lunedì 16 giugno 2014

Note su Bayle e sul carattere progressivo della ragione (i confini mobili tra "foi" e "raison") (tratto dal libro del 1990)




l. - ll«Libro delle comete»


Preambolo

Bisogna distinguere la cronologia del pensiero filosofico, o me­glio il pensiero della cronologia del pensiero filosofico, dal pensiero (fi­losofico). 
Il pensiero, comunque, non dovrebbe dichiararsi disposto a farsi da cronologia... 



Descrizione del «Libro delle comete»

Ritorno, parlando di Bayle, ad alcuni anni fa, quando avevo letto in un romanzo una considerazione nella quale il protagonista, forse l'autore, addebitava alla propria educazione religiosa il fatto di avere pensato una volta, cimentandosi in una breve corsa, qualcosa come: «Se arriverò a quel lampione prima che sopraggiungano tre automobili, vuol dire che in giornata concluderò quell'affare». 
In un primo tempo una riflessione così fugace (una connessione mentale così rapida fra un modo di dire, un gesto e l'idea di educazio­ne), che pur si era ben impressa nella mia mente, non mi era risultata molto chiara, benché, come non avrei tardato a constatare, quel genere di scommessa con sé stessi ben si addicesse alla mia condotta; ma pro­prio a ciò, avrei compreso meglio in seguito, ovvero al fatto che si trat­tava di una mia consuetudine, era dovuta quella poca chiarezza. 
Il senso di quell'annotazione di ordine psicologico è più o meno il seguente: che quando si cerca in un fatto il «segno» di qualcosa che potrà o non potrà avvenire, un presagio insomma, è come si consultassero le viscere degli animali, o di fanciulli immolati dalla crudeltà d'imperatori, oppure il volo degli uccelli; mostrando, fuori di ogni appello al naturalismo della morale, in questo modo, quale sia la reale forza della ra­gione nei confronti della «educazione», ovvero di tutto ciò che alla ra­gione tende a sottrarsi, per comodità della vita.
Ci si aggira insomma in un campo, suggestivo, ove tutto alla fine appare sospettabile di non essere il vero ma l'utile, nel quale è come si avesse cura di coltivare solo le superstizioni, i pregiudizi (tutto essendo in qualche modo riconoscibile come un pregiudizio), nel quale l'idola­tria, il fanatismo sbocciassero come immagini con molti colori. 
Per me fu questo sapere ad un tratto dove potessi trovarmi, in fon­do, il primo approccio con la cosiddetta filosofia dell'illuminismo. Questi concetti erano iniziati - era non il primo approccio, ma in sostanza il primo che fosse veramente sentito, con l'illuminismo - per me, dopo qualche tempo, per influsso diretto dei Pensieri diversi su una cometa di Pierre Bayle: dove le comete sono una realtà evidente, ma dove esse in realtà sono la manifestazione del pensiero che le interpreta in quanto segni.
Quel libro, che a suo tempo poté parermi pedante, e anche troppo legato alla sua età, ad ogni rilettura oggi si mostra invece ricco di una razionalità inaugurale (concatenazione razionale che inaugura nel suo fare l'illuminismo). Essa oggi si mostra negli abiti di una bella e pro­fonda anticipazione della più grande (nel senso di celebrata) temperie ­ illuministica, ma in fondo - lo dico ripensando alla difficoltà di determinare (quantificare) quel fenomeno della nostra civiltà di pensiero - già illuminismo (e tale non solo perché cartesianismo metodico e prudente delle «idee chiare e distinte», oppure, al fondo, delle «due sostanze»). 
Il titolo, più lungo di quello qui trascritto, e che non restò invaria­to nel susseguirsi delle edizioni, si spiega con l'apparizione della come­ta del dicembre del 1680, in un'epoca, direi così, di apparizioni di co­mete, e soprattutto in un'epoca sensibile culturalmente a tali fenomeni. Dopo quella del 1664-1665 - è la cronaca - la Francia sembrava es­sere precipitata in una crisi profonda: alle disavventure belliche della guerra d'Olanda si erano aggiunte la depressione economica, le carestie, le morie di animali e le pestilenze.
La cometa apparsa nel 1680 (evento naturale, la cometa, si badi bene) dunque, aveva suscitato nell'opinione pubblica un'ondata di pre­visioni pessimistiche: senza che gli uomini di scienza e i «dotti» pensas­sero ad una confutazione. 
