che caratteristica della tecnica possa essere la seguente: che qualcosa si è essersi, col pas­sare del tempo storico e con il suo perfezionarsi, con il suo calarsi vieppiù in epoche caratterizzandole, esteriorizzata.
Questa considerazione viene suffragata dal fatto che necessaria­mente la filosofia, per giungere alla essenza della tecnica, debba an­dare a cercare in un che di umano. Come se si trattasse di cercare un’origine unitaria e che ha una corrispondenza in virtù che hanno ri­scontro nella interiorità. Ma: esteriorizzazione non significa neces­sa­riamente provenire, derivare, da un di dentro, da una interiorità. Si­gnifica piuttosto esser divenuto, di una esteriorità, nella esteriorità.
L'importante, nel trovarsi di fronte ad un modo di pensare come quello di Simmel, è che tecnica e storia, di fronte al sentimento, si trovano ad avere, in generale, una qualche corrispondenza. Da una parte questo corrispondere in qualche modo nel profondo, dell’una e dell’altra, dal punto di vista del progresso del pensiero, viene prima del giudizio sulla esteriorità; dall’altra il giudizio sulla esteri­o­rità è importante perché rimanda a quella corrispondenza.


L’umano e lo strumentale

L'esteriorità della storia è tale per cui nella evoluzione della tecnica, secondo quel sentimento, l'importante è in ciò che noi potevamo fare, umanamente, prima, e che possiamo fare, egualmente (prima ancora che meglio, oppure essendo indotti a pensare altro), dopo, ogni fase dell'evoluzione della tecnica. Ovvero: «[...] al posto delle lampade a olio abbiamo ora l’acetilene e la luce elettrica; ma l’euforia per i progressi dell’illuminazione dimentica, a volte, che ciò che veramente importa non è l’illuminazione, ma ciò che essa ci permette di vedere meglio», e ancora: «nell'autentica ebbrezza suscitata dai trionfi delle tecniche telegrafiche e  telefoniche, si trascura spesso il fatto che ciò che importa è il valore di ciò che si comunica, e che rispetto a questo la velocità o la lentezza del mezzo di trasmissione è un problema se­c­ondario [...]»[1].
L'invito a riflettere, di fronte a quel «ciò che importa è il valore di ciò che si comunica» è generale, ma esso in Simmel sarà tale in fun­zione della possibilità per l'uomo che stia come un uomo interi­ore, rispetto al mondo della tecnica, sui cui rapporti con l’uomo si tratta invece d’indagare.
Quell’affermazione si può leggere in almeno due modi ben diversi l’uno dall’altro: il primo (Simmel) per cui il valore appartiene all’uomo rappresentato come colui che per definitionem è di altra natura, rispetto alla tecnica; il secondo per cui il valore appartiene al senso profondamente umano, e trasformativo-migliorativo, di una scoperta e di una realizzazione dell’uomo.
Laddove, a ben considerare la cosa, l’invito a riflettere nel primo senso si risolve in un mero appello ai sentimenti; nel secondo senso restando invece l’invito a riflettere in piedi, e la curiositas non ossi­data, per così dire, rispetto ad una verità, che si raggiunge cammin facendo, e che costituisce una tappa indispensabile per poter ap­prodare ad altre successive verità.
Il dire «il valore di ciò che si comunica[...]» è come dire: lo spi­rito è tale in quanto si scinda dagli strumenti. Resta comunque quell’invito a riflettere; ma in quali termini si pone tale invito? Esso ha per oggetto obiettivamente il «valore umano» rispetto alla tecnica.

Il modo come si pone in Simmel questo «invito a riflettere» in al­tre parole fa sì che la possibilità, come categoria, sia la semplice nuda interorità, che si lega istintivamente ad un suo modello, e si ri­trae di fronte a ciò che si possa dire il progresso, oppure la storia.
L'umanità dell’uomo è in questo modo e in questi termini che ap­pare solitamente, anche nel nostro tempo, discosta dalla tecnica.
Ma una qualsiasi impostazione del discorso, posta sul terreno del valore umano, può essere condotta alle sue conseguenze estreme, e si può essere costretti ad esempio a rendere conto di alcune do­mande filosofiche del tipo: l'essere, può essere pensato senza alcuna tecnica; ovvero: l'uomo, anche il più libero, può essere pensato senza un qualche senso storico?

