Il grande conflitto - autore Bert Hellinger, psicoterapeuta sistemico tedesco - è uno di
quei testi, direi di onesto empirismo, nei quali si riportano i risultati di
corsi ed esperienze terapeutiche; dunque uno di quei libri che chiedono al
lettore di saper vedere nel materiale documentato per cogliervi - per quella
che è nel nostro caso l’esegesi storica mediante l’interrogazione del rapporto
fra psiche e realtà - significati di atti, fatti e cose, che appartengano al
“non-ancora-pensato”.
Perché mi occupo di questo libro,
capitatomi fra le mani per consiglio di un amico, non italiano (e faccio qui
riferimento a una edizione milanese del 2006)? Forse anche perché l’amico non è
italiano; e comunque perché mi ha dato modo di soffermarmi, senza dover
rinunciare al mio scetticismo nei confronti delle scienze della psiche (e anzi
rafforzandolo), su angoli e risvolti inquietanti, fortemente ombrosi, della
mente umana, laddove la soluzione terapeutica pur efficace non sembra in grado
di estirpare dall’animo e dal comportamento conflitti e distruttività.
Qui, segnatamente, vorrei intrattenermi su
alcune pagine del capitolo (il quarto) che l’autore dedica al rapporto
fra ebrei e tedeschi, laddove attraverso tale rapporto si esamina
brevemente quello, di psicologia religiosa, fra ebrei e cristiani.
A tale riguardo due aspetti mi hanno
incuriosito: innanzi tutto il fatto incredibile (ma perché pensato fuori di
certa ovvietà) che gli ebrei abbiano potuto riversare nel rapporto (successivo)
con i palestinesi quanto sofferto (precedentemente) ad opera dei tedeschi:
forse è lecito, solo perché accade, che altri comunque patisca per opera mia,
ché io e meglio qualcuno al mio posto ha patito, sino alla cancellazione della
dignità umana. Ma questo aspetto, comunque inquietante, può essere
spiegato da un altro profilo, che insiste sul rapporto più ampio (ma collegato)
fra il Dio dei cristiani e il Dio degli ebrei.
Si muove da un episodio, riferito dal noto
scrittore ebreo Elie Diesel: in occasione della impiccagione di un bambino in un
campo di concentramento tedesco, cui tutti gli internati come sempre accadeva
erano stati costretti ad assistere, qualcuno chiese: “dov’è Dio, in tutto
questo?” E la risposta di Diesel è/fu la seguente: “è lì, appeso”; come dire:
“sei cieco, non lo vedi?” Ma le cose evidentemente per una frase così ad effetto non dovevano essere molto chiare.
Ora, se la domanda (e cioè: dov’è
Dio?) è pressoché rituale, ché non vi è testimone - recentemente sentivo
parlarne Alberto Sed, deportato a Birkenau, durante un incontro - sopravvissuto
a un campo di sterminio nazista che non continui a chiederselo più o meno
candidamente (già!: viene in mente per certe versi proprio il Candide di
Voltaire!), non lo è la risposta, la quale ha un suono diverso, più cupo,
rispetto ai filosofemi più o meno cristiani, più o meno cattolici, nei quali si
cerca sempre di trovare nei fatti, sino i più atroci, una dimostrazione della
esistenza di Dio (credo quia absurdum, ovvero: rimozione).
La risposta qui non è: “Dio (forse) si era
voltato dall’altra parte”, o: “Dio (forse) voleva mettere duramente alla prova
la fede del suo popolo”; e neppure "Dio è morto, ucciso dagli uomini"; e non è nemmeno: “Dio era assente”; o quanto meno non
lo è, limitatamente a quest’ultima spiegazione, pur più stimolante, nel modo consueto. Quanto meno,
se Dio era assente non lo era nemmeno nel senso che Egli non esiste ma per
molti versi per quello che Egli è, a causa della sua natura.
Tanto insomma la sensibilità religiosa avrebbe potuto riconoscere in quel bambino impiccato non propriamente Dio ma il bambino Gesù,
quanto essa non sarebbe riuscita a sottrarsi all’obbligo di salvaguardarne la natura
divina: risposta quindi ebraica, non ebraico-cristiana, né cristiana.
Ora, se si approfondisce e si giunge a
dire: Dio era assente perché era Lui quel bambino, allora si chiarisce e non;
ma la risposta non è banale, non si addice a chi non sa vedere. Dio in quel
campo di sterminio era presente-e-assente, perché se quel bambino era quanto
meno il figlio di Dio, allora egli era stato abbandonato dal Padre. Ma - ecco
l’ebraismo - l’una cosa e l’altra vanno date come compatibili, quasi
necessariamente coesistenti. I confini sono labili; ma se così non si dà
ateismo (“se c’è stato Auschwitz, non può esserci Dio”: Riccardi, lettera
ad Alberto Sed, Firenze 2009), allora si dà ebraismo.