Se tutte codeste cose vengono oggi in rilievo, però, ciò significa che i tempi, allora, in certo senso erano abbastanza moderni, perché da quel modo di vivere gli eventi naturali, accentuato da certa drammatici­tà storica, non dovesse scaturire il bisogno di una interpretazione.
La questione degli influssi delle comete sulle cose umane - dice la ricostruzione storica - era molto sentita nella cultura francese già da tempo: a coloro che ne fornivano una spiegazione formalistica si contrapp­onevano quanti adottavano invece la linea «cartesiana» dell' «orienta­mento antimagico»: già allora per esempio era ben determinata la contrap­posizione, inesauribile, dell'astrologia all'astronomia. 
Fu in questo contesto l'«effettività» (della paura e) della supersti­zione (e furono secondo taluni i pregiudizi di un certo "dottore di Sor­bona"), che se non era infondata dal punto di vista psicologico, era an­che il retaggio di un'antica ignoranza («I fisici - scrive Bayle - non sanno come veramente [le comete] si formino. Gli astrologi ammirano i loro movimenti e le loro dimensioni, senza riuscire però a capirci gran­ché», a spingere Bayle a scrivere una «Lettera» sulle comete, abbrac­ciando di fatto la linea cartesiana. Ma una serie di circostanze lo indusse poi a dare ulteriore sviluppo ai contenuti, fino a ricavarne un lavoro che andava ben al di là delle proporzioni originarie.

I Pensieri crebbero, per ammissione dell'autore, come una città, cioè disordinatamente; secondo un'immagine successiva del «signor Des Cartes», intorno all'antico borgo (la città, diremmo noi, storica) sorsero tante case, di grandezza e gusto diversi, senza un piano preordinato. Infatti nel Libro il succedersi degli argomenti appare piuttosto una concatenazione letteraria, che logicamente sistematico; non vi è metodicamente una proposizione che vada dimostrata (la filosofia del  «sistema»), e una concatenazione espressa ad esempio fra la dimostrazione e il corollario; e vi è piuttosto per i vari argomenti e soprattutto episodi, avvenimenti, che formano l'oggetto del pensiero, il modo diverso di pensare, com­mentando fatti dell'epoca; ciò che dà luogo ad una certa quale impres­sione di discontinuità. La stessa questione dell'influsso che le comete eserciterebbero o no sulle cose umane viene abbandonata dopo la parte iniziale dell'opera, per essere ripresa, sembrerebbe a bella posta, negli ultimi paragrafi.
Colpisce, nel libro, la varietà degli argomenti, legati alla vita storica, che vi sono trattati: vi è la possibilità di scomporlo in un serie di li­briccini: riflessioni sulle conversioni degli ugonotti, riflessioni sulla pace di Nimega, riflessioni sui costumi - e la diffusione della magia, e la decadenza morale - alla corte di Caterina de' Medici, riflessioni sulle abitudini o manie di Alessandro il Grande e di Luigi XI di Francia, ecc.
Si potrebbe parlare di uno stile giornalistico, a proposito del Libro delle comete, uno stile sensibile all'attualità dei problemi e piuttosto co­municativo: e tale impressione non può dirsi errata, perché Bayle scriveva per i demi-savants (che sono la raffigurazione di «pubblico»), per coloro cioè, appartenenti per buona parte alla classe dei mercanti, che non dedicassero molto tempo allo studio e alla cultura. Lo stile però non si risolve, ad un più attento esame, nell'attualità degli argomenti di cui lo scrittore si occupa, e in esso si addensa o si raccoglie altro: in genera­le a mano a mano che si procede nella lettura viene in risalto una sorta di opera civilizzatrice, o di bonifica, da parte della ragione. Il sentore di una civilizzazione proviene dal fatto che il lavoro della riflessione sia, nel suo andare fuori delle mura accademiche, moneta circolante, un mercato delle idee, oggettivo; perché in ciò emerge il progetto della ragione, di attuarsi.
L'unità, profonda, dei Pensieri è da cercare nei contenuti di codesta opera civilizzatrice, e in una sorta di senso del dovere: il filosofo­-scrittore avrà la sua qualità in ciò che si sarà riusciti, paradossalmente, a strappare a codesta sua attitudine di autore per i demi-savants. Nella pluralità e nella eterogeneità dell'oggetto vi è in realtà, dal punto di vista del pensiero, la scoperta di una unità del pensiero nell'oggetto. 