Negazione del profilo formativo della comunicazione e del senso comune di due secoli di evoluzione della tecnica (riduzione dello spazio ad un che di manipolabile).- «La velocità o la lentezza del mezzo di trasmissione è un problema secondario». Analogo, ri­s­petto a questa affermazione, può essere questo ragionamento: debbo recarmi da Roma a Parigi per poter ritirare entro cinque ore un premio. Mi servo, per raggiungere il mio scopo, di una potente autovettura, mi servo di una potente autovettura oggi che si produ­cono potenti autovetture. Per mezzo di tale autovettura conseguirò il mio scopo, ma quando avrò raggiunto il mio obiettivo avrò dimenti­cato il valore di quell'autovettura, e del fatto che oggi si producano potenti autovetture.
Ma, se questi questi strumenti sono dimenticati è come essi fos­sero lì, sempre, già dimenticati.

Cosa significa sentimento, umanistico... Ovvero: perché, ci si po­trà chiedere, ciò accade? Il sentimento umanistico consiste in questo essere usi a dimenticare i mezzi, che è come un ritenere di poterne fare a meno. Questo è umano, si può dire; ma parimenti umano ad esempio è l'inveire, l'accusare le persone più familiari... Questo, nel rapporto con la tecnica, è il sentimento, e cioè non ritenere che nei mezzi vi sia la ragione, ovvero ritenere che nella presenza vi sia solo l'immediata presenza, di per sé stessa evidente.

Il mezzo, nel nostro esempio la potente autovettura, viene dimen­ticato una volta raggiunto lo scopo; eppure il mezzo esiste, ed esiste nella sua prossimità. Il valore umano, in Simmel, consiste in un ri­s­catto dei fini rispetto ai mezzi: I fini sono ritenuti essenziali e più nobili.

Ma, a voler osservare più attentamente la cosa, perché «strumento», strumentale, è ciò che è destinato ad essere dimenti­cato? Perché, in altre parole, si privilegia il fine umano? Intendendo tacitamente per fine umano quello che è estraneo agli strumenti? Per­ché questo egoismo umano? per il quale ad esempio i tecnici come categoria sociale, sono dimenticati, non valorizzati intellettivamente? Perché non s’insiste ad esempio sul fatto: che possano darsi fini umani nella progettazione di uno strumento? Domanda che poi è l’altra faccia della medaglia, rispetto all’affermazione secondo la quale I mezzi prendono il posto dei fini? Forse a causa della praticità di questi fini? Dunque bisognerebbe ammettere che in relazione agli strumenti esistono almeno due tipi di fini...
La risposta potrebbe essere forse la seguente: che l’uomo è ego­i­sta, nel suo spiritualismo. Egoista nel suo spiritualismo signi­fiche­rebbe che egli pensa a salvarsi, mira essenzialmente alla salvazi­one.
Nel senso in cui la tecnica ha ottenuto quale risultato, nel pen­siero, l'esteriorizzarsi della storia, si può asserire che il sentimento umanistico si pone di fronte alla tecnica come pensiero della salvazi­one: cos'è infatti il sentimento umanistico, che si contrapponga alla tecnica, per l'incidenza che essa ha nella storia, se non il pensiero della salvazione?
La salvazione è un modo di sentire le cose, i fatti, ecc., che al­berga in modi del pensiero che siano anche distanti fra loro. Bisogn­erebbe chiedersi quali possano esserne le ragioni, dentro la spiegazi­one che tutto ciò è profondamente umano. Si potrebbe rispondere che ciò dipende dal fatto che l’uomo è mortale.

Questo pensiero della salvazione, ad esempio, lo si ha in Heideg­ger, per quella che si può definire come la sua ambivalenza nei con­fronti del mondo della tecnica. Così come lo si ha altrove, in gene­r­ale nel sociologico. Ed esso così dimostra di essere prossimo all'es­senza dell'uomo, ecc. Esso lo è, però, bisogna subito aggiungere, in quanto con esso si contrapponga il sentimento alla tecnica.
La salvazione inoltre così è la prossimità all'essenza umana, all'u­manità dell'uomo, che però si pone di fronte alla verità, storica, del­l'uomo che cambia, per cui ad esempio l'uomo dell'antichità era di­verso dall'uomo medievale, e l'uomo medievale diverso dall'uomo moderno, ecc.
La fragilità, dal punto di vista filosofico, del pensiero della salva­zione, è nel fatto, stesso, che essa punti tutto sull'essenza dell'uomo.

Fragilità, del pensiero della salvazione, ed umanità dell’uomo, le si hanno, condensate nelle seguenti situazioni: io, che credo nella no­biltà dei fini, è come se invece di star seduto su di una sedia stessi seduto nell'aria. Io sto bene seduto, perché posso fantasticare, e ho dimenticato la sedia. Il soggetto si ricostituisce; una donna ogniqual­volta s'innamora, ricostituisce sul volto e nella sua condotta, nel suo vestire, la verginità. Il riscontro, nella corporeità, esiste; ci si do­manda però dove sia l'essenza.

