Denis Diderot |
Il
"sistema"
Nella Promemade
du sceptique, di Diderot [1], scritto dell’irriverenza reso in forma dialogata e allegorica,
il "saggio" Cleobulo, che vive da tempo nella quiete di una sua
piccola proprietà - "une petit terre qui lui reste des débris d'une
fortune assez considerable", il suo désert; ma egli è il
suo parco, la sua campagna; che è volutamente libera, senza un
"giardiniere" -, narra ad Aristo, suo ospite, di un suo sogno, di una sua
“passeggiata” attraverso tre “viali”: “delle spine”, “dei castagni” e “dei
fiori”.
Se Aristo
è invitato a riconoscersi in uno di essi, se cioè il racconto è presentato in
chiave di enigma, questo ci riconduce al fatto che i simbolici “viali” - primo
generale segno della dialetticità del reale - sono un modo di classificare la
natura umana, in relazione ai fatti della religione e della politica. E sono
ambienti, significativi, che dicono dei diversi modi di vivere e di pensare.
Ma perché
- anche - mi domando, i viali? La narrazione avviene mentre i due camminano nel
parco: alle volte accade che si abbia in noi desiderio di camminare, non
essendo, questo, altro che il bisogno di pensare, di avere, per sé stessi, uno
"schiarimento"; ottenere per la ragione un guadagno; e al di sopra di
tutto un piacere. Camminare, in fondo, fa "bene", se è in noi
stessi che si vuole camminare: camminare è pensare.
Ha inizio così il racconto di Cleobulo: tutti gli uomini nascono sotto
l’impero di un (mitico “principe”; che è Dio, oppure Mosè, o forse ciò che si
cela dietro quel mito; forse proprio il principe, il monarca, francese e non).
Tutti nascono “soldati”, cioè vengono battezzati (mentre dormono) e da quel momento essi
sono fatti-visti camminare lungo il “viale delle spine”, con una benda sugli
occhi - cioè come ciechi - con indosso una tunica bianca (che devono cercare,
essendo ciechi, di non insozzare) e con in mano un bastone (incapaci come sono
di camminare con le proprie gambe).
L’allegoria
delle “spine” è abbastanza scoperta e quella del “cieco” è congeniale a
Diderot: che idea può farsi un cieco del mondo? Ovvero: che
cosa potrebbe pensare egli del mondo se dovesse riacquistare, d’improvviso,
l’uso degli occhi? E anche: i sassi e le spine, la
"benda", rendono poi odiosa, estranea, la natura all'uomo,
falsificando il procedimento della conoscenza.
Ma può
accadere, agli uomini “delle spine”, che la loro benda, con il tempo, si
assottigli, divenendo garza. Dopo avere camminato in quel “viale” gemendo in
continuazione a causa del dolore procurato loro dai rovi - che un cieco,
evidentemente, non può evitare - essi potranno o non potranno uscirvi: potranno
percorrere o non percorrere gli altri due “viali”.
Potranno
essere o non essere filosofi, cioè uomini “dei castagni”; potranno condurre o
non condurre una vita mondana, dedita ai piaceri dei sensi, frivola, galante e
pettegola, divenendo così abitanti del “viale dei fiori”: un “giardino”, più
che un “viale”, laddove " Ad
aiuole smaglianti di fiori succedono grandi
tappeti di muschio, e prati verdi irrigati da cento ruscelli. Ci trovi boschi
oscuri ove si intrecciano mille sentieri, labirinti in cui si gioca a perdersi,
boschetti per fare a nascondersi, pergole lussureggianti per darsi riparo. Salottini
per usi diversi vi sono stati organizzati: negli uni tavole imbandite di
dolci e 'buffets' carichi di vini e liquori squisiti; negli altri tavole da gioco,
'fiches', gettoni, tavoli per un gioco
dell'oca e ogni apparecchiatura necessaria per chi vuol rovinarsi per divertimento".
Nell’allegoria
di Diderot, il bel mondo del “viale dei fiori” è l’altra faccia del “viale
delle spine”: gli uomini “dei fiori” non sono altro che i “devoti”, i quali
contravvengono alle norme morali e religiose su cui si regge la (loro) società (ovvero, aggiungo:
se non vi fosse negazione di tavole, così ritenute, di doveri, non vi sarebbe vero discorso morale).
Ma
anche questa, della contravvenzione, bisogna ritenere che sia una regola: sono
i “bacchettoni”, le gerarchie ecclesiastiche, i giudici, gli accademici, gli
avvocati (che bisogna poter riconoscere nelle nebbie dell’allegoria), che Diderot
colloca - come in un piccolo affresco - nel “viale delle spine”, a cedere al
sensualismo di una vita leggera, superficiale. Ma non per molto, ché prima o
poi essi vengono vinti dalla loro natura di “transfughi” - dal fatto di non
avere “una vista abbastanza buona da sopportare il giorno pieno”[2] - e fanno ritorno nel luogo dal quale provengono.