Dunque non si può negare che nonostante  le impressioni di di­scontinuità, eterogeneità di problemi ecc., l'unità dell'opera sia profon­da. I fatti di attualità, quelli che si prestano ad essere definiti «cronaca», sono, dal punto di vista filosofico che contraddistingue il modo come essi sono trattati nel Libro delle comete, le piccole cose, ovvero le cose del mondo nella loro mondanità. La quale mondanità, oltre che una me­ra discesa dal monte Olimpo, ovvero dal cielo teologico, oltre che qual­cosa di avvolto ancora nella sensazione di un allontanamento, è lonta­nanza, l'apparire dell'«essere» come «storia» oggettiva. 
La ragione civilizzatrice - questo è un suo sintomo evidente - il dovere di ragione, nel quale l'illuminismo dal punto di vista della inter­pretazione può avere il suo riconoscimento,  ha  i  suoi corollari:  non  si può fare politica in base ai presagi, non si può credere negli influssi si­nistri delle comete, o delle eclissi, così come non si può ritenere che gli uomini agiscano in base alle proprie opinioni o princìpi, o alla propria religione; oppure che l'intolleranza sia benefica per lo Stato e per la so­cietà. Temi apparentemente estranei l'uno all'altro - il discorso sulle passioni e quello sulla magia alla corte di Caterina  de' Medici; oppure fra le comete come cause e i princìpi  di morale o religiosi  come cause - allora si nota come abbiano le loro connessioni, proprio a causa e del mondanismo e del deontico che caratterizza la filosofia bayliana.
Tutto questo è il frutto conclusivo di una filosofia coerente e vi­scerale del realismo spicciolo, che è liberata storicamente a causa del metodo cartesiano: «[...] il menomo motivo di dubbio che troverò ba­sterà per farmele tutte rifiutare».
Bayle funge da anello di congiunzione tra la filosofia cartesiana e i grandi illuministi che verranno dopo di lui. L'unità di un libro come le Riflessioni si annida appunto, in considerazione di codesto profilo di continuità storica, nella ragione, che si è data il compito d'illuminare, di schiarire, e che in ciò si è riconosciuta come un dovere.
In altre parole: da una parte i Pensieri (per essere Bayle anche scrittore, che non sta sui libri) sono documento del passato: per il modo come sono nati, per i contenuti, per il riscontro immediato che hanno con la realtà del tempo, della quale, appunto, parlano molto, essi s'incontrano, nella sensibilità di chi ami le cose storiche, con le antiche Cronache e valgono a introdurre  il lettore nel clima culturale di ime Seicento. Ma essi, dall'altra parte sono, per il fervore morale che li caratterizza, il «Libro delle superstizioni».
Perché, in certo senso, è vero che il «Libro delle superstizioni» - avverandosi nel profondo dell'economia delle cose ciò che disse Seneca della filosofia morale, che su di essa si era detto già tutto, ma non si sarebbe mai detto tutto - non finirà mai di essere scritto: è un libro uma­namente funzionale. Ragione e superstizione, in fondo, sono convertibi­li l'una nell'altra, ed una spiegazione, nella forma delle cause, di ciò è che vi è fra di esse il legame dell'opposizione. In realtà la ragione vera, anche quella che s'identifica con la volontà di civilizzare, di fronte alla superstizione e ai pregiudizi, non è quella che semplicemente li guarda e li disprezza; ma sente piuttosto che nelle superstizioni si addensano cose molto importanti per la coscienza, filosofica, dell'uomo. Così forse è ben fatto che Bayle abbia riflettuto molto sulle comete dal lato di Dio; perché poi razionalizzare Dio per il percorso della ragione è un che d'ineludibile.


Ragione, o progressismo cristiano?

Il Libro delle comete presenta aspetti devozionali - quali in Bay­le permangono - e ha una generale intonazione religiosa; non tanto e non solo, direi, per certa fraseologia o certe immagini - conservate - come quella dei «demoni», che fanno e disfanno, di un bigottismo pagano e popolaresco (che pure qua e là affiora); ma nel senso che la prima impressione che si ha nel cominciare la lettura è di trovarsi di fronte a motivi che furono già propri dell'antica apologetica cristiana. 