Detta la stessa cosa con altre parole: si ha di più, in questo modo, condotti così dal sentimento: che i fini sembrano voler poter essere ripristinati secondo un principio di autonomia, o nobiltà umana, ri­spetto ai mezzi; riproponendosi su questo terreno il problema delle causae secundae.
I fini, e cioè i veri fini che sono l’uomo, pensati separatamente ri­spetto ai mezzi, si addicono allo spiritualismo e all’egoismo umani; essi in ciò è come fossero causae primae.
Ma la storia dimostra che il progresso, per il pensiero, consiste nel passare dalla causae primae alle secundae.

L'esteriorità della storia è tale per cui nella evoluzione della tecnica, secondo quel sentimento, l'importante è in ciò che noi potevamo fare, umana­mente, prima, e che possiamo fare, egualmente (prima ancora che meglio, oppure essendo indotti a pensare altro), dopo, ogni fase dell'evoluzione della tecnica. Ovvero: «nell'autentica ebbrezza susci­tata dai trionfi delle tecniche telegrafiche e  telefoniche, si trascura spesso il fatto che ciò che importa è il valore di ciò che si comunica, e che rispetto a questo la velocità o la lentezza del mezzo di tra­smissione è un problema secondario [...]»([2]).
Il dire: «ciò che importa è il valore di ciò che si comunica», è un invito a riflettere. E’ un’affermazione, questa, la quale si può leggere in almeno due modi ben diversi l’uno dall’altro: il primo per cui il valore appartiene all’uomo rappresentato come colui che per defini­tionem è di altra natura, rispetto alla tecnica; il secondo per cui il valore appartiene al senso profondamente umano, e trasformativo-migliorativo, di una scoperta e di una realizzazione dell’uomo.
Laddove, a ben considerare la cosa, l’invito a riflettere nel primo senso si risolve in un mero appello ai sentimenti; nel secondo senso restando invece l’invito a riflettere in piedi, e la curiositas non ossi­data, per così dire, rispetto ad una verità, che si raggiunge cammin facendo, e che costituisce una tappa indispensabile per poter ap­prodare ad altre successive verità.

Si può notare, nel rapporto fra le due proposizioni: che «[...] si trascura spesso il fatto che ciò che importa è il valore di ciò che si comunica», e che «rispetto a questo la velocità o la lentezza del mezzo di trasmissione è un problema secondario [...]», come al­l'invito a riflettere ed approfondire insito nella prima si contrapponga in modo decisivo il senso di chiusura della seconda. Meglio: si può sottolineare come l'invito a riflettere sia generale, ma esso in Simmel sarà tale in funzione della possibilità per l'uomo che stia come un uomo interiore ed astratto, rispetto al mondo della tecnica, sui cui rapporti con l’uomo si tratta d’indagare.
Il dire «il valore di ciò che si comunica [...]» è come dire: lo spi­rito è tale in quanto si scinda dagli strumenti. Resta comunque quell’invito a riflettere; ma in quali termini si pone tale invito? Esso ha per oggetto obiettivamente il «valore umano» rispetto alla tecnica.

Il modo come si pone in Simmel questo «invito a riflettere» in al­tre parole fa sì che la possibilità, come categoria, sia la semplice nuda interorità, che si lega istintivamente ad un suo modello, e si ri­trae di fronte a ciò che si possa dire il progresso, oppure la storia.
L'umanità dell’uomo è in questo modo e in questi termini che ap­pare solitamente, anche nel nostro tempo, discosta dalla tecnica.
Ma una qualsiasi impostazione del discorso, posta sul terreno del valore umano, può essere condotta alle sue conseguenze estreme, e si può essere costretti ad esempio a rendere conto di alcune do­mande filosofiche del tipo: l'essere, può essere pensato senza alcuna tecnica; ovvero: l'uomo, anche il più libero, può essere pensato senza un qualche senso storico?

«La velocità o la lentezza del mezzo di trasmissione è un pro­blema secondario». Analogo, rispetto a questa affermazione, può essere questo ragionamento: debbo recarmi da Roma a Parigi per poter ritirare entro cinque ore un premio. Mi servo, per raggiungere il mio scopo, di una potente autovettura, mi servo di una potente au­tovettura oggi che si producono potenti autovetture. Per mezzo di tale autovettura conseguirò il mio scopo, ma quando avrò raggiunto il mio obiettivo avrò dimenticato il valore di quell'autovettura, e del fatto che oggi si producano potenti autovetture.
Ma, se questi questi strumenti sono dimenticati è come essi fos­sero lì, sempre, già dimenticati.