Non vi è
pregiudizio moralistico, beninteso, nella ideazione del “viale dei fiori”; vi
è, comunque, la satira del philosophe sui costumi dell’epoca;
ma non può dirsi, la Promenade, un trattatello, alla moda, sui
pregiudizi, come se ne leggono al tempo di Diderot. Essa è invece la critica
della società idolatrica - vista come società civile eretta a Stato - espressa
nella forma della critica religiosa; dove il “moralista”, cioè colui che per
attitudine si sofferma a considerare i costumi oppure i meccanismi (solitamente
paradossali) del comportamento, rimane piuttosto sullo sfondo, per lasciare
libero il campo all’occhio del naturalista, che solo sa come assimilare
(scavando, riflettendo, sentendo in profondità) il comportamento umano alla
natura materiale, che, paradossalmente, poco sembra avere a che fare con
l’evidenza.
La
critica dell’idolatria, nella Promenade, non ha per oggetto la
religione (perché) tradita, non contiene alcun idoleggiamento (né
volgarizzazione politica) di un cristianesimo puro ed originario - come invece
avviene in altri filosofi “atei” - né indulge ad alcuna antropologia religiosa
positiva. Diderot si prefigge di andare oltre il deismo ed oltre ogni religione,
senza cedimenti di ordine sentimentale; ed egli può ottenere questo invidiabile
risultato solo osservando i suoi personaggi con l’occhio distaccato, misurato,
dello scettico conseguente.
Scetticismo,
naturalismo, antideismo
Il “viale
dei castagni” è “stretto”, presenta un “fondo sabbioso (impossibile, quindi,
camminarvi con l’ausilio del bastone!)”, è “difficile a seguirsi fino in fondo,
tanto la sabbia diventa mobile sulla fine”, e non è frequentatissimo[3].
Sotto le
"fronde dei castagni", che possono dare refrigerio al viandante, giovani "filosofi" incredibilmente
fraternizzano; "[...] ho visto con i miei occhi [...] tutte le sette dei
filosofi accostate e unite coi lacci dell'amicizia"; più natura, dunque
forse, che non società: ("Agrigentinum quidem doctum quendam virum
carminibus graecis vaticinatum ferunt, quae in rerum natura totoque mundo
constarent quaeque moverentur, ea contrahere amicitiam, dissipare
discordiam" (Cicerone, de
amicitia, VII. 23).
Eppoi gli oggetti, l'ambiente, anche qui sono significativi: "ecco [...] sfere, globi, telescopi, libri, ombra e silenzio"; eccovi philosophia naturalis, o anche sperimentale, e cioè: imprigionata, solo, nella natura.
È dunque il luogo, naturale, dei filosofi: “Il popolo che l’abita [...] per professione ragiona, ama conversare e anche discutere”, ma senza “acredine” e “accanimento”[4]. I filosofi, contemporanei di Diderot, vi sono divisi per “coorti”, o “compagnie”: pirroniani, atei, deisti, spinozisti, fanfarons, “idealisti”.
È dunque il luogo, naturale, dei filosofi: “Il popolo che l’abita [...] per professione ragiona, ama conversare e anche discutere”, ma senza “acredine” e “accanimento”[4]. I filosofi, contemporanei di Diderot, vi sono divisi per “coorti”, o “compagnie”: pirroniani, atei, deisti, spinozisti, fanfarons, “idealisti”.
I due
stanno parlando, e camminano, attorniati dagli altri conversatori, quando
d’improvviso - sta per albeggiare - si para loro davanti un fiume,
apparentemente privo di guadi, con dietro alcune montagne. Da quel fatto,
imprevisto, subito il dialogo trae nuovi spunti: vi sono ragioni per le quali
quel fiume si trova lì ed esiste? Oppure è filosoficamente scorretto pensarne?
Ateo si
attiene all’evidenza e sostiene che esso semplicemente ostacola il cammino
degli uomini; ma nello stesso tempo ironizza sull’ospitalità del Dio di
Cleobulo, provocando il suo contraddittore ad illustrare le finalità benefiche
dei fiumi, al di là dell’evidenza, dell’hic et nunc.
La
disputa viene interrotta, sfumando repentinamente, dal rinvenimento da parte di
Filosseno e Difilo (che sono stati mandati in esplorazione) di un “ponte naturale”,
che consente alla compagnia di giungere (costeggiando il fiume) ad una “valle
ridente”, ricca di alberi da frutto ed animata dal lavoro delle api. E lì la
discussione riprende tra Filosseno (anch’egli deista), nel frattempo subentrato
ed affiancatosi a Cleobulo, e Ateo. Il tema è sempre quello cosmologico, ma il
paesaggio ora è cambiato e lo spunto viene fornito dalla natura delle api. Se
quegli animaletti erano degli “automi”, come aveva asserito Cartesio, ciò che
cosa provava?