Questa sensibilità bayliana per l'apologetica si manifesta ad esem­pio laddove egli si domanda: l'idolatria dei Gentili, perché non ha avuto apologeti? Si trattava - è la risposta - «di una causa perdente in partenza» e cioè: «Era una causa così debole che non era necessaria davvero molta abilità per metterne in risalto l'inconsistenza, né d'altro canto nessuna eloquenza [neanche quella del «terribile Carneade»] era in grado di sostenerne la debolezza». 
Bisognerà vedere cosa vi sia realmente (oltre cioè al sentimento cristiano della fede) dentro la tanta avversione bayliana per il paganesi­mo. E se non costituisce risposta esauriente, è un sintomo, una vera trac­cia, quello suggerito dalla immagine di una debolezza razionale delle argomentazioni (possibili) a favore del paganesimo, debolezza che non è nell'arte dell'argomentare. 
Dunque: apologetica e non apologetica. 
Se bisogna prendere sul serio la rassicurazione  che accompagna costantemente, a causa della sua novità, il lavoro della ragione in Bayle e cioè, per ciò che qui interessa, il concetto che i mali del cristianesimo sono dovuti al cattivo retaggio dei costumi pagani, allora si nota una eco di certo progressismo cristiano: ritenendo per progressismo cristia­no il fatto che in una determinata epoca storica il cristianesimo, per la sua ragionevolezza in quanto teoria, sia valso più (e  possa essere sempre così, all'apparenza, finché resti traccia di paganismo nella con­dotta dei cristiani) del culto pagano. 
Il filosofo, nel voler dimostrare come l'antichità e l'universalità di un'opinione non siano un segno di verità, richiama un passo di Minucio Felice, dove si dice che «tutto è incerto fra gli uomini, ma più tutto è incerto, più è il caso di meravigliarsi che alcuni, per la repulsione che provano di fronte a una ricerca esatta della verità, preferiscono abbracciare temerariamente la prima opinione che si presenta anziché approfondire le cose a lungo e accuratamente». In questo passo, che Bayle con spi­rito scientifico si affretta a rettificare sostituendo quel «più è il caso di» con un «meno è il caso di», in realtà egli è come se ritrovasse se stesso, nella possibilità, e nel dovere quasi, di coniugare il suo cristianesimo con il suo progressismo. 
Io proverei ad accostare quindi i due pensatori sotto tale profilo, muovendo dalla considerazione che entrambi, in quanto progressisti e cristiani allo stesso tempo, sono accomunati, per la fama, dal fatto di avere condotto, essenzialmente, una critica dell'idolatria: la quale occupa tanta parte del Libro delle comete e che parimenti può essere ritenuta uno degli argomenti più persuasivi (per il fatto di rifondare la questione della natura degli dèi) per l'abbandono, da parte di un pagano come Ce­cilio, della sua buffa religione. 
L'Ottavio di Minucio si domanda se possano essere venerati come divinità semplici uomini solo perché distintisi per il bene fatto ad altri mortali: «In conclusione - secondo lui - gli dèi non si reclutano né fra i morti, perché Dio non può morire, e neanche fra quelli che sono nati, perché tutto ciò che nasce è destinato a morire: è divino solo ciò che non ha né inizio né tramonto». 
All'argomento, trasparente dal punto di vista della logica (in esso la ragione acquista, sul terreno della religione, una sua personalità), viene aggiunto del colore, attraverso una immagine molto efficace: «Sono divinità quelle statue destituite di sensibilità in bocca alle quali i topi fanno il nido?». 
L'accostamento tra i due pensatori (Minucio e Bayle) è reso possi­bile dal fatto che il progressismo e la personalità della ragione si ha sempre, al di là delle differenze di epoca, in ciò: che l'ingegno si faccia portatore di un'idea, religiosa, che salvi la bocca delle statue, divine, dai topi, che salvi il Dio liberandolo dagli idoli e riconoscendogli una ben maggiore dignità di quanto l'arbitrio umano non gli dia; se, quasi, il fare il nido, dei topi, può essere paragonabile  all'agire, arbitrario, degli uomini. 
Dopo secoli di cristianesimo vissuto, Bayle illustra i caratteri ridi­coli del culto pagano, ed anche gli aspetti di crudeltà ad esso inerenti: e in generale l'impressione che si rinnovelli l'idea di un progressismo cri­stiano è dovuta al fatto che oggetto della critica resta il paganesimo, ov­vero l'idolatria (ritenuta pagana per definitionem e peggiore dell'atei­smo), e la supposizione  inevitabile che la filosofia bayliana, come si può evincere dal carattere e dai contenuti stessi dell'argomentazione, sia in fondo un riacutizzarsi (il riacutizzarsi, nell'epoca) della sensibilità per temi cari al cristianesimo. 
