sabato 27 luglio 2013

Il racconto del personaggio Cleòbulo in Diderot, "La passeggiata dello scettico"



Denis Diderot


Il "sistema"

Nella Promemade du sceptique, di Diderot [1], scritto dell’irriverenza reso in forma dialogata e allegorica, il "saggio" Cleobulo, che vive da tempo nella quiete di una sua piccola proprietà - "une petit terre qui lui reste des débris d'une fortune assez considerable", il suo désert; ma egli è il suo parco, la sua campagna; che è volutamente libera, senza un "giardiniere" -, narra ad Aristo, suo ospite, di un suo sogno, di una sua “passeggiata” attraverso tre “viali”: “delle spine”, “dei castagni” e “dei fiori”. 
Se Aristo è invitato a riconoscersi in uno di essi, se cioè il racconto è presentato in chiave di enigma, questo ci riconduce al fatto che i simbolici “viali” - primo generale segno della dialetticità del reale - sono un modo di classificare la natura umana, in relazione ai fatti della religione e della politica. E sono ambienti, significativi, che dicono dei diversi modi di vivere e di pensare. 
Ma perché - anche - mi domando, i viali? La narrazione avviene mentre i due camminano nel parco: alle volte accade che si abbia in noi desiderio di camminare, non essendo, questo, altro che il bisogno di pensare, di avere, per sé stessi, uno "schiarimento"; ottenere per la ragione un guadagno; e al di sopra di tutto un piacere. Camminare, in fondo, fa "bene", se è in noi stessi che si vuole camminare: camminare è pensare. 
Ha inizio così il racconto di Cleobulo: tutti gli uomini nascono sotto l’impero di un (mitico “principe”; che è Dio, oppure Mosè, o forse ciò che si cela dietro quel mito; forse proprio il principe, il monarca, francese e non). Tutti nascono “soldati”, cioè vengono battezzati (mentre dormono) e da quel momento essi so­no fatti-visti camminare lungo il “viale delle spine”, con una benda sugli occhi - cioè come ciechi - con indosso una tunica bianca (che devono cercare, essendo ciechi, di non insozzare) e con in mano un bastone (incapaci come sono di camminare con le proprie gambe). 
L’allegoria delle “spine” è abbastanza scoperta e quella del “cieco” è congeniale a Diderot: che idea può farsi un cieco del mondo? Ovvero: che cosa potrebbe pensare egli del mondo se dovesse riacquistare, d’improvviso, l’uso degli occhi? E anche: i sassi e le spine, la "benda", rendono poi odiosa, estranea, la natura all'uomo, falsificando il procedimento della conoscenza. 
Ma può accadere, agli uomini “delle spine”, che la loro benda, con il tempo, si assottigli, divenendo garza. Dopo avere camminato in quel “viale” gemendo in continuazione a causa del dolore procurato loro dai rovi - che un cieco, evidentemente, non può evitare - essi potranno o non potranno uscirvi: potranno percorrere o non percorrere gli altri due “viali”. 
Potranno essere o non essere filosofi, cioè uomini “dei castagni”; potranno condurre o non condurre una vita mondana, dedita ai piaceri dei sensi, frivola, galante e pettegola, divenendo così abitanti del “viale dei fiori”: un “giardino”, più che un “viale”, laddove "Ad aiuole smaglianti di fiori succedono grandi tappeti di muschio, e prati verdi irrigati da cento ruscelli. Ci trovi boschi oscuri ove si intrecciano mille sentieri, labirinti in cui si gioca a perdersi, boschetti per fare a nascondersi, pergole lussureggianti per darsi riparo. Salottini per usi diversi vi sono stati organizzati: negli uni tavole imbandite di dolci e 'buffets' carichi di vini e liquori squisiti; negli altri tavole da gioco, 'fiches', gettoni, tavoli per  un gioco dell'oca e ogni apparecchiatura necessaria per chi vuol rovinarsi per divertimento". 
Nell’allegoria di Diderot, il bel mondo del “viale dei fiori” è l’altra faccia del “viale delle spine”: gli uomini “dei fiori” non sono altro che i “devoti”, i quali contravvengono alle norme morali e religiose su cui si regge la (loro) società (ovvero, aggiungo: se non vi fosse negazione di tavole, così ritenute, di doveri, non vi sarebbe vero discorso morale). 
Ma anche questa, della contravvenzione, bisogna ritenere che sia una regola: sono i “bacchettoni”, le gerarchie ecclesiastiche, i giudici, gli accademici, gli avvocati (che bisogna poter riconoscere nelle nebbie dell’allegoria), che Diderot colloca - come in un piccolo affresco - nel “viale delle spine”, a cedere al sensualismo di una vita leggera, superficiale. Ma non per molto, ché prima o poi essi vengono vinti dalla loro natura di “transfughi” - dal fatto di non avere “una vista abbastanza buona da sopportare il giorno pieno”[2] - e fanno ritorno nel luogo dal quale provengono.
Non vi è pregiudizio moralistico, beninteso, nella ideazione del “viale dei fiori”; vi è, comunque, la satira del philosophe sui costumi dell’epoca; ma non può dirsi, la Promenade, un trattatello, alla moda, sui pregiudizi, come se ne leggono al tempo di Diderot. Essa è invece la critica della società idolatrica - vista come società civile eretta a Stato - espressa nella forma della critica religiosa; dove il “moralista”, cioè colui che per attitudine si sofferma a considerare i costumi oppure i meccanismi (solitamente paradossali) del comportamento, rimane piuttosto sullo sfondo, per lasciare libero il campo all’occhio del naturalista, che solo sa come assimilare (scavando, riflettendo, sentendo in profondità) il comportamento umano alla natura materiale, che, paradossalmente, poco sembra avere a che fare con l’evidenza.
La critica dell’idolatria, nella Promenade, non ha per oggetto la religione (perché) tradita, non contiene alcun idoleggiamento (né volgarizzazione politica) di un cristianesimo puro ed originario - come invece avviene in altri filosofi “atei” - né indulge ad alcuna antropologia religiosa positiva. Diderot si prefigge di andare oltre il deismo ed oltre ogni religione, senza cedimenti di ordine sentimentale; ed egli può ottenere questo invidiabile risultato solo osservando i suoi personaggi con l’occhio distaccato, misurato, dello scettico conseguente. 