Che cosa significa sentimento, umanistico... Ovvero: perché, ci si po­trà chiedere, ciò accade? Il sentimento umanistico consiste in questo essere usi a dimenticare i mezzi, che è come un ritenere di poterne fare a meno. Questo è umano, si può dire; ma parimenti umano ad esempio è l'inveire, l'accusare le persone più familiari... Questo, nel rapporto con la tecnica, è il sentimento, e cioè non ritenere che nei mezzi vi sia la ragione, ovvero ritenere che nella presenza vi sia solo l'immediata presenza, di per sé stessa evidente.

Il mezzo, nel nostro esempio la potente autovettura, viene dimen­ticato una volta raggiunto lo scopo; eppure il mezzo esiste, ed esiste nella sua prossimità. Il valore umano, in Simmel, consiste in un ri­scatto dei fini rispetto ai mezzi: I fini sono ritenuti essenziali e più nobili.

Ma, a voler osservare più attentamente la cosa, perché «strumento», strumentale, è ciò che è destinato ad essere dimenti­cato? Perché, in altre parole, si privilegia il fine umano? Intendendo tacitamente per fine umano quello che è estraneo agli strumenti? Per­ché questo egoismo umano? per il quale ad esempio i tecnici come categoria sociale, sono dimenticati, non valorizzati intellettivamente? Perché non s’insiste ad esempio sul fatto: che possano darsi fini umani nella progettazione di uno strumento? Domanda che poi è l’altra faccia della medaglia, rispetto all’affermazione secondo la quale I mezzi prendono il posto dei fini? Forse a causa della praticità di questi fini? Dunque bisognerebbe ammettere che in relazione agli strumenti esistono almeno due tipi di fini...
La risposta potrebbe essere forse la seguente: che l’uomo è egoi­sta, nel suo spiritualismo. Egoista nel suo spiritualismo significhe­rebbe che egli pensa a salvarsi, mira essenzialmente alla salvazione.
Nel senso in cui la tecnica ha ottenuto quale risultato, nel pen­siero, l'esteriorizzarsi della storia, si può asserire che il sentimento umanistico si pone di fronte alla tecnica come pensiero della salva­zione: cos'è infatti il sentimento umanistico, che si contrapponga alla tecnica, per l'incidenza che essa ha nella storia, se non il pensiero della salvazione?
La salvazione è un modo di sentire le cose, i fatti, ecc., che al­berga in modi del pensiero che siano anche distanti fra loro. Biso­gnerebbe chiedersi quali possano esserne le ragioni, dentro la spie­gazione che tutto ciò è profondamente umano. Si potrebbe rispon­dere che ciò dipende dal fatto che l’uomo è mortale.

Questo pensiero della salvazione, ad esempio, lo si ha in Heideg­ger, per quella che si può definire come la sua ambivalenza nei con­fronti del mondo della tecnica. Così come lo si ha altrove, in gene­rale nel sociologico. Ed esso così dimostra di essere prossimo al­l'es­senza dell'uomo, ecc. Esso lo è, però, bisogna subito aggiungere, in quanto con esso si contrapponga il sentimento alla tecnica.
La salvazione inoltre così è la prossimità all'essenza umana, al­l'umanità dell'uomo, che però si pone di fronte alla verità, storica, dell'uomo che cambia, per cui ad esempio l'uomo dell'antichità era diverso dall'uomo medievale, e l'uomo medievale diverso dall'uomo moderno, ecc.
La fragilità, dal punto di vista filosofico, del pensiero della salva­zione, è nel fatto, stesso, che essa punti tutto sull'essenza dell'uomo.

Fragilità, del pensiero della salvazione, ed umanità dell’uomo, le si hanno, condensate nelle seguenti situazioni: io, che credo nella no­biltà dei fini, è come se invece di star seduto su di una sedia stessi seduto nell'aria. Io sto bene seduto, perché posso fantasticare, e ho dimenticato la sedia. Il soggetto si ricostituisce; una donna ogniqual­volta s'innamora, ricostituisce sul volto e nella sua condotta, nel suo vestire, la verginità. Il riscontro, nella corporeità, esiste; ci si do­manda però dove sia l'essenza.

Detta la stessa cosa con altre parole: si ha di più, in questo modo, condotti così dal sentimento: che i fini sembrano voler poter essere ripristinati secondo un principio di autonomia, o nobiltà umana, ri­spetto ai mezzi; riproponendosi su questo terreno il problema delle causae secundae.
I fini, e cioè i veri fini che sono l’uomo, pensati separatamente ri­spetto ai mezzi, si addicono allo spiritualismo e all’egoismo umani; essi in ciò è come fossero causae primae.
Ma la storia dimostra che il progresso, per il pensiero, consiste nel passare dalla causae primae alle secundae.