Non si possono avere dubbi, del resto, come si dice, sul conto del­la fede di Bayle, sulla sincerità del suo sentimento religioso: e si dovrà credere a maggior ragione in codesta sincerità, però, se si considera l'argomento «invincibile» - così egli lo definisce - per provare la ne­cessità della grazia. 
Quella sincerità si pone cioè in questi termini: che la diffusione della religione cristiana, la cultura cristiana, è una cosa distinta rispetto alla religione del «cuore»; che una cosa cioè è che nessuno dubiti «della divinità della religione cristiana» o che nessuno ritenga «una favola quanto si dice dell'altra vita», ovvero la conoscenza della verità evange­lica, e altra cosa è il sentimento religioso come verità del cuore, e cioè: naturale «disposizione di cuore tale da farci trovare più gioia nell'eser­cizio della virtù che nella pratica del vizio». 
Anche se Bayle non dice «naturale», ma vede il collegamento (si parla di grazia) fra Dio e «lume del nostro spirito», si ha qui l'impressione che in quel collegamento vi sia l'apertura al discorso su una mora­le naturale. 
Dopo secoli di cristianesimo vissuto, Bayle illustra i caratteri ridi­coli del culto pagano, ed anche gli aspetti di crudeltà ad esso inerenti: sembra proprio di leggere, in una simile constatazione, la metafora sto­rica delle guerre di religione, ove il sangue è denotativo, per avervi un legame, di ciò che si presta all'ironia razionale, cioè - per Bayle: c'è un passo dove ricorre questa sensazione di trasparenza semantica - di Dio. Che senso ha, ci si dovrebbe domandare cioè, sottoporre a critica i costumi pagani in un'epoca che si definisca cristiana, se non quello di criticare, obiettivamente, i costumi cristiani? E poi l'altro, dell'andare ad incidere storicamente, attraverso la critica del cristianesimo reale, nel cristianesimo ideale? La religione in realtà, come apparato teorico, diviene sempre di più oramai in Bayle (questo accadeva in generale nelle controversie religiose dell'epoca, essendovi dietro la controversia il bi­sogno di giustificare razionalmente ciò che altrimenti sarebbe stato opi­nabile dogma di fede) questa o quella religione, dunque un che di soggettivo, essendo la profonda direzione storica del suo pensiero, soprat­tutto nella prospettiva religiosa, la ricerca di una possibile inattaccabile verità di ragione. 
Nel fatto che non solo il paganesimo ma anche il cristianesimo siano sottoposti alla disamina attenta, e paradossale comunque, da parte della ragione (che in questo si serve della documentazione, dell'ausilio voluto come inoppugnabile di fatti certi), non vi è forse chiaro segno, innanzitutto, e il bisogno storico, di una rinnovata forza critica della ra­gione? 
Questa forza critica inoltre non necessariamente s'identifica con ciò che secondo certa interpretazione (che è diversa da quella che ammette in Cartesio come decisiva la possibilità di una autonomia della fe­de religiosa e della morale rispetto all'opera razionale e scientifica) avrebbe fatto Cartesio: rifondare con il dubbio la religione su basi pure razionali, salvare quindi con una operazione di recupero la religione. Già in Cartesio infatti, si potrebbe dire, il debito accumulato dalla religione verso la ragione sembra quasi insolvibile. 
La domanda dunque è: ragione, o progressismo cristiano?, e la sua formulazione può essere anche un'altra: che cosa interessa più a Bayle, criticare i costumi pagani, ovvero i costumi cristiani in quanto ancora pagani, ché tali in fondo, per lo scetticismo e di fronte al senso storico delle ricostruzioni (storiche) sono e non sono; o non piuttosto, essendo i costumi tali, prima di tutto umani o storici, scindere la religione (in quanto rivelazione, e dunque debito inestinguibile) dai costumi, ed interessarsi essenzialmente di questi?