Ateo, nel
corso della disputa, esprime le proprie ragioni morali, che sono estremamente
lineari e sensate; eppure esse, di fronte a quelle di Filosseno, almeno a dire
degli altri “filosofi”, sono deboli. Man mano che il dialogo evolve, anzi, il
lettore ha chiara la percezione che il suo disagio cresca.
La forza
dei deisti è nel fatto che essi riescono a coniugare bene l’esistenza di Dio
con il materialismo (il cosmo è una “macchina”) di Cartesio, ricusando,
sentimentalmente, il principio della casualità e facendo salva la “tradizione”.
Essi non sono “ortodossi”, si schierano (almeno così fa Cleobulo) contro la
veridicità e l’autenticità delle Scritture, quale fonte della “tradizione”; ma,
in realtà, continuano a credere nell’esistenza di un “principe”, che per loro
(per Cleobulo, nel “viale delle spine”, è così) non è ciò che è dietro il suo
mito, ma, indiscutibilmente, Dio, anche se interpretato liberamente. Che
questa attitudine si possa spiegare dicendo che il “Dio” di Cleobulo è un
postulato della ragion pura? È difficile poter dare una risposta sicura, ma
alla luce dei fatti l’impotenza di Ateo, nel dialogo, corrisponde alla sua
inferiorità sul piano dell’argomentazione e della speculazione: il che può
indurre a rispondere affermativamente all’interrogativo.
A
toglierlo d’impaccio interviene, finalmente, lo spinozista Oribaze, il quale
gli rimprovera di non avere tratto, dal suo stesso discorso, la conseguenza
decisiva: che la materia, se è organizzata (come dimostra l’automatismo delle
api), è anche eterna. Secondo il racconto di Cleobulo, Filosseno,colto di sorpresa
da codesta affermazione, non fece in tempo ad iniziare la sua replica, “che il
cielo si oscurò; una nube densa ci sottrasse lo spettacolo della natura, e ci
trovammo in una notte profonda”[5].
È una
chiusa letteraria (lo direi un tiro mancino giocato dalla natura), degna di uno
scrittore come Diderot; ma essa è, soprattutto, illustrativa del titolo del
libro. Con il sopraggiungere improvviso di quella “notte profonda” la
discussione filosofica s’interrompe, per non riprendere più: il viaggio
attraverso il “viale dei castagni” può dirsi concluso.
La
natura, i fatti naturali, sono, nel racconto, l’occhio dello scettico. Lo
scetticismo è in certo senso nelle cose, prima ancora che nella volontà degli
uomini, e la prosa letteraria è un modo grazioso per evitare l’urtante,
semplice, volgarizzazione delle verità scientifiche.
Quella di
Diderot è un po’ la scoperta del naturalismo come causa necessaria dello
scetticismo; il quale, nella Promenade, è tale da dissuadere dalle
facili impressioni, da poter essere lasciato retroagire, a conclusione del
discorso, su quelli che potrebbero essere ritenuti, nel progredire di esso,
punti fermi.
Non è
detto, ad esempio, che prima dell’intervento di Oribaze Filosseno trionfasse
veramente, nonostante il consenso discreto ma evidente degli altri conversatori
e nonostante le parole di commento del testo, che sono da attribuire al
narratore, non necessariamente a Diderot.
Se il
deista avesse davvero avuto in mano carte vincenti, e cioè se egli avesse
potuto chiudere con argomenti decisivi la disputa, non vi sarebbe stato bisogno
dell’oscuramento del cielo per porvi fine. Ma, più in generale, è il deismo che
non può vincere, perché esso non convince.
Cleobulo
- e il suo avversario lo eccepisce più di una volta - denota una forma
mentis compatibile con la monarchia e con la religione; ed egli aveva
già confessato qualcosa in tal senso, parlando, dal “viale delle spine”, della
sua libera interpretazione dell’esistenza del “principe”.
Il
riferimento che Cleobulo fa alle finalità benefiche del “fiume”, e cioè al
principio di un ordine, di una mente superiore, nella sua attitudine a
rassicurare ed a soffocare ogni esercizio del dubbio, appare come un chiaro
segno di dogmatismo. Egli è dunque ciò contro cui Diderot, per bocca di Aristo,
voleva scrivere, sia pure con filtri allegorici; e non è detto quindi che
concetti che apparentemente esprimono solo ciò che dicono, non siano allegorie.
In
sostanza, contrariamente a ciò che avviene nei testi filosofici di Platone,
nella Promenade ad ogni passo lo scetticismo fa sì che si
possano rimettere in discussione, del dialogo, la struttura e la funzione.