Scetticismo, naturalismo, antideismo

Il “viale dei castagni” è “stretto”, presenta un “fondo sabbioso (impossibile, quindi, camminarvi con l’ausilio del bastone!)”, è “difficile a seguirsi fino in fondo, tanto la sabbia diventa mobile sulla fine”, e non è frequentatissimo[3]
Sotto le "fronde dei castagni", che possono dare refrigerio al viandante, giovani "filosofi" incredibilmente fraternizzano; "[...] ho visto con i miei occhi [...] tutte le sette dei filosofi accostate e unite coi lacci dell'amicizia"; più natura, dunque forse, che non società: ("Agrigentinum quidem doctum quendam virum carminibus graecis vaticinatum ferunt, quae in rerum natura totoque mundo constarent quaeque moverentur, ea contrahere amicitiam, dissipare discordiam" (Cicerone, de amicitia, VII. 23). 
Eppoi gli oggetti, l'ambiente, anche qui sono significativi: "ecco [...] sfere, globi, telescopi, libri, ombra e silenzio"; eccovi philosophia naturalis, o anche sperimentale, e cioè: imprigionata, solo, nella natura.  
È dunque il luogo, naturale, dei filosofi: “Il popolo che l’abita [...] per professione ragiona, ama conversare e anche discutere”, ma senza “acredine” e “accanimento”[4]I filosofi, contemporanei di Diderot, vi sono divisi per “coorti”, o “compagnie”: pirroniani, atei, deisti, spinozisti, fanfarons, “idealisti”.
Il “viale dei castagni” - particolare che può essere eloquentissimo - è un “soggiorno tranquillo”, che “somiglia assai all’antica Accademia” (ibidem). È lì che una certa notte nasce, fra alcuni suoi abitatori, una discussione sul problema dell’esi­stenza di Dio, ovvero, secondo l’allegoria, del “principe”. Essa diviene subito intensa fra Cleobulo (che è messo da Diderot nel novero dei deisti) e Ateo, personaggio, direi, dal nome fin troppo emblematico.
I due stanno parlando, e camminano, attorniati dagli altri conversatori, quando d’improvviso - sta per albeggiare - si para loro davanti un fiume, apparentemente privo di guadi, con dietro alcune montagne. Da quel fatto, imprevisto, subito il dialogo trae nuovi spunti: vi sono ragioni per le quali quel fiume si trova lì ed esiste? Oppure è filosoficamente scorretto pensarne? 
Ateo si attiene all’evidenza e sostiene che esso semplicemente ostacola il cammino degli uomini; ma nello stesso tempo ironizza sull’ospitalità del Dio di Cleobulo, provocando il suo contraddittore ad illustrare le finalità benefiche dei fiumi, al di là dell’evidenza, dell’hic et nunc.
La disputa viene interrotta, sfumando repentinamente, dal rinvenimento da parte di Filosseno e Difilo (che sono stati mandati in esplorazione) di un “ponte naturale”, che consente alla compagnia di giungere (costeggiando il fiume) ad una “valle ridente”, ricca di alberi da frutto ed animata dal lavoro delle api. E lì la discussione riprende tra Filosseno (anch’egli deista), nel frattempo subentrato ed affiancatosi a Cleobulo, e Ateo. Il tema è sempre quello cosmologico, ma il paesaggio ora è cambiato e lo spunto viene fornito dalla natura delle api. Se quegli animaletti erano degli “automi”, come aveva asserito Cartesio, ciò che cosa provava?
È una tematica, anche quella delle api, particolarmente viva nel Seicento ed una questione che affondava le radici nei classici dell’antichità (Virgilio); già questo suggerisce come il giovane Diderot (che potrebbe anche averla ritrovata nell’articolo Rorario, del Dizionario storico-critico di Bayle) non avrebbe potuto scrivere sull’ateismo se quel problema non fosse stato messo in evidenza proprio dalla cultura del secolo XVII, proprio da certo quale “ateismo” che si voglia leggere nella filosofia cartesiana.
Ateo, nel corso della disputa, esprime le proprie ragioni morali, che sono estremamente lineari e sensate; eppure esse, di fronte a quelle di Filosseno, almeno a dire degli altri “filosofi”, sono deboli. Man mano che il dialogo evolve, anzi, il lettore ha chiara la percezione che il suo disagio cresca.
La forza dei deisti è nel fatto che essi riescono a coniugare bene l’esistenza di Dio con il materialismo (il cosmo è una “macchina”) di Cartesio, ricusando, sentimentalmente, il principio della casualità e facendo salva la “tradizione”. Essi non sono “ortodossi”, si schierano (almeno così fa Cleobulo) contro la veridicità e l’autenticità delle Scritture, quale fonte della “tradizione”; ma, in realtà, continuano a credere nell’esistenza di un “principe”, che per loro (per Cleobulo, nel “viale delle spine”, è così) non è ciò che è dietro il suo mito, ma, indiscutibil­mente, Dio, anche se interpretato liberamente. Che questa attitudine si possa spiegare dicendo che il “Dio” di Cleobulo è un postulato della ragion pura? È difficile poter dare una risposta sicura, ma alla luce dei fatti l’impotenza di Ateo, nel dialogo, corrisponde alla sua inferiorità sul piano dell’argomentazione e della speculazione: il che può indurre a rispondere affermativamente all’interrogativo.
Ateo eccepisce puntualmente ai deisti di essere inconseguenti; egli è la voce di una corretta critica antimetafisica ma, ciononostante, il suo imbarazzo è evidente. 
A toglierlo d’impaccio interviene, finalmente, lo spinozista Oribaze, il quale gli rimprovera di non avere tratto, dal suo stesso discorso, la conseguenza decisiva: che la materia, se è organizzata (come dimostra l’automatismo delle api), è anche eterna. Secondo il racconto di Cleobulo, Filosseno,colto di sor­presa da codesta affermazione, non fece in tempo ad iniziare la sua replica, “che il cielo si oscurò; una nube densa ci sottrasse lo spettacolo della natura, e ci trovammo in una notte profonda”[5].