La risposta, guardando al fondo del problema, non potrà non essere in un primo tempo, per così dire, salomonica. I Pensieri sono il libro scritto da un cristiano contro i pregiudizi e l'ignoranza dei cristiani; in altre parole nel pensiero di Bayle sono compresenti i due aspetti: da una parte la critica della vecchia (al confronto di una intelligenza attuale, più curiosa dei costumi) società cristiana, quasi fosse vista da un più moderno (più teorico intelligente) cristiano, o meglio: da una parte il bisogno dì purificazìone religiosa e religiosa purificazione dei costumi, del cristianesimo; dall'altra la constatazione della necessità storica di certi costumi e in generale un atteggiamento storico positivo nei riguardi della morale e un atteggiamento razionale positivo nei confronti della storia, che è indice di un cammino effettivo della ragione. 
Il pensiero di Bayle si muove sempre, in fondo, in un modo, in un mondo dualistico, in un'aria intensa di scissione, quale è, storicamente, il mondo della devozione e della superstizione, in cui (con Cartesio) si sia aperto per così dire il varco per la possibilità di un'uscita; il pensiero bayliano anzi è lo sviluppo, dato per svolgimenti, al dualismo del pen­siero (di qui, su terreno interpretativo, la identificazione della ragione bayliana con la ragione scettica, oppure certa supposizione di un suo legame, sentimentale, col manicheismo); e in tal senso i comi del dilem­ma, interpretativo, per quanto attiene alla sua filosofia sono quelli: della autocastigazìone della morale cristiana da una parte, per produrre altra morale cristiana per la mera perpetuazione di morale dello stesso stam­po, e della crescita dall'altra del lato razionale, civile, dell'uomo euro­peo. 
Vi è poi, a tenere il giudizio nella incertezza, il profilo assai im­portante della natura delle conclusioni che il filosofo nel suo scetticismo e moralismo deve trarre dai suoi ragionamenti particolari: che cosa serve a farci riconoscere la ragione? in un contesto, ciò non va dimenti­cato, di morale e di cultura cristiana?
E bisogna però convenire sulla duplice verità: che se la scepsi è per buona parte il frutto della remora religiosa e fideistica, ciò appartiene al Bayle «soggetto», nel quale difficilmente può dirsi si risolvano gli sviluppi storico-obiettivi del suo pensiero. 
Se è vero che senz'altro e non solo in un primo tempo un certo (persino) animus, una ostinatezza cristiana sembra inestirpabile dal pensiero di Bayle, è anche vero che in lui sono all'opera, come un che di decisivo per la storia del pensiero, il sentimento della necessità storica, l'estraneità alla intelligenza che concluda, una spontanea tendenza allo schiarimento, alla verità
di ragione. Ma, oltre a dir questo, e per disinca­ gliare qui il giudizio dalla prudenza, si può fare ricorso al buon senso per considerare che se Minucio scriveva in un'epoca nella quale il cri­stianesimo forniva le risposte più ragionevoli e persuasive ai bisogni progressivi, il progressìsmo di Bayle può rappresentarne l'inversione, per cui non vi è tanto un nuovo dio, quanto piuttosto la liberazione (una uscita di Dio) dall'arbitrio umano, dall'Umano, dun e dalla storia, mediante la razionalizzazione dell'uomo e non di Dio. E' evidente dunque come il progressismo bayliano debba avere un'altra natura, quella sua propria natura, o spirito, per cui di lui è stato detto come fosse «in contraddizione con la sua fede». 
Si è notato così prontamente, dagli interpreti, come in lui la religione debba vedersela con la ragione.
In altre parole: quale può  essere considerato realmente il suo obiettivo, visto che esso consiste in una società cristiana che si liberi alfine dai costumi pagani? Finché essa resterà idolatrica (pagana) (ma la infiltrazione, diciamo così, di costumi pagani nel cristianesimo si rivelò ab antiquo una necessità storica), essa in che senso non potrà dirsi cri­stiana, se non secondo il canone dettato da una rinnovata razionalità? Si tratterà allora di una società tanto più cristiana quanto più razionale, e dunque di una società comunque più razionale. Il che può essere confer­mato dal fatto che in tale società ciò che accadrà di nuovo sarà che an­ che il cristianesimo (rappresentandosi in ciò l'uscita dal medioevo e dalla filosofia dell'lmperium) avrà la sua giustizia e la sua libertà. Nella quale varrà, storicamente, come premessa, che la ragione umana non re­sti più nella condizione di essere assorbita nel suo progressismo perché vittoriosa contro l'oscurità dal cristianesimo. 
Riproponiamo la questione, se è vero che quella contraddizione tra Bayle e la sua fede può essere superata. Egli sostiene che Dio non interviene continuamente, ovvero direttamente, nelle cose umane, e che queste sono regolate da «leggi generali di natura». 