Nel
giovane Diderot il dialogo, in certo senso, dimostra il contrario di sé. Più
realisticamente: è il gioco delle personae, naturalisticamente
date, prima che le si chiami all’esercizio cosciente del dubbio, o della
ragione; e sono gli effetti che gli eventi naturali producono su di esse e sul
loro parlare, prima ancora che sulla coerenza logica del discorso, che
consentono, allo scrittore e al lettore, di lasciare che ogni opinione espressa
resti lì, sospesa, nonostante il progredire, a parole, del dialogo. Nessuna
affermazione, per questo e in forza dello stile letterario, è un’affermazione
che supera l’altra, nonostante che una disputa, per definitionem,
abbia le sue regole.
Non ci si
deve però fermare al fatto che Diderot giochi con il personaggio Cleobulo, ne
tiri i fili come avrebbe fatto poi con gli amori di Jacques (il fatalista); ciò
che è importante è che egli si serva di lui e di Filosseno come degli unici
veri contraddittori di Ateo, che le argomentazioni di quelli forniscano il vero
materiale su cui il giovane scrittore lavora, nell’affrontare la problematica
dell’ateismo. E che per il resto, agli altri “filosofi”, sia consentito il
semplice ruolo di comparse, come accade all’istrionico Zenocle, pirroniano,
dunque scettico inconseguente, negatore dell’evidenza sensibile.
Ciò che
si desume dalle vicende dialogiche di Ateo corrisponde all’insegnamento di
Pierre Bayle.
Era stato
o non il “filosofo di Rotterdam”, il grande erudito, a riconoscere l’attitudine
solo negativa della ragione pura, la sua “debolezza” (faiblesse), che è
anche nel suo essere condizione di esistenza del dialogo, la sua impotenza di
fronte alla fede e la sua grande efficacia essenzialmente nel campo morale? Se
questa interpretazione, che è di Cassirer, può darsi per buona, allora bisogna
dire di poter scorgere, già in questo, un legame oggettivo fra Bayle e Diderot.
Che la
speculazione filosofica, superato il limite dell’evidenza, sia immaginazione, o
pura ingegnosità, come avrebbe affermato Condillac? Ciò può esser letto fra le
righe ed entra a far parte, utilmente, della coscienza storica
dell’antimetafisica. Ma la realtà, come è provato dalla trama della Promenade e
anche dalla storia del pensiero, è altra, nonostante quella coscienza.
L’ateismo
che voglia essere cosmologia, che per questo razionalizzi in modo conseguente
(e non “ingegnoso”) i risultati delle scienze della natura - credendo di poter
chiudere così ogni discorso - invecchia sul nascere. È la sorte che tocca alle
proposizioni materialistiche cartesiane (le quali, come dimostrato da Cleobulo,
non necessariamente conducono a negare l’esistenza di Dio). Ed è quanto accade,
storicamente, nella critica ottocentesca del materialismus vulgaris (non
solo dei Vogt, dei Moleschott, dei Büchner) e di ogni meccanicismo. “Non c’è
niente di più falso - scriveva Feuerbach nel 1866 - che far derivare il
materialismo tedesco dal Système de la nature o addirittura
dal pasticcio di tartufi di Lamettrie”[6]: mutatis mutandis, era questo un suggello storico, il
successo, significativo, di un materialismo allegro, romantico e religioso.
Ciò
dimostra che l’ateismo materialistico che sia scevro della feuerbachiana
complessione antropocentrica (il guardare, pur naturalisticamente, le cose
troppo dall’interno dell’uomo e delle nazioni) può sempre apparire rozzo,
banale, macchinoso o puerile; ma soprattutto, per tornare al messaggio
contenuto nella Promenade, esso può divenire, nel giuoco retorico
del dialogo, argomento favorevole all’esistenza di Dio o, comunque,
speculativamente debole.
Se questo
è il vantaggio effettivo di cui godono i deisti, che cosa resterebbe da fare ad
Ateo, se non rifugiarsi nella propria morale? Ovvero: che cosa avrebbe dovuto
fare Aristo, se non diffondere i propri scritti solo fra gli amici, rinunciando
alla pubblicazione della Promenade? Ma nessuna delle due cose
accade.
Il
dialogo filosofico ha luogo; e l’impotenza di Ateo, come dicevo, è la
difficoltà di tradurre il proprio sentimento, la propria morale atea, in una
solida teoria dell’ateismo. Ciò viene provato, fra l’altro, dal bisogno, che in
Diderot in qualche modo si avverte, di rimettere in gioco il “panteismo” (la
parola è di Feuerbach) di Spinoza, facendo venire, in soccorso di Ateo, Oribaze.
Oribaze,
dal canto suo, difendendosi dall’accusa, compiaciuta, di Cleobulo, di
divinizzare “le farfalle, gli insetti, le mosche”, dice: “lo non divinizzo
niente [...]. Se mi capite appena, vedrete, al contrario, che lavoro a bandire
dal mondo la presunzione, la menzogna e gli dèi”[8]. È chiaro come, nella riesposizione succinta delle teorie del
maestro, egli vada ben oltre quella che per Ateo è 1’“evidenza”; come egli si
attesti su presupposti categorici ed ammetta due “sostanze” (Dio e materia),
cioè come la sua filosofia sia, sostanzialmente, accomodante.