È una chiusa letteraria (lo direi un tiro mancino giocato dalla natura), degna di uno scrittore come Diderot; ma essa è, soprattutto, illustrativa del titolo del libro. Con il sopraggiungere improvviso di quella “notte profonda” la discussione filosofica s’interrompe, per non riprendere più: il viaggio attraverso il “viale dei castagni” può dirsi concluso. 
L’improvviso oscurarsi del cielo vale, quindi, la sospensione del giudizio. È il suggello scettico posto ad una disputa che ha luogo in un “soggiorno tranquillo” che “somiglia assai alla vecchia Accademia”. La conversazione si conclude perché ai filosofi viene sottratto “lo spettacolo della natura”; ma, appunto, ciò accade per causa di un fatto naturale.
La natura, i fatti naturali, sono, nel racconto, l’occhio dello scettico. Lo scetticismo è in certo senso nelle cose, prima ancora che nella volontà degli uomini, e la prosa letteraria è un modo grazioso per evitare l’urtante, semplice, volgarizzazione delle verità scientifiche.
Quella di Diderot è un po’ la scoperta del naturalismo come causa necessaria dello scetticismo; il quale, nella Promenade, è tale da dissuadere dalle facili impressioni, da poter essere lasciato retroagire, a conclusione del discorso, su quelli che potrebbero essere ritenuti, nel progredire di esso, punti fermi.
Non è detto, ad esempio, che prima dell’intervento di Oribaze Filosseno trionfasse veramente, nonostante il consenso discreto ma evidente degli altri conversatori e nonostante le parole di commento del testo, che sono da attribuire al narratore, non necessariamente a Diderot.
Se il deista avesse davvero avuto in mano carte vincenti, e cioè se egli avesse potuto chiudere con argomenti decisivi la disputa, non vi sarebbe stato bisogno dell’oscuramento del cielo per porvi fine. Ma, più in generale, è il deismo che non può vincere, perché esso non convince.
Cleobulo - e il suo avversario lo eccepisce più di una volta - denota una forma mentis compatibile con la monarchia e ­con la religione; ed egli aveva già confessato qualcosa in tal senso, parlando, dal “viale delle spine”, della sua libera interpretazione dell’esistenza del “principe”.
Senz’altro è suo costume forzare il ragionamento, a causa della sua mentalità teleologica. Nei semplici fenomeni naturali (l’universo, il cosmo, le api) egli vuoI vedere ad ogni costo, per un suo sentimento di gratitudine (è un po’ la “gallina” di Bloch, mi sembra), un ordine ed un disegno divini; ciò che, secondo Ateo, è logicamente inconseguente, o quanto meno non necessario.
Il riferimento che Cleobulo fa alle finalità benefiche del “fiume”, e cioè al principio di un ordine, di una mente superiore, nella sua attitudine a rassicurare ed a soffocare ogni esercizio del dubbio, appare come un chiaro segno di dogmatismo. Egli è dunque ciò contro cui Diderot, per bocca di Aristo, voleva scrivere, sia pure con filtri allegorici; e non è detto quindi che concetti che apparentemente esprimono solo ciò che dicono, non siano allegorie.
In sostanza, contrariamente a ciò che avviene nei testi filosofici di Platone, nella Promenade ad ogni passo lo scetticismo fa sì che si possano rimettere in discussione, del dialogo, la struttura e la funzione.
Nel giovane Diderot il dialogo, in certo senso, dimostra il contrario di sé. Più realisticamente: è il gioco delle personae, naturalisticamente date, prima che le si chiami all’esercizio cosciente del dubbio, o della ragione; e sono gli effetti che gli eventi naturali producono su di esse e sul loro parlare, prima ancora che sulla coerenza logica del discorso, che consentono, allo scrittore e al lettore, di lasciare che ogni opinione espressa resti lì, sospesa, nonostante il progredire, a parole, del dialogo. Nessuna affermazione, per questo e in forza dello stile lettera­rio, è un’affermazione che supera l’altra, nonostante che una disputa, per definitionem, abbia le sue regole.
Ma per uno scettico, come vuole esserlo Diderot, il dialogo filosofico non è solo una prova contro sé stesso; esso è anche un fare costruttivo. È evidente, ad esempio, la concreta contrapposizione tra il deismo e l’ateismo, lo studio delle differenze, il bisogno di chiarire, attraverso il libero confronto delle argomentazioni, una questione che, per l’epoca, ha una indubbia rilevanza politica, oltre che religiosa. Cleobulo, il narrante, è messo da Diderot fra i deisti, nel senso che egli viene provato, dalla sorte, come deista. Egli è saggio, ferrato nell’arte dell’argomentare, prodigo di consigli amichevoli, in fondo rassicurante: dunque sembra un personaggio positivo; ma, a ben vedere, egli è tutto questo nel momento stesso in cui si mostra prudente, timoroso dei pubblici poteri e della cattiveria umana, preoccupato per le sorti che possano derivare allo Stato da un ateismo accettato dalla generalità dei cittadini e dai possibili successi di una lotta contro “certe” superstizioni, quelle che è proibito toccare.
Non ci si deve però fermare al fatto che Diderot giochi con il personaggio Cleobulo, ne tiri i fili come avrebbe fatto poi con gli amori di Jacques (il fatalista); ciò che è importante è che egli si serva di lui e di Filosseno come degli unici veri contraddittori di Ateo, che le argomentazioni di quelli forniscano il vero materiale su cui il giovane scrittore lavora, nell’affronta­re la problematica dell’ateismo. E che per il resto, agli altri “filosofi”, sia consentito il semplice ruolo di comparse, come accade all’istrionico Zenocle, pirroniano, dunque scettico in­conseguente, negatore dell’evidenza sensibile.