Dio, per definitionem, non può non essere un ottimo legislatore e come tale egli non può derogare alle leggi «generali di natura» che ha stabilito, oppure modificarle spesso. Egli non può volere il particolare ma il generale e quindi i suoi interventi nella storia dell'umanità avvengono (dovrebbero in teoria avvenire) solo in casi eccezionali, attraverso i miracoli. 
Che senso ha dire codeste cose, teologico-filosofiche, nell'epoca o nella terra nella quale il «miracolo» anche nel suo strano e profondo nesso con la magia, è un campo tipico di combattimento?
Questa (del rapporto fra legge generale, miracolo e Dio), che è più o meno la costruzione bayliana, si presta a due interpretazioni, che paio­no opposte. Da una parte, con mentalità non religiosa, se ne può dedurre che le comete, le pestilenze, gli eventi infausti vanno ritenuti naturali e che alla ragione resti il compito (con la coscienza certo del suo limite) di indagarne le cause; dali'altra, per quello che è il modo provocatorio di porre le questioni da parte di Bayle, che l'abilità della ragione consista nel saper separare, non altrimenti che per negativum, il naturale dal cosiddetto miracoloso. Se il primo punto di vista, quello non religioso, ovvero quello per così dire esteriormente naturalistico, non si addice almeno come punto di partenza al pensiero bayliano, più umanistico che naturalistico (sia pure, come sarà ripetuto in seguito, tutt'altro che estra­neo al naturalismo) e più religioso che irriverente, l'altro gli è congenia­le, proprio perché de facto il risultato del suo metodo è questo porre questioni irresolubili laddove prima di lui esse non lo erano semplicemente in forza della fede. L'irresolubilità come la debolezza, o la stessa ragione che solo nega e distrugge, sono in lui l'elemento nuovo, che s'insinua e conquista il suo posto, dunque si pone come risultato storico di pensiero fra l'uomo e Dio, proprio come «spirito» (l'irresolubilità è per così dire «costitutiva»). 
Gli avvenimenti che si credono miracoli, se per solito mancano motivi sufficienti per affermare che lo sono, ciò si deve alla negatività della ragione umana, nel senso che di essa ragione (ovvero nei termini in cui essa può avere sue certezze) solamente è ragionevole che si parli. 
Stando così le cose, fino a che punto resterebbe da stabilire quanto sia importante o addirittura prioritario, per quella stessa ragione che ha assimilato in fondo canoni naturalistici, e che in
qualche misura li rap­ presenta per la storia del pensiero filosofico, capire quando ci si trovi, veramente, in presenza di un miracolo? 
Dicendo questo, in realtà si dice altro: che vi è una caratteristica, nel naturalismo acquisito da una moderna ragione, per cui esso non potrà mai distinguere, all'infuori della mera opinione, o del sentimento, il naturale dal miracoloso. 
Questo (si ricolleghi il discorso al senso di apertura che già si ha nella descrizione del sentimento di fede come religione del cuore e cioè «disposizione di cuore»: supra) può contribuire a spiegare in che senso la ragione, secondo Bayle, in casi del genere, debba per così dire cercare un rifugio nella rivelazione, dare per scontati i miracoli di Gesù o il dividersi delle acque del Mar Rosso al passaggio degli ebrei. La rivela­zione è una cosa, è in contrasto stridente con la ragione, e la ragione è un'altra, certo; ma l'irresolubilità è, si diceva, costitutiva e per un uomo come Bayle, che ha dato grande impulso storico e carattere costruttivo proprio all'uso della ragione negativa (che schiarisce cioè perché nega; ma i risultati della sua ragione non sono negativi) ciò equivale ad una inversione di tendenza nella riflessione sul rapporto fra i due «poli», di fede e di ragione. 
Parallelamente, per quello che è il nostro argomento, si nota come il filosofo faccia la seguente considerazione: «Supponiamo che un bandito uccida nel fitto di un bosco uno sconosciuto, sapendo soltanto che è necessario disfarsene per impadronirsi delle sue spoglie; se dal suo assassinio nasceranno poi infiniti disordini o infiniti benefici, non per questo la sua colpa davanti a Dio sarà maggiore o minore». In questo brano, dove l'intonazione è religiosa, si specchia un concetto che prende corpo nella seconda parte dei Pensieri attraverso un'accentuazione della diversità nei criteri valutativi fra la mente divina, la giustizia divi­na, e quella umana. 