Ma ciò
può dirsi per quanto riguarda il rigore filosofico. Lo stile, invece, è
aggressivo e brillante, profondamente efficace. È dunque vero - ciò che in
sostanza ha osservato Venturi - che se Diderot riabilita la filosofia di
Spinoza, egli lo fa per l’efficacia politica di essa, per la capacità di quel
“capo” di gettare appunto “in allarme il viale delle spine”. Ma questa non
è incoerenza, per l’indole dell’uomo Diderot, il quale, come dirò meglio fra
breve, sembra riconoscere dignità e solidità filosofica solo a ciò che accade.
Oribaze,
in fondo, può solo indicare la strada teoricamente più opportuna, o più
suggestiva: quella di una metafisica della materia (ovvero di un materialismo
metafisico); se poi egli in questo è forte (mette in serio imbarazzo
Filosseno), più persuasivo di Ateo, ciò, per avvenire solo in una disputa, che
subisce una brusca interruzione, può essere indice di abilità speculativa
“l’ingegnoso”, di cui parlerà Condillac), riversata nel dialogo, efficace, non
a caso, solo nel dialogo (quindi psicologicamente). Il problema non è dunque
quello della verità (su cui pesa anche qui, come nella Interpretazione
della natura, il verdetto di Montaigne), ma, obiettivamente, quello della
strumentazione retorica migliore; di come trasferire sul piano
dialogico-speculativo la morale dell’ateismo.
Dal punto
di vista dell’animo, si potrebbe dire, Oribaze si accosta ad Ateo; forse
proprio a causa di ciò a questi egli rimprovera di non essere stato conseguente
sino in fondo: di non avere concluso il suo discorso affermando che la materia,
se è organizzata, è anche eterna.
Oribaze,
che in questo modo dimostra di essere rivalutato da Diderot, non solo sul piano
politico, ma anche un po’ su quello della morale personale (tema, bayliano,
dell’onesto Spinoza), sa e non sa che proprio la sua affermazione, “la materia
è eterna”, era il punto di partenza, il presupposto morale dal quale Ateo in
cuor suo muoveva; lo stesso che egli aveva già espresso in modo efficace in una
precedente disputa con un uomo “delle spine”, ma che in quella circostanza,
evidentemente, era stato più agevole usare.
La
problematica dell’ateismo, nel “viale dei castagni”, viene esposta con il gusto
della contraddizione: Ateo ha infatti ragione, ma è debole perché troppo onesto
filosoficamente; Oribaze è più scaltro di lui, è più utile di lui alla causa
dell’ateismo, perché è più bravo nell’arte della “speculazione” e
dell’argomentazione, pur non potendosi dire con sicurezza che egli sia
filosoficamente un ateo.
Ma se
Oribaze è prezioso perché è più abile di Ateo, solo però nella “speculazione” e
nel dialogo, ciò può lasciar trapelare la verità che sia l’efficacia
psicologica del discorso (questo sarebbe l’ubi consistam della
filosofa speculativa), non la sua veridicità, ciò che conta, filosoficamente,
presso gli uomini.
Come si
vede, a causa dello scetticismo, la Promenade è uno scritto
dalle molte trasparenze. Essa esprime bene il relativismo estremo che
contraddistingue il pensiero del suo autore: il suo non legarsi a questa o
quella conclusione, né alla razionalità pura, né alla morale pura, né, più in
generale, ad una “natura” che sia mera categoria filosofica; il suo avere occhi
solo per le immagini dialettiche.
Il pregio
di Diderot, come insegna la storiella del ritrovamento del tesoro, nella Interpretazione
della natura, è quello di riconoscere solidità filosofica a ciò che accade,
a ciò che rimanda alla casualità, ai fatti nella loro naturalità, a ciò,
insomma, cui Cleobulo nega il diritto di cittadinanza filosofica.
Gli
eventi naturali che si susseguono nel “viale dei castagni” (l’imbattersi
improvviso nel fiume, il dover passare necessariamente per il “ponte naturale”
- che in fondo avrebbe potuto esserci e non esserci - il dover costeggiare il
fiume, l’oscuramento finale del cielo - una sorta di sipario che cala sulla
scena - così come l’efficacia psicologica della “speculazione”) sono fatti.
Senza di essi la serie degli atti (: il camminare, le dispute, la vittoria in
esse) non avrebbero avuto né inizio, né termine.