L’ateismo come problema

Ciò che si desume dalle vicende dialogiche di Ateo corrisponde all’insegnamento di Pierre Bayle.
Era stato o non il “filosofo di Rotterdam”, il grande erudito, a riconoscere l’attitudine solo negativa della ragione pura, la sua “debolezza” (faiblesse), che è anche nel suo essere condizione di esistenza del dialogo, la sua impotenza di fronte alla fede e la sua grande efficacia essenzialmente nel campo morale? Se questa interpretazione, che è di Cassirer, può darsi per buona, allora bisogna dire di poter scorgere, già in questo, un legame oggettivo fra Bayle e Diderot.
La Promenade, dunque, dimostra, in generale, quanto sia difficile costruire una dottrina atea che davvero soddisfi, che, cioè, riesca a convincere amici ed avversari. Le idee dell’ateo, soprattutto dell’ateo illuminista, saranno sempre suscettibili di confutazione - perché troppo razionali, o perché troppo evidenti - rispetto a quelle di ogni deista, che faccia invece ricorso all’immaginazione, spacciandola per “libera” razionalità; che sappia far fruttare meglio, perché religioso, la sua morale.
Che la speculazione filosofica, superato il limite dell’evidenza, sia immaginazione, o pura ingegnosità, come avrebbe af­fermato Condillac? Ciò può esser letto fra le righe ed entra a far parte, utilmente, della coscienza storica dell’antimetafisica. Ma la realtà, come è provato dalla trama della Promenade e anche dalla storia del pensiero, è altra, nonostante quella coscienza.
L’ateismo che voglia essere cosmologia, che per questo razionalizzi in modo conseguente (e non “ingegnoso”) i risultati delle scienze della natura - credendo di poter chiudere così ogni discorso - invecchia sul nascere. È la sorte che tocca alle proposizioni materialistiche cartesiane (le quali, come dimostrato da Cleobulo, non necessariamente conducono a negare l’esistenza di Dio). Ed è quanto accade, storicamente, nella critica ottocentesca del materialismus vulgaris (non solo dei Vogt, dei Moleschott, dei Büchner) e di ogni meccanicismo. “Non c’è niente di più falso - scriveva Feuerbach nel 1866 - che far derivare il materialismo tedesco dal Système de la nature o addirittura dal pasticcio di tartufi di Lamettrie”[6]mutatis mutandis, era questo un suggello storico, il successo, significativo, di un materialismo allegro, romantico e religioso.
Ciò dimostra che l’ateismo materialistico che sia scevro della feuerbachiana complessione antropocentrica (il guardare, pur naturalisticamente, le cose troppo dall’interno dell’uomo e delle nazioni) può sempre apparire rozzo, banale, macchinoso o puerile; ma soprattutto, per tornare al messaggio contenuto nella Promenade, esso può divenire, nel giuoco retorico del dialogo, argomento favorevole all’esistenza di Dio o, comunque, speculativamente debole. 
Se questo è il vantaggio effettivo di cui godono i deisti, che cosa resterebbe da fare ad Ateo, se non rifugiarsi nella propria morale? Ovvero: che cosa avrebbe dovuto fare Aristo, se non diffondere i propri scritti solo fra gli amici, rinunciando alla pubblicazione della Promenade? Ma nessuna delle due cose accade.
Il dialogo filosofico ha luogo; e l’impotenza di Ateo, come dicevo, è la difficoltà di tradurre il proprio sentimento, la propria morale atea, in una solida teoria dell’ateismo. Ciò viene provato, fra l’altro, dal bisogno, che in Diderot in qualche modo si avverte, di rimettere in gioco il “panteismo” (la parola è di Feuerbach) di Spinoza, facendo venire, in soccorso di Ateo, Oribaze.
Che l’opinione degli spinozisti sia riabilitata proprio da un philosophe, anzi dal philosophe per eccellenza, può essere rite­nuto un fatto singolare. Egli stesso, per bocca di Cleobulo, li chiama “visionari”; ma dice anche, contestualmente, che il loro “capo [...] fu una specie di partigiano che fece incursioni frequenti e spesso gettò in allarme il viale delle spine”[7]
Oribaze, dal canto suo, difendendosi dall’accusa, compiaciuta, di Cleobulo, di divinizzare “le farfalle, gli insetti, le mosche”, dice: “lo non divinizzo niente [...]. Se mi capite appena, vedrete, al contrario, che lavoro a bandire dal mondo la presunzione, la menzogna e gli dèi”[8]. È chiaro come, nella riesposizione succinta delle teorie del maestro, egli vada ben oltre quella che per Ateo è 1’“evidenza”; come egli si attesti su presupposti categorici ed ammetta due “sostanze” (Dio e materia), cioè come la sua filosofia sia, sostanzialmente, accomodante.
Ma ciò può dirsi per quanto riguarda il rigore filosofico. Lo stile, invece, è aggressivo e brillante, profondamente efficace. È dunque vero - ciò che in sostanza ha osservato Venturi - ­che se Diderot riabilita la filosofia di Spinoza, egli lo fa per l’efficacia politica di essa, per la capacità di quel “capo” di gettare appunto “in allarme il viale delle spine”. Ma questa non è incoerenza, per l’indole dell’uomo Diderot, il quale, come dirò meglio fra breve, sembra riconoscere dignità e solidità filosofica solo a ciò che accade. 