; e ancora: «nell'autentica ebbrezza suscitata dai trionfi delle tecni­che telegrafiche e  telefoniche, si trascura spesso il fatto che ciò che importa è il valore di ciò che si comunica, e che rispetto a questo la velocità o la lentezza del mezzo di trasmissione è un problema se­condario [...]»([3]).

I fini umani, in ciò che scriveva Simmel come in altri, dipendono dal postulato secondo cui l’uomo è il fine, e dunque il parlare di fini umani significa che l’uomo, nella sua immediatezza, deve essere il fine; che l’uomo in una certa epoca deve essere rupristinato come fine.

Questo approccio in fondo lo si può ritenere in qualche modo come legato ad una sensibilità cristiana, oppure kantiana, ecc.; esso, infatti, nel suo esprimere un dover essere, sembra essere contenuto in tavole di ordine morale e giuridico. Ricorda, ad esempio, il tenore del celebre scrittarello di Kant sulla «pace perpetua fra I  popoli».
Ma in che senso, oltre che in questo, si può dire che un tale ap­proccio lo si può ritenere in qualche modo  cristiano, o/e kantiano? In un senso, può essere la risposta, significativo per ciò che la storia è per l’intimità di ogni individuo: per cui formulare in termini cristiani o/e kantiani equivale a nutrire ancora, nei riguardi della tecnica, un sentimento di ritrosia, al non averla ancora accettata.
Non avere ancora accettato, dal punto di vista del sentimento, ciò che la tecnica è non, sic et simpliciter, per ciò che essa è oggi. Non accettare l’idea: di una tecnica vicina all’umanità dell’uomo. Ma allo stesso tempo, necessariamente, non averla accettata in ciò: che essa si presenta, fortemente, nell’età moderna, come affermativa, ogget­tuale.

Ma questo fatto definitorio, in uno scrittore come Simmel, non consiste in un contrapporre qualcosa di storiograficamente antico ad un che di tipicamente moderno. Quel «sé stesso», nel suo corri­spondere ad un sentire umanistico, non è un io poetico, letterario, piegato sulle sue carte, chiuso nel suo studio, ecc.: non si risolve in un semplice io astratto. E’ un io, invece, socialmente coinvolto: è questo io a dire, ad esempio, che il mondo dei fini è stato catturato dalla cultura dei mezzi, la quale è divenuta fine di per sé stessa.
Non l’immagine letteraria, ma la personalità sociale, è ciò che emerge in Simmel, in relazione al sentimento umanistico.
Ma allo stesso tempo questo io sociale, coinvolto socialmente, è immagine in qualche modo «letteraria», se io posso sempre chie­dermi: ma esso sino a che punto è vero?

L’io sociale è tale, in Simmel, per cui il sentimento umanistico, tolti gl’immediati riferimenti storiografici o letterari, corrisponde alla vita, vuole guardare in faccia la vita, parla della «tensione della no­stra interiorità», la quale è insofferente nei confronti di macchine e merci, che si mostrano invadenti e come freni. A sua volta però il senso della vita, rispetto a una generica definizione del sentimento umanistico, è pur sempre sentimento umanistico, del quale si può asserire che abbia molte sfaccettature. Il sentimento umanistico, se contiene il senso della vita, è pur sempre l’invocazione dello spirito contro la materia, e cioè dell’interiorità contro l’esteriorità; esso dirà «esteriore», cioè, quanto ritiene, o sente, come sfavorevole.
Ma il sentimento della vita, nel suo umanismo, ha per caratteri­stica di giudicare sé stesso, per potersi spiegare; l’umanismo consi­ste nel giudicare l’uomo per poter ricondurre tutto all’uomo. La «tensione della nostra interiorità» lo è, insofferente, come, dopo che lo è stata nei confronti di sé stessa.
Così il sentimento della vita, nella sua insofferenza, spiega l’avvento del dominio della tecnica come questo fosse l’avvento dei frutti della colpa. In Simmel è il sentimento della vita a criticare, in nome dei veri fini umani, non il sentimento della vita, ma i suoi (cattivi, fuorvianti) frutti.
Tutto il discorso sulla tecnica, quindi, si mostra comunque riconducibile all’uomo. Il dominio della tecnica, secondo codesto modo di sentire, è frutto di quel sentimento, e non di una certa quale (necessaria, storica, insita per così dire nel Con­cetto) evoluzione della tecnica, parimenti l’imporsi della vita intellet­tiva quale si ha secondo Simmel nel dominio dell’economia moneta­ria e del denaro, se non potrà sostenersi dipendere dalle proprietà della ragione umana, dipenderà dal bisogno, che, deve supporsi, al­lontana dallo spirito umano.