Tutto ciò
che è discorso, e tutto ciò che è razionale, è relativo, nella Promenade,
perché condizionato dai fatti, così intesi come “natura”
Che la
ragione sia “debole”, capace solo di negare, lo aveva già asserito Bayle
nel Dizionario (art. Manichei). Ma questo
significa, obiettivamente, che la ragione o è debole, oppure inganna la sua
propria natura. Allo stesso modo essa non sarebbe sé stessa, in Diderot, se
fosse immobile, imbattibile in questo o quell’enunciato, posta dogmaticamente
al di sopra delle teste dei dialoganti. Essa non sarebbe sé stessa,
essenzialmente, qualora fosse posta al di sopra della natura, se cioè non
valesse a ricondurre parole e fatti entro l’ordine necessario delle cose, che è
il segreto della storia umana.
Chi è Ateo?
Nel
“viale dei castagni” ad Ateo spetta oggettivamente il compito di animatore o,
se si preferisce, di protagonista sfortunato. In lui, beninteso, non si risolve
tutta la problematica dell’ateismo (come del resto si è visto); anzi: quando
trova, tornando a casa, “sgozzati i suoi bambini” e rapita sua moglie[9], egli è anche l’astrattezza e la debolezza della ragione,
dell’ateismo e della sua dottrina (penso ai macri leoni leopardiani, che si
mangiano l’islandese con tutte le sue belle teorie ...) rispetto alla
concretezza e alla crudeltà dei fatti. Ma senza di lui non vi sarebbe stata questione
di ateismo, e neanche Promenade, se così posso esprimermi.
Chi è,
dunque, Ateo?
Naturalmente
un personaggio immaginario, ideato dallo scrittore, o anche una sfaccettatura
della personalità di Diderot; egli è un po’ questo, ma è soprattutto definibile
in base ai concetti che la sua persona lascia trasparire, alle
volte impercettibilmente.
Quando,
nel descrivere il piccolo popolo “dei castagni”, presenta gli “atei” ad Aristo,
Cleobulo li classifica come scettici conseguenti, ben diversi, dunque, dai
(ridicoli) pirroniani, i quali negano tutto, anche ciò che si lega nel modo più
evidente alla sensibilità. Quindi bisogna presumere, in generale, che Ateo sia
uno scettico conseguente.
Per
capire poi, in un modo più singolare, chi egli sia, bisogna risalire
all’antefatto, all’episodio - cui ho solo accennato di sfuggita - che è causa
ed occasione, nello stesso tempo, della disputatio della quale
ho sin qui detto.
Accade un
giorno, proprio al confine tra il “viale delle spine” e quello “dei castagni”,
che un tipico abitatore di questo sostenga una discussione appassionata con un
“cieco”, il quale si dimostra tale a causa, non solo della “benda” che gli
copre gli occhi, ma anche dell’indole, che gli proibisce di togliersela, per
vedere: se Dio veramente esiste e se la promessa religiosa sarà mantenuta.
Ateo
nasce così, offrendosi al suo avversario di togliergli la benda e motivando
l’offerta con armoniosa ragionevolezza, semplicità di pensiero, calore morale.
La
disputa è estremamente vivace; e nonostante Ateo tenti di mantenerla entro i
binari dello stile filosofico (quale si addice ad un uomo “dei castagni”), essa
ha risvolti violenti: il “devoto”, ad un tratto, prende a percuotersi a sangue
con una corda. Essa non conduce alla liberazione del “cieco”, bensì alle sue
reazioni - lì per lì - isteriche. Dunque, nei fatti, Ateo ha fallito. Eppure,
agli occhi dei suoi compagni, e per volontà manifesta di Diderot - quale si
desume dall’allegoria del mondo “delle spine” - è come se egli, da quello
scontro, fosse uscito vincitore. E in certo senso è proprio così: egli ha
trionfato, moralmente, poiché il suo avversario ha mostrato di essere sensibile
essenzialmente all’ordine morale delle cose, ed in ciò vulnerabile.
Ma nello
stesso tempo è evidente che la morale (dell’ateo, se non altro), di fronte ai
fatti, non basta. E i fatti non sono solo quelli di violenza che connotano il
comportamento del “cieco”, bensì anche l’opinione, religiosa dei deisti e il
consenso che ad essi prestano gli altri filosofi.
Nel già
descritto confronto con Cleobulo nel viale dei castagni, anche l’ironia, che
aveva ben funzionato con il “cieco”, si rivela un’arma spuntata. La morale non
basta: il “Dio” di Cleobulo è altamente teoretico, speculativo.
In tale
confronto, si è visto, è come se Ateo fosse costretto a tenere per sé il
presupposto morale (che la materia è eterna); se egli non lo esprime è perché ciò
non sarebbe razionalmente conseguente. In certo senso è come se Cleobulo, per
il fatto, in sé, di ragionare da deista, spiegasse, rendesse manifeste, sotto
altra forma, le ragioni dei fatti di violenza che verranno a colpire la
famiglia di Ateo.
Fra il dialogo
con l’uomo “delle spine” e quello con gli uomini “dei castagni” il nesso è di
necessità, di vera integrazione nel significato, al di là della successione
temporale. L’alterna vicenda di Ateo è il carattere dialettico, l’idea di
movimento, che Diderot vede sempre nelle persone e nelle cose. In essa si agita
il rapporto fra ragione morale e ragione teoretica, fra morale e ragione pura.