Oribaze, in fondo, può solo indicare la strada teoricamente più opportuna, o più suggestiva: quella di una metafisica della materia (ovvero di un materialismo metafisico); se poi egli in questo è forte (mette in serio imbarazzo Filosseno), più persuasivo di Ateo, ciò, per avvenire solo in una disputa, che subisce una brusca interruzione, può essere indice di abilità specu­lativa “l’ingegnoso”, di cui parlerà Condillac), riversata nel dialogo, efficace, non a caso, solo nel dialogo (quindi psicologicamente). Il problema non è dunque quello della verità (su cui pesa anche qui, come nella Interpretazione della natura, il verdetto di Montaigne), ma, obiettivamente, quello della strumentazione retorica migliore; di come trasferire sul piano dialogico-speculativo la morale dell’ateismo.
Dal punto di vista dell’animo, si potrebbe dire, Oribaze si accosta ad Ateo; forse proprio a causa di ciò a questi egli rimprovera di non essere stato conseguente sino in fondo: di non avere concluso il suo discorso affermando che la materia, se è organizzata, è anche eterna.
Oribaze, che in questo modo dimostra di essere rivalutato da Diderot, non solo sul piano politico, ma anche un po’ su quello della morale personale (tema, bayliano, dell’onesto Spinoza), sa e non sa che proprio la sua affermazione, “la materia è eterna”, era il punto di partenza, il presupposto morale dal quale Ateo in cuor suo muoveva; lo stesso che egli aveva già espresso in modo efficace in una precedente disputa con un uomo “delle spine”, ma che in quella circostanza, evidentemente, era stato più agevole usare.
Qui, ora, egli non ne aveva fatto parola, perché quella conclusione avrebbe potuto trarla, nella conversazione con i deisti, solo a condizione di tradire i suoi princìpi filosofici: quello di evidenza e quello di conseguenzialità. 
La problematica dell’ateismo, nel “viale dei castagni”, viene esposta con il gusto della contraddizione: Ateo ha infatti ragione, ma è debole perché troppo onesto filosoficamente; Oribaze è più scaltro di lui, è più utile di lui alla causa dell’ateismo, perché è più bravo nell’arte della “speculazione” e dell’argomentazione, pur non potendosi dire con sicurezza che egli sia filosoficamente un ateo.
Ma se Oribaze è prezioso perché è più abile di Ateo, solo però nella “speculazione” e nel dialogo, ciò può lasciar trapelare la verità che sia l’efficacia psicologica del discorso (questo sarebbe l’ubi consistam della filosofa speculativa), non la sua veridicità, ciò che conta, filosoficamente, presso gli uomini.
Come si vede, a causa dello scetticismo, la Promenade è uno scritto dalle molte trasparenze. Essa esprime bene il relativismo estremo che contraddistingue il pensiero del suo autore: il suo non legarsi a questa o quella conclusione, né alla razionalità pura, né alla morale pura, né, più in generale, ad una “natura” che sia mera categoria filosofica; il suo avere occhi solo per le immagini dialettiche.
Il pregio di Diderot, come insegna la storiella del ritrovamento del tesoro, nella Interpretazione della natura, è quello di riconoscere solidità filosofica a ciò che accade, a ciò che rimanda alla casualità, ai fatti nella loro naturalità, a ciò, insomma, cui Cleobulo nega il diritto di cittadinanza filosofica.
Gli eventi naturali che si susseguono nel “viale dei castagni” (l’imbattersi improvviso nel fiume, il dover passare necessariamente per il “ponte naturale” - che in fondo avrebbe potuto esserci e non esserci - il dover costeggiare il fiume, l’oscuramento finale del cielo - una sorta di sipario che cala sulla scena - così come l’efficacia psicologica della “speculazione”) sono fatti. Senza di essi la serie degli atti (: il camminare, le dispute, la vittoria in esse) non avrebbero avuto né inizio, né termine.
Tutto ciò che è discorso, e tutto ciò che è razionale, è relativo, nella Promenade, perché condizionato dai fatti, così intesi come “natura”
La “colpevole” debolezza di Ateo e la forza di Filosseno e di Oribaze fanno sì che la crisi dell’ateismo lasci trasparire, paradossalmente, la crisi della filosofia - la quale è valida perché metafisica e speculativa - ché non è vera filosofia, per Diderot, quella di Spinoza. Il philosophe, comunque, crede nella filosofia; anche se per lui non è facile definirla (se non come scetticismo?), egli la sente ed è spinto a viverla, a qualsiasi prezzo. In caso contrario, nella Promenade, non vi sarebbe stato né dialogo filosofico (tra contemporanei, si noti bene) né “viale dei castagni”.
Che la ragione sia “debole”, capace solo di negare, lo aveva già asserito Bayle nel Dizionario (art. Manichei). Ma questo significa, obiettivamente, che la ragione o è debole, oppure inganna la sua propria natura. Allo stesso modo essa non sarebbe sé stessa, in Diderot, se fosse immobile, imbattibile in questo o quell’enunciato, posta dogmaticamente al di sopra delle teste dei dialoganti. Essa non sarebbe sé stessa, essenzialmente, qualora fosse posta al di sopra della natura, se cioè non valesse a ricondurre parole e fatti entro l’ordine necessario delle cose, che è il segreto della storia umana.




Chi è Ateo?