Il sentimento umanistico quale sentimento della vita è proprio dell’io moderno e socialmente coinvolto, il quale, per attribuire ogni cosa all’uomo, esprime quell’io ed ammette la sua oscurità. E’ a causa del fatto: che il sentimento della vita sia sfociato nel dominio della tecnica, che quel sentimento è divenuto un «impulso irresoluto sotto la soglia della coscienza». Non è il dominio della tecnica la causa di tale «offuscamento e collocazione del sentimento della vita sotto la soglia della coscienza», cupo senso di tensione e di nostal­gia senza meta; per cui il senso della nostra esistenza è così lontano e remoto che non lo possiamo neanche localizzare esattamente[4].
Dunque il sentimento della vita, secondo questo modo di pensare, è impulso di tutto, è tutto. E’ ciò con cui tutto diventa spiegabile. Ad un patto: cioè che si parli dell’uomo come causa e come effetto.
Ma le proposizioni e il modo di argomentare che ne discendono andranno sempre valutate alla luce del progresso della conoscenza.
Bisognerebbe sempre domandarsi, di fronte al pensiero che è in­formato al sentimento umanistico, in questa o quella forma, quale sia l’utile, dal punto di vista del progresso nella conoscenza filosofica, offerto da simile ricondurre sempre tutto all’uomo.

La prima conclusione che si può trarre, di fronte a codesto modo di argomentare, che parla di veri fini e di cause riponendole nell’uomo, è che l’oggetto, dal punto di vista della conoscenza, non è, come si potrebbe essere indotti a credere in un primo tempo, la tecnica, ma il sentimento della vita. Il vero oggetto è l’interiorità di­venuta oscura, indecifrabile, è, più generalmente come modello, l’io in quanto socialmente coinvolto. Non la tecnica.
Resta infatti, forse non nonostante, ma proprio in una stretta ne­cessaria relazione con l’interesse e le spiegazioni fornite a proposito dell’interiorità, il senso d’insofferenza nei confronti di macchine e merci. Anzi: di fronte alla questione della tecnica il sentimento della vita che si autoaccusa e fa di sé l’oggetto della riflessione, è re­azione, umanistica, alla tecnica.
In generale il sentimento umanistico, dal punto di vista della cono­scenza, è ciò che nella tecnica non si riconosce, e che si nutre di una scelta. Esso è in ciò il punto di vista dell’immediatezza.


Il dominio dei mezzi sui fini

Per Simmel il dominio della tecnica è il dominio dei mezzi sui fini. Ma questa semplicità, nel giudizio, fa riflettere. Tale semplicità significa, in primo luogo, ciò che essa afferma, e dunque che nella tecnica non si riconosce sostanza, che si confida nella superiorità dell’umano, che si vedono nella tecnica meri stru­menti, mezzi volti a un fine. Laddove in ciò che è «fine» viene ri­posta l’umanità dell’uomo, in ciò che è «mezzo», invece, il senso della tecnica, potendosi esprimere in questi termini e strumenti del senso comune il discorso sulla tecnica.
In Simmel il principio secondo il quale tutto è riconducibile al sentimento della vita e all’uomo nella sua interiorità, fa il paio con una concezione strumentale della tecnica, la quale in quanto tale, non si ha solamente in Simmel. Al cui modo di scrivere si può ricono­scere comunque la caratteristica di mostrare i possibili legami fra concezione strumentale della tecnica e umanismo moderno reattivo, quel sentimento che si contiene in un io socialmente coinvolto, ver­sante nella oscurità, ed in una personalità umana moderna insoffe­rente.
E’ vero, e questo può ritenersi un contributo offerto da Simmel, che l’umanismo non è quello del buon vecchio (ritenuto intramon­tabile) umanismo, modello filologico di esso, umanismo del recu­pero in ogni momento della essenza umana, alienata nella storia, contrastata dalla storia, ecc.
La questione della tecnica, in questo modo dunque, verte sul rap­porto mezzi-fini. Nel senso che la cosiddetta «umanità dell’uomo» si sostiene solo grazie al rapporto mezzo-fine, nel quale la questione del rapporto fra l’uomo e la tecnica può dirsi apparentemente risol­vibile, risolta.