La difficoltà di affermare l’autonomia dell’etica dalle Scritture e
dal dogma in generale sarà tale, sino in fondo, solo a condizione che essa,
l’etica, sia atea.
Volendo
escludere che Ateo possa essere, comodamente, identificato con Diderot, è certo
che la sua vicenda personale rassomiglia molto a quella del philosophe per
definizione. Egli è debole, solo e indifeso (dunque eroico), contro gli
“ortodossi”, i deisti e gli altri filosofi. La sua forza consiste nella sua
morale, nella quale egli applica, in un modo conseguente, ma forse ingenuo, i
princìpi materialistici.
Egli
vuole aiutare il “cieco” a togliersi la “benda”, per la stessa ragione per la
quale Ateo non recede dall’intento di dare alle stampe quello che è già un
manoscritto, la Promenade.
Ateo è
dunque un po’ il philosophe, che vuole illuminare il popolo,
ingenuamente e pagando di persona. Sennonché, nella vivezza della cultura
illuministica, nonostante la definizione, il philosophe non è
figura perfettamente omogenea: e qui è disegnata la persona di Ateo, con la sua
singolarità. In altre parole: se Voltaire gongolava al pensiero che nel suo
tempo il numero degli atei era in flessione, Diderot, che è un
illuminista-materialista (o un illuminista della seconda generazione, secondo
l’interpretazione di Soboul), interpreta la questione dell’ateismo in una
maniera quasi viscerale.
È
significativa, ad esempio, perché inquietante, la rilettura (reinterpretazione)
delle Scritture (il “codice” del “principe”), che egli demanda a Cleobulo[10]. È, direi, una riesposizione resa in forma volgare (cioè:
comprensibile per il popolo), estremamente semplificata, irriverente e
modernissima in ciò, nella quale viene confutata, raccontandone nuovamente il
contenuto, l’autenticità di quella fonte, che è, realmente, fonte morale e
giuridica.
È
significativo, parimenti, che l’evangelista Marco, nel dialogo con il filosofo
Menippo (il quale confuta l’efficacia probatoria delle testimonianze sui
miracoli di Gesù), venga fatto apparire un fanatico ed un mitomane[11].
Come si
vede, l’ateismo del giovane Diderot è una teoria fortemente voluta; è la
volontà di condurre alle conseguenze estreme il lavoro di controprova, sulla
base delle fonti storiche, deIl’autenticità delle Scritture, che erano, fino a
Pascal, prima di tutto le fonti della cognizione storica, ed in questo di ogni
cognizione. Lo aveva fatto Toland, oscillante fra deismo ed ateismo; lo aveva
fatto ancor prima Bayle, uomo di fede esasperata quanto di ragione esasperata,
autore che Diderot lesse poco tempo prima di porre mano alla Promenade.
Egli è
Bayle e non lo è - difficile entrare in questo recesso dell’animo di Diderot -
quando lascia sopravvivere a quell’aspra confutazione il “principe” - e cioè,
per restare con i piedi per terra, e nella trama del racconto, Cleobulo - così
come il “filosofo di Rotterdam” aveva vissuto una singolare compatibilità fra
l’esistenza di Dio e la forte irriverenza insita nel lavoro della sua ragione.
Ateo e la
sua società
Nella
discussione fra lui e i deisti vengono toccati due motivi salienti nel pensiero
del secolo XVII: quello del Dio-orologiaio e quello delle api-automi: dunque in
essa vi è il riesame, breve, di quelle tesi materialistiche (o non?), per i
riflessi che esse avevano sul problema dell’esistenza di Dio.
La
questione dell’ateismo, nella Promenade, attinge necessariamente
alla filosofia del Seicento e più specificamente, nel momento stesso in cui
necessariamente vi si confronta, alla cultura cartesiana in senso lato.
Ma ciò
che ritengo significativo è che in quel contesto venga ripresa e difesa, da
Ateo, che l’ha già tradotta in proprio come principio morale, la questione
bayliana della attuabilità di una “società di atei”.
È un
particolare, questo, almeno così sembra, di capitale importanza, perché l’idea
di Bayle è l’unico topos della cultura secentesca del quale
Ateo si sia veramente appropriato. Gli altri sono subito avvolti dal dubbio;
questo ha, invece, dignità di principio (della) morale: è un po’, per Ateo,
ragione di vita, la forte convinzione che ne fa un philosophe e
che condanna a morte i suoi figli. Il che significa che, dal punto di vista
morale, Ateo è un po’ Bayle. Se ciò avviene, vuoI dire che anche nel giovane
Diderot si manifesta l’efficacia storica della proposta bayliana.