Nel “viale dei castagni” ad Ateo spetta oggettivamente il compito di animatore o, se si preferisce, di protagonista sfortunato. In lui, beninteso, non si risolve tutta la problematica dell’ateismo (come del resto si è visto); anzi: quando trova, tornando a casa, “sgozzati i suoi bambini” e rapita sua moglie[9], egli è anche l’astrattezza e la debolezza della ragione, dell’ateismo e della sua dottrina (penso ai macri leoni leopardiani, che si mangiano l’islandese con tutte le sue belle teorie ...) rispetto alla concretezza e alla crudeltà dei fatti. Ma senza di lui non vi sarebbe stata questione di ateismo, e neanche Promenade, se così posso esprimermi.
Chi è, dunque, Ateo? 
Naturalmente un personaggio immaginario, ideato dallo scrittore, o anche una sfaccettatura della personalità di Diderot; egli è un po’ questo, ma è soprattutto definibile in base ai concetti che la sua persona lascia trasparire, alle volte impercettibilmente. 
Quando, nel descrivere il piccolo popolo “dei castagni”, presenta gli “atei” ad Aristo, Cleobulo li classifica come scettici conseguenti, ben diversi, dunque, dai (ridicoli) pirroniani, i quali negano tutto, anche ciò che si lega nel modo più evidente alla sensibilità. Quindi bisogna presumere, in generale, che Ateo sia uno scettico conseguente.
Per capire poi, in un modo più singolare, chi egli sia, bisogna risalire all’antefatto, all’episodio - cui ho solo accennato di sfuggita - che è causa ed occasione, nello stesso tempo, della disputatio della quale ho sin qui detto. 
Accade un giorno, proprio al confine tra il “viale delle spine” e quello “dei castagni”, che un tipico abitatore di questo sostenga una discussione appassionata con un “cieco”, il quale si dimostra tale a causa, non solo della “benda” che gli copre gli occhi, ma anche dell’indole, che gli proibisce di togliersela, per vedere: se Dio veramente esiste e se la promessa religiosa sarà mantenuta.
Ateo nasce così, offrendosi al suo avversario di togliergli la benda e motivando l’offerta con armoniosa ragionevolezza, semplicità di pensiero, calore morale. 
Prima di quell’episodio egli era semplicemente uno dei tanti uomini “dei castagni” - egli era confondibile con essi - e dunque un “filosofo”, senza partito. Dopo il successo, morale. riportato in quel dialogo (non condotto secondo il costume dei filosofi, se non, in certo senso, solo da lui), egli ha un nome ed una fama, come accade agli eroi.
La disputa è estremamente vivace; e nonostante Ateo tenti di mantenerla entro i binari dello stile filosofico (quale si addice ad un uomo “dei castagni”), essa ha risvolti violenti: il “devoto”, ad un tratto, prende a percuotersi a sangue con una corda. Essa non conduce alla liberazione del “cieco”, bensì alle sue reazioni - lì per lì - isteriche. Dunque, nei fatti, Ateo ha fallito. Eppure, agli occhi dei suoi compagni, e per volontà manifesta di Diderot - quale si desume dall’allegoria del mondo “delle spine” - è come se egli, da quello scontro, fosse uscito vincitore. E in certo senso è proprio così: egli ha trionfato, moralmente, poiché il suo avversario ha mostrato di essere sensibile essenzialmente all’ordine morale delle cose, ed in ciò vulnerabile.
Ma nello stesso tempo è evidente che la morale (dell’ateo, se non altro), di fronte ai fatti, non basta. E i fatti non sono solo quelli di violenza che connotano il comportamento del “cieco”, bensì anche l’opinione, religiosa dei deisti e il consenso che ad essi prestano gli altri filosofi.
Nel già descritto confronto con Cleobulo nel viale dei castagni, anche l’ironia, che aveva ben funzionato con il “cieco”, si rivela un’arma spuntata. La morale non basta: il “Dio” di Cleobulo è altamente teoretico, speculativo.
In tale confronto, si è visto, è come se Ateo fosse costretto a tenere per sé il presupposto morale (che la materia è eterna); se egli non lo esprime è perché ciò non sarebbe razionalmente conseguente. In certo senso è come se Cleobulo, per il fatto, in sé, di ragionare da deista, spiegasse, rendesse manifeste, sotto altra forma, le ragioni dei fatti di violenza che verranno a colpire la famiglia di Ateo.
Fra il dialogo con l’uomo “delle spine” e quello con gli uomini “dei castagni” il nesso è di necessità, di vera integrazione nel significato, al di là della successione temporale. L’alterna vicenda di Ateo è il carattere dialettico, l’idea di movimento, che Diderot vede sempre nelle persone e nelle cose. In essa si agita il rapporto fra ragione morale e ragione teoretica, fra morale e ragione pura. La difficoltà di affermare l’autonomia dell’etica dalle Scritture e dal dogma in generale sarà tale, sino in fondo, solo a condizione che essa, l’etica, sia atea.