Nello stesso tempo bisogna ammettere che non necessariamente chi nella tecnica non veda un che di strumentale sarà immune, forse, dal punto di vista del sentimento. E parimenti: anche chi abbia con la tecnica un rapporto positivo di pensiero, potrà cogliere l’essenza di essa in un che d’interiore. Il filosofo Zschimmer, in un suo pensiero, prendendo posizione rispetto a coloro che accostino tecnica ed umanità dell’uomo, afferma: «E perciò dobbiamo rettificare la con­cezione profondamente radicata di quegli storici della civiltà che pensano che sia stato solo lo strumento a determinare la trasforma­zione dell’animale in uomo. No,  non è stato lo strumento, è stata la volontà spirituale, l’intento dell’invenzione.
Questo intento ha la sua ultima mèta non nella creazione degli strumenti, ma in qualcosa di completamente diverso, per cui gli strumenti e le macchine sono solo I mezzi ausiliari perfezionati, ma a cui essi non hanno fornito, in linea di principio, alcun contributo nuovo», ecc.) [5].

Il sentimento umanistico come sentimento della vita, più di quanto non sarebbe se fosse mero ripiegare e nostalgia per la grandezza dello spirito dei classici, bisogna ammettere che trova assai conge­niale quel rapporto mezzo-fine. Di fronte al peso della vita, infatti, il fine assume un tono forte e deciso. Il fine è forte, si potrebbe dire, il mezzo debole. Il fine centrale, il mezzo periferico, ecc.

Per Simmel il dominio della tecnica è il dominio dei mezzi sui fini. Anche questo significa essenzialmente appellarsi ai sentimenti. Infatti ci si potrebbe domandare se ciò è vero. Se ciò fosse vero, e il di­scorso fosse condotto alla sua conseguenza estrema, infatti, noi avremmo che i mezzi non sarebbero mezzi, secondo la definizione.
Dire mezzo, inoltre, significa dire fine, ecc.
Che esistano quelli che noi diciamo mezzi e fini, questo è indubi­tabile, è certo di per sé stesso, è evidente, ma ci è evidente dal mo­mento stesso che noi lo diciamo... Ma sino a qual punto ciò spiega, oppure avvicina all'essenza? E quanto, invece, ciò accosta al senti­mento e basta?
Lo strumento che sono certe categorie insomma è denotativo a causa del contesto. Affermare: il fine, la qualità, è umana, non giova molto ai fini del progresso della conoscenza.
Ma tale affermazione vale a segnalare l’oggetto: l’oggetto qui non è la tecnica, ma il sentimento umanistico.
In tutto questo contrapporre fini superiori a mezzi inferiori è evi­dente come ciò che è tirato in ballo sia il sentimento umanistico della vita, stessa, non di una domestica e quieta interiorità, dell’uomo.

La questione tocca ed incide su aspetti vitali dell’uomo, dell’esser uomo sulla terra, dell’essere, ecc.
Ciò che è in ballo è in certo modo la nostra coscienza di sem­pre[6].


La tecnica e il denaro.- Con la medesima sensibilità con cui egli giudica della tecnica, Simmel conduce il discorso sul denaro. Al denaro il sentimento contrappone, semplificando, una moralità la quale si regge sulla presunzione di libertà dal denaro[PP1] .
E il denaro è preso così in una maniera non storica, nella quale viene ad essere colto solamente un aspetto umano della cosa.
Il possibile accostamento, fra la concezione della tecnica e quella del denaro, emerge nella seguente affermazione: il denaro «è la tec­nica più generale della vita esterna»([7]). Laddove ciò che incuriosice e fa riflettere è l'accostamento possibile e l'uso della parola «tecnica». Essa da una parte è usata, dall'altra è usata in un modo più astratto. Tecnica così si avvicina al pensiero dell'essenza, ad un pensiero più astratto. E cioè: tecnica più generale, tecnica in generale come medialità, mezzi cui si fa ricorso per i fini, costituisce allonta­namento da un concetto applicato o settoriale di tecnica come ad esempio «tecnica materiale», tecnica obiettiva, ecc., e dunque qual­cosa di più vicino alla essenza della tecnica. A questa essenza, per quanto è desumibile da tale asserto, appartiene non solo l'idea di un ricorso ai mezzi, ma anche l'esteriorità (della vita). L'«esteriorità», ancora l'esteriorità kantiana (ciò che non è che l'ulteriormente inte­riore rispetto alla realtà), è infatti qualcosa che si confà ai mezzi; l'interiorità ai fini.

