Paul Virilio, urbanista e filosofo
francese, aveva pensato, alcuni anni fa, che accanto a un museo della scienza e
della tecnica vi fosse posto anche per un cosiddetto museo degli incidenti.
E così, nel 2002, come a corredo di un suo
scritto di allora, L’incidente del futuro, e sotto la sua regia,
artisti di ogni parte del mondo avevano fornito per quella mostra singolare
ciascuno la sua personale rappresentazione dell’incidente.
Paul Virilio |
Inevitabile che tra gli episodi più
raffigurati vi fosse l’orribile strage dell’11 settembre; ma non era il solo
profilo dell’effetto criminale voluto la questione e invece, pur restando il
principio inalterato, quanto sul fallimento dell’uso ordinario dei mezzi
tecnici incidesse qualcosa che non era attribuibile alla volontà e alla
consapevolezza. A quel tempo i segnali provenienti dalle compagnie assicurative
parlavano chiaro: nell’utilizzo delle macchine gli incidenti ne avevano
superato l’effettivo funzionamento, e con riferimento a ciò si poteva costruire
il pensiero che la rincorsa alla innovazione come tale equivalesse a un uso
abnorme della tecnologia.
Si era già al riflusso?
Probabilmente nella mente di Virilio la tecnica era
già percepita come la troppa tecnica, o la tecnica incontrollabile, o il troppo affidarsi alla tecnica, se si
poteva allestire una collezione al fine di non dimenticare che inventare le navi vuol dire
inventare il naufragio; inventare il treno vuol dire inventare il
deragliamento. Inventando l’aereo abbiamo anche inventato l’incidente aereo.
L’invenzione insomma veniva a configurarsi non semplicemente come invenzione
della cosa ma come presupposto per il fallimento del suo uso. Frutto forse - mi
domando - della stessa natura umana, che immette nella invenzione il suo stesso
limite; o non piuttosto più semplicemente natura dispettosa degli oggetti quasi
fossero demoni; o in generale natura della materia?
Il principio filosofico dell’incidente e
dell’uso abnorme - centrale a quanto sembra per la mente di Virilio - è
riferibile agli oggetti e tecnologie di ogni tempo, a iniziare da quelli più
semplici dell’antichità e dalle intuizioni di Aristotele; ma esso ha maggior
forza se applicato a quelli più complicati e “intelligenti” del nostro tempo,
nel quale la dipendenza di persone e fatti dalla tecnica e dai suoi oggetti è
assai più accentuata. Nel quale cioè è irrazionale nascondersi che ogni entità
e non solo quella umana è finita, racchiude cioè in sé il suo limite.
E di qui l’idea, che sta dietro quella mostra singolare: se è il limite, in
fondo, ciò che la tecnologia rimuove, allora si ha un depotenziamento
dell’uomo, non un suo potenziamento.
La “protesi” dunque non appare più come
un’amplificazione delle performance dell’uomo attraverso una loro
virtualizzazione ma una mutilazione; il risultato è con sempre maggiore
evidenza - e ricollegherei questo pensiero a McLuhan - proprio un’automutilazione
di ciò che è umano, se è sempre più ridotto l’uso del “corpo vivente” a
vantaggio del “corpo morto” della macchina.
Altri tempi? Già, perché non basta
ricordare. Gli anni passano, inesorabilmente, e la tecnologia cresce con la
dipendenza da essa; il black-out è sempre lì, temibile, in
agguato, ché l’incidente potrebbe essere l’incidente totale, il disastro. E
così si è rimandati regredendo dalla paura dell’incidente atomico (il “proprio
se la bomba H non esplode”, che Heidegger comprese avere cambiato il mondo,
alla lucida coscienza che in ogni mezzo tecnico si racchiude il possibile
incidente, o l’errore di funzionamento.
Altri tempi - ripeto -? Ma anche
considerando il fatto che non si possono avere occhi per la sola tecnologia e
dovendo tenere conto realisticamente delle condizioni generali in cui essa
trova sviluppo, si avverte quasi il bisogno di nuovi teorici, che sappiano
diagnosticare provocatoriamente su ciò che nelle cose rassicura; che lo
facciano con intelligenza e toni drammatici, come ha fatto Virilio. Sempre
l’ottimismo tecnologico, che vede progresso e bene dovunque si abbiano idee e
progetti della tecnica, dovrebbe essere controbilanciato da un certo quale
catastrofismo, che non è necessariamente un male.
Rielaborazione di quanto già pubblicato in raccolta su Europa giovani il 31 gennaio 2011
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