Nel rapporto con il “cieco” Ateo vince e perde: egli è colui che ha ridicolizzato l’uomo “devoto”, ma, nello stesso tempo, avendolo esasperato e non certo persuaso, egli è colui che pagherà la bellezza della propria morale con l’eccidio dei figli e il rapimento della moglie, perpetrati, sicuramente, da colui che egli aveva ridicolizzato, ma, ancor prima, cercato di aiutare.
Volendo escludere che Ateo possa essere, comodamente, identificato con Diderot, è certo che la sua vicenda personale rassomiglia molto a quella del philosophe per definizione. Egli è debole, solo e indifeso (dunque eroico), contro gli “ortodossi”, i deisti e gli altri filosofi. La sua forza consiste nella sua morale, nella quale egli applica, in un modo conseguente, ma forse ingenuo, i princìpi materialistici.
Egli vuole aiutare il “cieco” a togliersi la “benda”, per la stessa ragione per la quale Ateo non recede dall’intento di dare alle stampe quello che è già un manoscritto, la Promenade
Ma il “cieco” è, essenzialmente, l’uomo del “popolo” (dei “ciechi”), che risponde con la violenza sanguinaria a chi voglia liberarlo dalle vessazioni dei preti (le sue “guide”), dei tribunali, degli avvocati, del potere politico; dall’idea di un “principe”.
Ateo è dunque un po’ il philosophe, che vuole illuminare il popolo, ingenuamente e pagando di persona. Sennonché, nella vivezza della cultura illuministica, nonostante la definizione, il philosophe non è figura perfettamente omogenea: e qui è disegnata la persona di Ateo, con la sua singolarità. In altre parole: se Voltaire gongolava al pensiero che nel suo tempo il numero degli atei era in flessione, Diderot, che è un illuminista-materialista (o un illuminista della seconda generazione, secondo l’interpretazione di Soboul), interpreta la questione dell’ateismo in una maniera quasi viscerale.
È significativa, ad esempio, perché inquietante, la rilettura (reinterpretazione) delle Scritture (il “codice” del “principe”), che egli demanda a Cleobulo[10]. È, direi, una riesposizione resa in forma volgare (cioè: comprensibile per il popolo), estremamente semplificata, irriverente e modernissima in ciò, nella quale viene confutata, raccontandone nuovamente il contenuto, l’autenticità di quella fonte, che è, realmente, fonte morale e giuridica. 
È significativo, parimenti, che l’evangelista Marco, nel dialogo con il filosofo Menippo (il quale confuta l’efficacia probatoria delle testimonianze sui miracoli di Gesù), venga fatto apparire un fanatico ed un mitomane[11].
Come si vede, l’ateismo del giovane Diderot è una teoria fortemente voluta; è la volontà di condurre alle conseguenze estreme il lavoro di controprova, sulla base delle fonti storiche, deIl’autenticità delle Scritture, che erano, fino a Pascal, prima di tutto le fonti della cognizione storica, ed in questo di ogni cognizione. Lo aveva fatto Toland, oscillante fra deismo ed ateismo; lo aveva fatto ancor prima Bayle, uomo di fede esasperata quanto di ragione esasperata, autore che Diderot lesse poco tempo prima di porre mano alla Promenade.
L’ateismo è un po’, per il giovane philosophe, quello che, con clausola di stile, potrebbe dirsi il suo “dopo-Bayle”: all’operato di Bayle viene dato seguito, con spirito di conseguenzialità radicale. Nella trama del racconto è Cleobulo - che subito dopo confesserà di credere nel “suo” principe - a proferire parole e frasi irriverenti. Dunque egli, per uno strano gioo­co di rifrazioni e di trasparenze narrative, è Bayle ma nello stesso tempo non lo è. Lo è perché è lui a riferire quelle cose, esponendo fatti realmente accaduti: perché si limita a leggere e a consultare le fonti nella lettera, senza non-vedere, come invece accade, per definizione, ai “ciechi”. L’irriverenza e l’oltraggiosità antireligiosa sono prima nella fonte, che nelle parole.
Egli è Bayle e non lo è - difficile entrare in questo recesso dell’animo di Diderot - quando lascia sopravvivere a quell’aspra confutazione il “principe” - e cioè, per restare con i piedi per terra, e nella trama del racconto, Cleobulo - così come il “filosofo di Rotterdam” aveva vissuto una singolare compatibilità fra l’esistenza di Dio e la forte irriverenza insita nel la­voro della sua ragione.