Chi è dunque che non vede; dove sarebbe la
cecità, per conseguenza? Il Gesù dei cristiani a differenza di quello ebraico,
per quanto ne dice Hellinger, è un Gesù a fronte della cui passione e morte
violenta e disperata, è la resurrezione che va privilegiata immediatamente; il
Gesù dei cristiani è per così dire triumphans - non debole,
non straziato nelle carni, non terrorizzato da certa quale indifferenza del
Genitore che lo lascia morire -, che siede subito e dev’essere così da sempre
alla destra del Padre. Scrive il nostro Autore: “Gli apostoli non riuscirono a
sopportare la verità che Dio avesse abbandonato Gesù” e aggiunge: “La persona
di Gesù e il suo destino umano non possono essere cancellati con la fede nella
resurrezione” (pag. 76). Evidentemente rispetto a certa quale cecità cristiana
(un non voler vedere, un non voler sapere) il Dio ebraico è un ente diverso;
Egli in certo modo non è “rimozionale”: qui è l’abbandono dell’uomo non come
eccezione ma a causa della natura stessa di Dio che predomina; qui la persona (:
corpo e psiche) di Gesù è data quasi in contrasto sia pure compatibile, non sprovvisto di spiegazioni, con la
Potenza del Padre. Già: se Dio è tutto... ma sempre nel groviglio delle passioni e in ciò diverso, lontano dagli dèi antichi di Epicuro...
Risuona allora nella mente chiara e
significativa la eco della passione e morte del Cristo sulla croce; l’urlo, che
se rappresenta il dolore atroce rappresenta anche il sacrificio
dell’uomo innocente: “E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: ‘Elì,
Elì, lamà sabactanì?’. Cioè: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’”
(Mt. 27,46; cfr. Mc. 15,34). Laddove due sono gli elementi che dovrebbero
essere ma spesso non lo sono enfatizzati: il sacrificio (dell’innocente) e
l’abbandono, che in qualche modo così viene a caratterizzarlo.
E ne emerge la verità, ma anche qui dal
punto di vista logico cova l’assurdo (un altro credo quia absurdum ed
è netta la contraddizione, che comunque sta in piedi): che Dio non sarebbe
(tale) se non abbandonasse gli uomini, proprio nei momenti in cui essi più
assurdamente soffrono, al loro destino; potendosi spiegare solo in questo modo
(oltre che ovviamente con la maggiore linearità e razionalità dell’ateismo) che
la storia trabocchi di sacrifici umani - il Male -, puntualmente rimossi o
sublimati da tanta psicologia ma a cui gli uomini stessi (ché Dio in certo
senso “è quello che è”) dovrebbero porre riparo. Potendo il popolo eletto da
Dio, solo con simili argomentazioni, salvaguardare Dio dagli uomini.
Il mistero, comunque, resta; al di là
delle differenze religiose o delle rimozioni, e direi che mistero altrimenti
non si darebbe, con buona pace dei credenti e meglio creduli beoti che sempre
se la cavano con spiegazioni poco verosimili; o degli scettici, che sanno
trarsi fuori della mischia sostenendo che Dio è al di sopra delle teste degli
uomini, ai quali dunque non è dato interpretarne autenticamente né la condotta
né il pensiero.
Ma se il mistero resta, nella qualità di
spiegazione della storia o di aspetti importanti della storia, è perché
l’abbandono è un sentimento fondamentale, più e diversamente umano
rispetto alla stessa agape cristiana. Come dire: la
contraddizione va tenuta ferma, non va mai “superata”.
Dunque sembra essere l’abbandono, non
l’amorevole paterna vicinanza e cura, la spiegazione di tante atrocità subite
dagli uomini: poveri, deboli, indifesi.
Ma al di là della intelligenza delle cose,
che al popolo ebraico sembra appartenere, come resta il mistero così è
dimostrato da Hellinger - riallacciandosi alla storia di una malattia quale è
stato politicamente, culturalmente il Terzo Reich - che la terapia in fondo non
guarisce; se guarisse, infatti, certe cose non sarebbero mai accadute. E a
questo punto si resta dubbiosi: sembra che la intelligenza religiosa possa solo
poter tradurre l’atroce che è nell’uomo nella indifferenza divina.
Ma bisogna anche ritenere che se ogni
possibile discorso in cui si rifletta sui risvolti, sulle ombre profonde o su
caverne che saranno tali finché si spiegherà con la psiche ciò che solo un Dio
dell’abbandono può spiegare, e quindi anche buona parte del senso della storia,
sembra quasi ristagnare nell’immagine del sacrificio di un solo popolo, questo -
ché l’una cosa rischia di mescolarsi troppo con l’altra - ci deve certo educare
prima che distrarre.
Già pubblicato in raccolta in Europa Giovani, in data 3 maggio 2010
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