L’autorevolezza
di Vico ci dice, in certo senso, la portata storica della bayliana “società di
atei”. Egli sostiene che essa non è mai esistita e dunque non è ipotizzabile,
così come - nonostante la chiara opposizione fra i punti di vista - Voltaire,
anch’egli sentendosi chiamato ad esprimere sulla questione il proprio parere,
dirà, ricorrendo ad un sofisma, che non si possono considerare società atee
quelle (l’allusione è ai cinesi) nelle quali, non ammettendosi Dio, non si
pone nemmeno problema di ateismo.
Se quella
di una “società di atei” è, dunque, una proposta suggestiva, ed è, in tal
senso, la grande proposta atea del Seicento, ciò lo si deve al fatto che in
essa vi è come una (avvertita?) astuzia storica.
Nel Libro
delle comete di Bayle, la moralità degli atei del passato (Diagora,
Evemero, Epicuro), essendo provata l’irreprensibilità della loro condotta, è
onestà nonostante l’ateismo, ovvero la possibilità, storicamente collaudata, di
una coesistenza effettiva delle due cose. Ma per il suo riflesso psicologico, e
su un piano storico, essa è un coonestare l’ateismo mediante la morale; è
opera, politica, di diffusione dell’ateismo. Come minimo, si potrebbe dire,
Bayle poteva fare al caso di Diderot, politicamente, operativamente, almeno
quanto Spinoza. È assai sottile, oggettivamente, il “filosofo di Rotterdam”: in
quel modo egli, parlando della morale personale degli atei dell’antichità,
introduce, e direi non solo de facto ma anche con fare
scientifico, il discorso sul valore positivo, storicamente attuabile, della
morale atea. Ma nel dialogo con l’uomo “delle spine” Ateo difende quel motivo
bayliano solo dopo avere ripreso quello che direi il motivo storicamente più
importante delle teorie di Bayle. Egli si è da poco fatto assertore della non
necessità, per la deità di Dio, della riverenza degli uomini; che è un po’
l’antico discorso di Epicuro sulla beatitudine degli dèi, che in Bayle si trova
riparlato, con un processo di desensibilizzazione teoretica (sacrificium
intellectus, nell’espressione di Cassirer) ed in nome del bene di Dio
(dell’idea di Dio come bene, liberato dal male che sono il mondo e la storia),
per liberare Dio dagli uomini e dunque gli uomini da Dio.
É
legittimo, allora, il sospetto che Diderot non semplicemente faccia proferire
ad Ateo parole bayliane, ma che Bayle sia un po’ entrato, come necessità
storica, e come eredità morale, nella persona di Ateo.
È
un’affermazione che non può essere assorbente dell’intero personaggio; non lo
consente il gioco dialettico-letterario (davvero teatrale) che governa la Promenade.
Ma a favore di essa militano, ritengo, (anche) due paginette del “discorso
preliminare”, quelle[14] nelle quali Aristo, il presunto estensore del libro,
sostiene, contro i consigli di Cleobulo, la non necessità della conservazione
di “certi” pregiudizi nel popolo, per il bene della religione e per l’onestà
dei costumi[15]. È un altro dei nodi filosofici (tipicamente) bayliani; con una
differenza sostanziale, rispetto a quanto avveniva nel filosofo di Rotterdam:
che ciò che in lui poteva apparire solo compresenza (le due “polarità” di
Cortese, e cioè l’“io diviso” di Bayle) - la critica della “tradizione” con/e
la considerazione, solo fideistica, dell’autorità delle Scritture;
il modo quasi-lockiano di sgretolare l’autorità dei pregiudizi con/e le
professioni, volute, di “ortodossia”; la demolizione dei puntelli razionali (soprattutto
quelli contemporanei) della fede con/e l’ammissione della realtà di essa -
viene sottoposto ora al torchio della conseguenzialità razionale.
Lo
scetticismo bayliano (il metodo dell’Accademia, alla quale tanto somiglia il
“viale dei castagni”) viene liberato dalla (reciproca) negatività dei “poli”,
dall’illusione che il pensiero di uno scettico non possa avere una direzione
ben delineata.
(Rielaborazione
da Nuovi studi politici,
fasc. n. 1 del 1987)
[1] D. Diderot, La Promenade du sceptique, in "Oeuvres complètes de Diderot - Philosophie",
Paris, Garnier Frères, 1875; trad. it.: La passeggiata dello scettico, a cura
di M. Brini Savorelli, Milano 1984. Rinvio alla pregevole e raffinata
Introduzione della curatrice.
[2] Ivi, p. 95.
[3] Cfr. ivi, p.
27.
[4] Ivi, rispettivamente pp. 27 e 59.
[7] La passeggiata dello scettico, p. 64.
[8] Ivi, p. 89.
[9] Ivi, p. 90.
[10] Ivi, pp. 37
ss.
[11] Ivi, pp.
50-52.
[12] Ivi, p. 74.
[13] Ivi, p. 75.
[14] Ivi.
[15] Ivi, p. 11.
Nessun commento:
Posta un commento