Ateo e la sua società

Se Ateo è un philosophe, ed è un ateo, egli è culturalmente tutto questo perché rielabora, in forma letteraria ed oggettiva, alcuni tratti filosofici del Seicento.
Nella discussione fra lui e i deisti vengono toccati due motivi salienti nel pensiero del secolo XVII: quello del Dio-orologiaio e quello delle api-automi: dunque in essa vi è il riesame, breve, di quelle tesi materialistiche (o non?), per i riflessi che esse avevano sul problema dell’esistenza di Dio.
La questione dell’ateismo, nella Promenade, attinge necessariamente alla filosofia del Seicento e più specificamente, nel momento stesso in cui necessariamente vi si confronta, alla cultura cartesiana in senso lato. 
Nel dialogo fra Ateo e il “cieco” è a quest’ultimo che Diderot fa pronunziare, con sottinteso antimetafisico, le celebri parole: cogito, ergo sum
Ma ciò che ritengo significativo è che in quel contesto venga ripresa e difesa, da Ateo, che l’ha già tradotta in proprio come principio morale, la questione bayliana della attuabilità di una “società di atei”.
È un particolare, questo, almeno così sembra, di capitale importanza, perché l’idea di Bayle è l’unico topos della cultura secentesca del quale Ateo si sia veramente appropriato. Gli altri sono subito avvolti dal dubbio; questo ha, invece, dignità di principio (della) morale: è un po’, per Ateo, ragione di vita, la forte convinzione che ne fa un philosophe e che condanna a morte i suoi figli. Il che significa che, dal punto di vista morale, Ateo è un po’ Bayle. Se ciò avviene, vuoI dire che anche nel giovane Diderot si manifesta l’efficacia storica della proposta bayliana.
Quella che potrebbe sembrare in un primo tempo la fantasticheria di un pensatore religioso, è forse la vera grande proposta atea del Seicento. La sua eco (nella ricostruzione di Cantelli, Vico e Bayle: premesse per un confronto) giunge anche all’orecchio del Vico il quale, reagendovi costruttivamente, scrive La scienza nuova. L’atteggiamento del filosofo napoletano è tanto più significativo perché egli coglie il legame fra quella “società” e la confutazione bayliana delle prove dell’esistenza di Dio.
L’autorevolezza di Vico ci dice, in certo senso, la portata storica della bayliana “società di atei”. Egli sostiene che essa non è mai esistita e dunque non è ipotizzabile, così come - nonostante la chiara opposizione fra i punti di vista - Voltaire, anch’egli sentendosi chiamato ad esprimere sulla questione il proprio parere, dirà, ricorrendo ad un sofisma, che non si possono considerare società atee quelle (l’allusione è ai cinesi) nelle qua­li, non ammettendosi Dio, non si pone nemmeno problema di ateismo.
Se quella di una “società di atei” è, dunque, una proposta suggestiva, ed è, in tal senso, la grande proposta atea del Seicento, ciò lo si deve al fatto che in essa vi è come una (avvertita?) astuzia storica.
Nel Libro delle comete di Bayle, la moralità degli atei del passato (Diagora, Evemero, Epicuro), essendo provata l’irreprensibilità della loro condotta, è onestà nonostante l’ateismo, ovvero la possibilità, storicamente collaudata, di una coesistenza effettiva delle due cose. Ma per il suo riflesso psicologico, e su un piano storico, essa è un coonestare l’ateismo mediante la morale; è opera, politica, di diffusione dell’ateismo. Come minimo, si potrebbe dire, Bayle poteva fare al caso di Diderot, politicamente, operativamente, almeno quanto Spinoza. È assai sottile, oggettivamente, il “filosofo di Rotterdam”: in quel modo egli, parlando della morale personale degli atei dell’antichità, introduce, e direi non solo de facto ma anche con fare scientifico, il discorso sul valore positivo, storicamente attuabile, della morale atea. Ma nel dialogo con l’uomo “delle spine” Ateo difende quel motivo bayliano solo dopo avere ripreso quello che direi il motivo storicamente più importante delle teorie di Bayle. Egli si è da poco fatto assertore della non necessità, per la deità di Dio, della riverenza degli uomini; che è un po’ l’antico discorso di Epicuro sulla beatitudine degli dèi, che in Bayle si trova riparlato, con un processo di desensibilizzazione teoretica (sacrificium intellectus, nell’espressione di Cassirer) ed in nome del bene di Dio (dell’idea di Dio come bene, liberato dal male che sono il mondo e la storia), per liberare Dio dagli uomini e dunque gli uomini da Dio.
Dice Ateo all’uomo “delle spine” che il (suo) “principe” “è sovranamente felice. Se basta a sé stesso, come dici - è la sua spiegazione - a che servono i tuoi voti, le tue preghiere e le tue contorsioni? O conosce da prima quello che tu desideri, o lo ignora assolutamente; e se lo conosce, è deciso ad accordartelo, o a rifiutartelo. Le tue gesta importune non gli strapperanno doni, le tue grida non potranno sollecitarlo”[12]. E a quel punto, quando il “cieco” crede di avere riconosciuto non Ateo, che non può ovviamente vedere, ma colui che ragionava in quel modo, che Ateo, quasi togliendogli la parola di bocca, difende la “società di atei”[13]
É legittimo, allora, il sospetto che Diderot non semplicemente faccia proferire ad Ateo parole bayliane, ma che Bayle sia un po’ entrato, come necessità storica, e come eredità morale, nella persona di Ateo.
È un’affermazione che non può essere assorbente dell’intero personaggio; non lo consente il gioco dialettico-letterario (davvero teatrale) che governa la Promenade. Ma a favore di essa militano, ritengo, (anche) due paginette del “discorso preliminare”, quelle[14] nelle quali Aristo, il presunto estensore del libro, sostiene, contro i consigli di Cleobulo, la non necessità della con­servazione di “certi” pregiudizi nel popolo, per il bene della religione e per l’onestà dei costumi[15]. È un altro dei nodi filosofici (tipicamente) bayliani; con una differenza sostanziale, rispetto a quanto avveniva nel filosofo di Rotterdam: che ciò che in lui poteva apparire solo compresenza (le due “polarità” di Cortese, e cioè l’“io diviso” di Bayle) - la critica della “tradizione” con/e la considerazione, solo fideistica, dell’autorità delle Scritture; il modo quasi-lockiano di sgretolare l’autorità dei pregiudizi con/e le professioni, volute, di “ortodossia”; la demolizione dei puntelli razionali (soprattutto quelli contemporanei) della fede con/e l’ammissione della realtà di essa - viene sottoposto ora al torchio della conseguenzialità razionale.
Lo scetticismo bayliano (il metodo dell’Accademia, alla quale tanto somiglia il “viale dei castagni”) viene liberato dalla (reciproca) negatività dei “poli”, dall’illusione che il pensiero di uno scettico non possa avere una direzione ben delineata. 
È come se il giovane Diderot volesse porre fine a questo gioco dualistico, e lo volesse fare liberando l’ateismo di Bayle da certa quale sua condizione di virtualità. Per gettare ancora uno sguardo alle maschere della Promenade: Ateo, in cuor suo, è Bayle; ma, per esserlo fino in fondo, egli deve liberarsi di quanto di bayliano sembra sopravvivere nel deismo di Cleobulo e Filosseno; ed il gioco, senza chiare vie d’uscita, può esser fatto ricominciare. 

(Rielaborazione da Nuovi studi politici, fasc. n. 1 del 1987)


[1] D. Diderot, La Promenade du sceptique, in "Oeuvres complètes de Diderot - Philosophie", Paris, Garnier Frères, 1875; trad. it.: La passeggiata dello scettico, a cura di M. Brini Savorelli, Milano 1984. Rinvio alla pregevole e raffinata Introduzione della curatrice. 
[2] Ivi, p. 95. 
[3] Cfr. ivi, p. 27.
[4] Ivi, rispettivamente pp. 27 e 59. 
[5] Ivi.
[6] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, trad. it., Bari 1972, p. 115.
[7] La passeggiata dello scettico, p. 64. 
[8] Ivi, p. 89. 
[9] Ivi, p. 90.
[10] Ivi, pp. 37 ss. 
[11] Ivi, pp. 50-52. 
[12] Ivi, p. 74. 
[13] Ivi, p. 75. 
[14] Ivi.
[15] Ivi, p. 11.

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