Ciò sembra fondamentale in Bayle, ciò che è storico in lui - al­trimenti egli non avrebbe sollevato in certi termini il problema - non è (tanto) il pensiero e il bisogno morale attivo della conciliabilità fra due mondi (due «città »), il far da ponte, quanto quello della profonda diver­sità di essi. L'uso della ragione, che è definita essenzialmente come ciò che nega e che così effettivamente procede, in lui ha questo scopo, obiettivamente: di tagliare i ponti fra il mondo della perfezione e quello della imperfezione. 
Le riflessioni sul male possono essere significative a questo ri­ guardo, perché vi emergono (articolo Pauliciani, del suo Dizionario) due punti significativi. Il primo è che per il principio inattaccabile di conseguenza, per cui ab actu ad potentiam valet consequentia, il male (fisico e morale, secondo la tradizionale partizione) esiste nel mondo pur dovendosi presumere, pensando il libero arbitrio come concessione, la volontà di Dio come bene; il secondo è quello che si trae da una citazione dal Cicerone del De natura deorum, dove (lib. III, 27) vien detto che: «[ ...]dal dono non appare evidente la natura del donatore, né d'al­tra parte se chi l'ha ricevuto ne fa un buon uso , non per questo chi l'ha dato l'ha dato da amico»; per cui (detto con parole di Bayle) «[...] la migliore e più naturale risposta che si possa dare alla questione "perché Dio ha permesso all'uomo di peccare?" è dire:"non ne so nulla, credo soltanto che Dio, per agire così, abbia avuto delle ragioni degne in tutto e per tutto della sua infinita saggezza, ma che mi rimangono incomprensibili » . Il pensiero della irriducibilità dei due mondi (l'aria, intensa, di scissione, di cui si è fatto cenno sopra) è come l'atto stesso del pensiero razionale: tutto il Libro delle comete sembra essere la razionalizzazione, condotta all'estremo limite, della diversità dei due mondi. Il pensiero è, semplicemente, conseguente, perché il principio d'inconci­liabilità deriva per conseguenza da quello di diversità. La diversità , quale s'impone come coscienza dovuta al procedimento negativo del pensiero, in tal modo è un valore positivo e in ciò progressivo, che avvia al­ la insensibilità quasi come categoria e come valore; ciò si avverte e si riassume in fondo nel cosiddetto sacrificium intellectus, che è la formu­la di Cassirer: sacrificare, con l'uso, la ragione, che così diviene terrena, alla morale. «Sacrificio» è in tale contesto bayliano una parola indicante il porsi e l'affermarsi di ciò che si dice si sacrifichi, e non la sua disso­luzione: qui infatti si apprezza il punctus saliens di ciò che si suole defi­nire filosofia mondana, quella stessa del Giove invecchiato di Bruno, perché la ragione rende col «sacrificio» tutto (o quasi) terreno: ma è poiché essa così libera il (ritenuto) divino dal «terreno», che il primo viene reso impenetrabile (ricorso alle Scritture) e contenibile nello scri­gno della fede e della soggettività. 
In certo senso ciò non deve sorprendere, potendo spiegarsi con l'elevato grado del sentimento (calvinista) della trascendenza (divina) il fatto che Dio per il bisogno religiose ma prima razionale di purificazione, venga in tal modo allontanato dall'uomo e la giustizia divina sia posta nel cuore degli uomini, chiedendo troppo al povero cuore, che è quello che è; nello stesso tempo quindi essa diviene un che di assai più alto- assoluto, libero da ogni legge (per l'etimo) - rispetto alle loro teste. De facto, il «sacrificio» quindi significa che l'uomo viene allonta­nato, tanto filosoficamente quanto moralmente, da Dio. Un solco è già tracciato, obiettivamente: la definizione di ciò che sia «miracolo» va in certo senso (dal punto di vista della interpretazione) messa da un canto: ad essa non compete più il nocciolo vitale della questione, e il rilievo va dato, invece, all'idea, crescente, di una diversità ed inconciliabilità (dei due mondi, divino e umano). L'ipotesi della proposta bayliana di un cri­ stianesimo più intelligente e progressivo, o quanto meno più problema­tico e aduso al dubbio, rivela la realtà di un pensiero, di una morale del pensiero, che perché filosofia mondana ha già segnato la sua strada ­ lastricandola di solida riflessione. 

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