Tecnica e denaro sono accostati, uniti, dal fatto: che la morale della vita, la sua spiritualità, si contrappone alla tecnica e al denaro, secondo l'istinto.
Il discorso inoltre, per essere condotto come una reazione del sentimento, si svolge in un modo sociologico. (Sembra quasi, al di là di Simmel, che il sociologico sia fatto apposta, e sia terreno con­geniale, per la reazione sentimentale, umanitaria, alla tecnica e al de­naro; che nel sociale come categoria del pensiero confluiscano, spontaneamente, il sentimento e la morale del dover essere rispetto al progresso, alla tecnica e al denaro.)
Ma, questo particolare, del denaro, al di là dello sfogo sociolo­gico, che il sentimento inguaribile di una purezza dell'umanità del­l'uomo può condividere, è interessante. Bisogna saper, poter scru­tare nello sfogo e nel sentimento, guardando a quella direzione per la quale il discorso può essere ricondotto ad una sua unità; in un modo tale che il discorso sulla tecnica sia ricondotto ad una unità che i termini stessi della questione possono sottrarle.

Perché il denaro? E perché il profondo legame filosofico, che si può cogliere, tra il denaro e la tecnica? Perché il «dominio della tec­nica», in Simmel, è il predominio dei mezzi sui fini. Giudizio condi­visibile: la medialità, infatti, caratterizza ogni epoca con forte accen­tuazione del predominio tecnico anche in altri pensatori, e di essa si parla molto oggi, in cui gli strumenti per la comunicazione a distanza stanno avendo un altro loro exploit.
Da una parte si ha dunque che la tecnica sono i mezzi; dall'altra, contemporaneamente, che il denaro è il «mezzo dei mezzi». Come giudica Simmel il fatto della importanza della medialità? Se egli dice: «La periferia della vita si è impadronita del suo centro»; e cioè: nell'­èra della tecnica i mezzi prendono il posto dei fini nell'interiorità, cosa coglie, egli, della medialità, se non l'aspetto che nell'animo istintivo è più prossimo alla semplice parola? Medialità viene da mezzo, ecc.; mezzo è ciò che è meno nobile del fine, ecc.
Di fatto, ciò che è mediale sembra poterlo essere per costituzione, per istituzione, più di quanto non si creda, se esso riguarda ciò che è commercio, dal punto di vista umano sociale.




[1] SIMMEL, Il dominio della tecnica, trad. it. in AA.VV., Tecnica e cultura, cit., p. 38.
[2] SIMMEL, Il dominio della tecnica, trad. it. in AA.VV., Tecnica e cultura, cit., p. 38.
[3] SIMMEL, Il dominio della tecnica, trad. it. in AA.VV., Tecnica e cultura (a cura di T. Maldonado), Milano 1987, p. 38.
[4] Ivi, p. 41.
[5] ZSCHIMMER, Filosofia della tecnica, trad. it. in AA.VV., Tecnica e cultura, Milano 1987, p. 218.
[6] Un esempio del raffronto con la nostra coscienza di sempre può essere dato, in un modo generico e storico, se si pensa ciò: che il discorso del sentimento sulla tecnica, posto nei termini nei quali lo pone Simmel, e cioè anche, necessariamente, il discorso sull’alienazione dell’uomo nell’epoca della società di massa (svolto poi dalla Scuola di Francoforte), è una impostazione tale che ha il potere di ricondurre alla questione, ottocentesca, del rapporto fra la sfera della moralità e quella dello Stato, oppure fra la sfera della moralità e quella dello spirito oggettivo, o anche di trasportarci ad una sensibilità cartesiana (le fontane di Cartesio). Simmel afferma: «La periferia della vita si è impadronita del suo centro»; e in ciò si possono notare vari aspetti: quella semplicità, nella impostazione del discorso, consistente nell’appello immediato ad una interiorità osservata come principio tutto d’un pezzo; lo smarrimento, rispetto allo «spirito oggettivo», e lo smarrimento, filosofico, di quel concetto e del significato, metodico, culturale, delle causae secundae.
I discorsi, le affermazioni di Simmel, hanno il potere di riportarci a questioni che sembravano morte e sepolte, forse? Se questo ricondurci alla cultura ottocentesca e a quella cartesiana, prese come questioni della coscienza messe in gergo filosofico, è possibile, allora no. Non vi sono, evidentemente, di fronte agli sviluppi che possono darsi alla questione della tecnica, questioni morte e sepolte, nei termini della coscienza di sempre. Il che conferma quanto detto sopra: tenere la cose come irriducibili l’una all’altra; che le cose stiano effettivamente così, potrà considerarsi una prima verità.
[7]SIMMEL, Il dominio della tecnica, cit., p. 42.



 [PP1]La questione, che accomuna tecnica e denaro, è nei segg. termini: il discorso sul denaro radicalizza quello sulla tecnica, nel senso che il problema è, in realtà: può il basso essere più vicino all’essenza? Causae secundae, sessualità in freud, lo stanno a testimoniare...

Nessun commento:

Posta un commento